Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 20 nr. 174
giugno 1990


Rivista Anarchica Online

Gandhi abita ancora qui?
di Tiziana Ferrero

Che cosa è rimasto, oltre 40 anni dopo la sua morte, dell'insegnamento di Gandhi e del suo modello di autogoverno e di sviluppo? Intervista a Jain Jawahirlal, teorico del movimento Sarvodaya. Il ruolo di Vinoba Bave, discepolo di Gandhi, considerato l'ideatore di una particolare forma di "anarchismo indiano".

Sono le sei del mattino e il Pink City lascia la New Delhi Station in perfetto orario. Cinque ore di viaggio comodo (il Pink City è un treno veloce e abbastanza confortevole, soprattutto se paragonato al comfort medio dei treni indiani che è molto basso) ci porteranno da Delhi a Jaipur, capitale del Rajasthan, la terra dei rajà, e prima tappa del nostro secondo viaggio. A metà del percorso il paesaggio comincia a cambiare, la temperatura sale, la pianura brulla e a tratti coltivata che circonda Delhi si trasforma poco a poco: i colori sono quelli del deserto, tutto è roccia rossa, ocra , terra di siena bruciata, le colline emergono improvvise e poco prima di Jaipur si cominciano a vedere i bastioni di difesa di antichi palazzi o villaggi che corrono per centinaia di metri seguendo il saliscendi delle colline. L'aria predesertica rende il cielo di un blu secco. I nostri compagni di viaggio appartengono decisamente a classi più agiate di quelli incontrati sui treni per Lucknow e parlano perfettamente inglese. Stanno commentando i primi risultati delle elezioni politiche; 800 milioni di indiani (uno più, uno meno) sono come fermi, in attesa: il governo di Rajiv Gandhi probabilmente non avrà la maggioranza. C'è tensione in tutta l'India, gli incidenti tra musulmani e indù sono numerosi. Maledetta aria condizionata: il mio raffreddore non guarirà più!
La stazione di Jaipur è la solita caotica stazione ferroviaria indiana: le grida dei coolie (facchini), che ti assalgono per portarti il bagaglio per poche rupie - una cosa che continua a imbarazzarmi molto - l'odore delle polpette di verdura fritte nell'olio di semi vari, i profumi dei mille curry, la puzza acre dei combustibili usati per friggere, la gente che se ne sta sdraiata sui marciapiedi dei treni in attesa di partire, o, semplicemente, perché quella è la loro casa. In compenso Jaipur è più bella di quanto ci aspettassimo. La città nuova ha strade abbastanza ampie, è molto verde e il traffico, anche se caotico, non è chiassoso, esasperante e inquinante come a Delhi.
Lasciamo i nostri bagagli in un'antica residenza di nobili rajasthani, oggi albergo gestito dall'ultimo discendente (lontanissimo da quei principi salgariani che da bambini ci fanno sognare, ma in compenso un perfetto e discreto gentiluomo). La nostra camera è il doppio - credo - della casa in cui abito io a Milano, è molto decadente, ma qui si respira un'atmosfera che non ritroveremo in nessun altro albergo "indian style" - veramente molto indian, e molto poco style.
Finalmente siamo nella sede del Rajasthan Khadi Gramadyag Sarath sangh, una bella costruzione, molto semplice al suo interno, con ampi corridoi che immettono negli uffici. Qui si coordina e organizza l'attività di 125 piccole industrie che si trovano in altrettanti villaggi, che producono il Khadi, il tessuto di cotone confezionato su telaio a mano. Gandhi cominciò proprio da qui la sua rivoluzione, usando, ed esortando a usare, solo abiti tessuti in proprio e rigorosamente a mano, rifiutando gli abiti confezionati in Inghilterra col cotone indiano e lì rivenduti. Ci accoglie un uomo anziano, minuto, capelli bianchi, vestito alla maniera classica indù: dhoti (pantaloni) e casacca bianchi, gilet abbottonato di lana color caffellatte e cappello a busta. Il segretario del Rajasthan Khadi è molto impegnato, ma ci porterà da un uomo interessante, il presidente di varie attività produttive del Khadi, scrittore, teorico del movimento Sarvodaya, nonché discepolo di Gandhi.
Jain Jawahirlal è un uomo semplice, il ritratto perfetto di Gandhi: piccolo, magro, uno sguardo profondo e azzurro che infonde calma e serenità, avrà circa settant'anni, anche lui è in dhoti. Ci accoglie nella sua casa, semplice ma molto dignitosa. Dopo esserci tolte le scarpe, ci sediamo sul tappeto per terra e cominciamo l'intervista.

Sviluppo e progresso di tutti
Ci può parlare brevemente del movimento sarvodaya?
Il movimento sarvodaya fu fondato da Gandhi. La sua idea era quella di creare una nuova società che fosse nonviolenta. A quell'epoca l'India si trovava sotto il dominio britannico, mentre noi volevamo essere liberi di poter determinare il nostro futuro. Il movimento di liberazione è stato il primo gradino per formare la società sarvodaya.
Cosa significa sarvodaya?
Il nome è stato dato da Gandhi e significa letteralmente sviluppo e progresso di tutti, non prosperità della maggioranza, di un piccolo gruppo, né tanto meno di un singolo. Non dobbiamo mai dimenticare che noi avevamo in casa gli inglesi, che erano - e sono - una società del profitto, governati da un parlamento guidato dalla maggioranza, mentre Gandhi non credeva in questa forma di governo: ne voleva uno dove ci fosse il consenso di tutti e che operasse per il bene di tutti. E prima di formare questa società era necessario che l'India fosse libera; il popolo indiano, che doveva decidere del proprio futuro, doveva avere dentro di se i concetti dell'autogoverno. Ma sfortunatamente Gandhi non visse a lungo: fu ucciso proprio nel momento in cui l'India dichiarò la propria indipendenza, ma ha fatto in tempo a tramandarci i principi-base della Società sarvodaya. Gandhi è stato un grande oratore, ci ha lasciato solo tre libri; Civiltà occidentale e rinascita dell'India, scritto durante il suo soggiorno in Sudafrica; in La nonviolenza come liberazione individuale e collettiva spiega quali devono essere i comportamenti individuali e, nel terzo, Gandhi elenca le azioni da intraprendere per costruire in pratica la società sarvodaya, e quali sono le forme politiche ed economiche che si deve dare. Gandhi non era un uomo teorico, ma pratico; egli non insegnò come avrebbe dovuto essere la società sarvodaya, ma come dalle idee si poteva arrivare alla pratica; formulò anche una serie di programmi sociali che, realizzati, avrebbero portato alla società nuova, in cui tutti collaborano e che dà lavoro a tutti. Tutta la gente deve partecipare al governo economico e sociale della società, che deve soddisfare gli interessi in tutti. Gandhi non credeva in una società di classe né in un governo formato da una classe che dominasse sulle altre, come la società comunista che vuole la dittatura del proletariato. Anche la forma di governo pluritaria esprime comunque il dominio della classe politica sul resto della società. Inoltre Gandhi era contrario alla formula politica maggioranza-opposizione, perché una società deve operare per il benessere di tutti.

Piccolo è bello
Ma in pratica come era possibile arrivare all'autogestione in un paese così grande e così densamente popolato, con molta povertà e gravi problemi sociali?
L' organizzazione politica doveva essere decentrata e il potere nelle mani del popolo, della base, cioè il villaggio, che doveva gestire la propria vita. Per questo Gandhi la chiamò autogestione del villaggio: ogni attività doveva essere decentrata. Sia il mahatma che Vinoba Bave erano contrari a qualsiasi forma di potere centralizzato e alla riforma parlamentare, perché qui le decisioni sono sempre prese alla maggioranza.
Vinoba Bave usava dire che il 51 per cento della gente aveva il 100 per cento dei diritti e il 49 per cento zero. Infatti qualsiasi decisione presa da un parlamento viene presa con una maggioranza minima del 51 per cento. L'autogoverno di Gandhi si basava sul panchajat, il consiglio degli anziani e dei saggi del villaggio; qui le decisioni non venivano prese dal 51 per cento ma con il consenso e sentendo le opinioni di tutti; nel caso in cui non si fosse raggiunta l'unanimità, bisognava almeno arrivare alla non opposizione.
Questo è il governo del consenso, non quello del voto e mi sembra molto vicino all'idea anarchica dell'autogoverno decentrato. Per Gandhi, dunque, ogni iniziativa doveva essere presa dalla base, e questa era la direzione in cui ci si doveva muovere.
E come era possibile organizzare economicamente una tale struttura?
Allo stesso modo, Gandhi fu molto chiaro nella sua visione dell'economico. Non credeva nelle grosse concentrazioni di industrie, di scambi commerciali e di banche. Voleva piccoli agglomerati industriali che danno lavoro a tutti, non voleva la meccanizzazione, che solleva sì l'uomo dalle fatiche, ma che crea disoccupazione. Nella società capitalistica c'è la produzione di massa, con un ridotto numero di persone che producono la quantità maggiore di prodotti; invece per Gandhi erano le masse che dovevano produrre; ogni individuo, anche i bambini, doveva partecipare alla produzione e ognuno doveva fare un qualunque lavoro manuale. In ogni società con una larga fetta di ricchi che consuma molto c'è anche un gran numero di poveri che consuma poco o niente. Quest'economia non avrebbe futuro se tutti partecipassero alla produzione; ciò eviterebbe una meccanizzazione forzata e, di conseguenza, la disoccupazione. Gandhi non era contro le macchine in quanto tali, ma solo contro quelle che tolgono lavoro; qualora ci fosse una macchina che rende il lavoro piacevole o meno faticoso, quella può essere usata, ciò significa che "piccolo è bello". Se si rinunciasse ai grandi concentramenti industriali, tra l'altro, si consumerebbe meno carburante, e anche l'ambiente ne trarrebbe profitto.
Gandhi si trovò certamente anche a dover affrontare il problema delle caste. Come pensava di risolverlo?
Dal punto di vista sociale, Gandhi credeva nell'uguaglianza. In India, voi sapete, c'è molta gente povera. La posizione della popolazione indiana è ineguale per via delle caste. Per elevare quelle più basse, gli intoccabili per esempio, bisogna dare educazione e lavoro. Solo attraverso queste si può pensare di creare uguaglianza. Naturalmente voi sapete che la società sarvodaya deve essere realizzata con la pratica della nonviolenza.

Proprietà privata e socializzazione
Vinoba Bave fu un discepolo di Gandhi e fondatore di quello che può essere definito "anarchismo indiano". Ci può raccontare qualcosa di lui?
Vinoba Bave, prima di conoscere Gandhi, pensava di andare in Himalaya a vivere là mendicando, ma poi ebbe l'opportunità di ascoltare il mahatma a Varanasi. Rinunciò alla sua idea, scrisse a Gandhi e in seguito iniziò a vivere con lui. Aderì in pieno all'idea economica, politica e sociale gandhiana e fece molti esperimenti di autogestione. Lavorava 12-14 ore allo spinning-wheel (filatoio, ndt). Con il mahatma partì da Ahmedabad e andò a Wardha, vicino a Bombay, dove fondarono il primo ashram (insediamento, letteralmente, ndr), il Sabarmati. Fino alla morte di Gandhi, Vinoba Bave non ha mai avuto un ruolo pubblico, si limitava a seguire le indicazioni del maestro. Alla sua morte prese la leadership del movimento gandhiano e organizzò due importanti movimenti: il bhoodan (terra data, ndr) e il gramdam.
Per il movimento bhoodan si spostò nel paese chiedendo ai proprietari terrieri di lasciare parte delle loro proprietà ai poveri. Inaspettatamente i latifondisti aderirono alla richiesta e gliele consegnarono, in quanto era il rappresentante dei "senza terra", circa un sesto della popolazione. Questo, in poche parole, il discorso che teneva ai proprietari terrieri: "Consideratemi come il membro nullatenente di una famiglia di sei persone. Quindi lasciatemi un sesto delle vostre terre " . Chiunque lavori in un'azienda agricola deve essere proprietario della terra che lavora. Ciò significa che non devono esserci latifondisti, ma solo contadini che lavorano la propria terra e vivono liberamente. Milioni di acri vennero così donati a Vinoba Bave, che, per dovere di cronaca, si muoveva a piedi e per tre volte in dieci anni percorse tutto il paese. Capì però che la pura donazione di un sesto delle terre dei ricchi non avrebbe risolto il problema dei senza terra. La proprietà privata della terra originava l'ineguaglianza, perché il solo possesso della terra, anche se non lavorata, incrementa il suo valore, come un capitale depositato in banca. Come si può accettare una tale società? Questo il motivo per cui per Vinoba Bave tutta la terra e i capitali avrebbero dovuto essere socializzati.
A questo punto fondò il movimento gramdan, attraverso il quale propose che fosse il villaggio nel suo insieme a possedere le terre. I contadini le potevano usare, lavorare, ma non dovevano considerarle come loro proprietà. La terra era un bene comune, sul quale non si aveva il diritto di vendita, ma solo quello di lavorarci. Così Vinoba Bave andò dai contadini a dire che dovevano donare la terra al villaggio, ed era l'assemblea del villaggio a decidere la quantità di terra individuale. Migliaia di villaggi aderirono al movimento gramdan. Qui in Rajasthan abbiamo più di 150 villaggi. Da allora, però, le adesioni non sono più incrementate.

Il senso della comunità
Come fu possibile, per un uomo solo, avere un così ampio seguito?
Né con la forza, né con le armi, ma solo facendo appello ai valori più alti di questa gente, il senso della comunità.
Vinoba Bave morì nel 1975: cosa accadde al movimento sarvodaya e qual'è il suo futuro?
Gandhi ci ha indicato la via, ma siamo lontani dalla realizzazione della società sarvodaya. Oggi non c'è un movimento organizzato per continuare l'opera del mahatma e di Vinoba Bave. Ma i lavoratori sarvodaya sono impegnati in vari programmi formulati da Gandhi; uno di questi era per l'appunto la rivoluzione del khadi. Ci sono migliaia di gruppi e di villaggi che lavorano con noi per realizzare quest'obiettivo, ma non c'è al momento nessun movimento organizzato e non abbiamo nessuna leadership che possa coordinare i lavoratori sarvodaya, ma speriamo nello sviluppo di qualche gruppo che si muova in questa direzione.

L'intervista è terminata, restiamo a parlare dell'Italia, dell'anarchia, di Gandhi. Il tè è sempre troppo dolce e c'è troppo latte, ma tant'è, è l'unica cosa sicura che si possa bere in India. Jain Jawahirlal riceve nel frattempo parecchie telefonate. C'è tensione nella Città Vecchia, qualcosa accadrà. E infatti l'indomani mattina verremo a sapere che ci sono stati quattro morti, due indù e due musulmani, e attentati ai negozi. Tutta Jaipur è sotto il coprifuoco, non possiamo muoverci dall'albergo. Generalmente si ha del popolo indiano l'idea che sia un popolo non-violento per natura, ma le tensioni che covano in un tale crogiolo di culture prima o poi esplodono. Gli uomini sarvodaya aspettano forse un nuovo "messia"?