Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 20 nr. 174
giugno 1990


Rivista Anarchica Online

A nous la libertè
diario a cura di Felice Accame

Un caso di subdola misoginia

Non è la prima volta che il cosiddetto "umorismo nero", al cinema, si affida ad un narratore, sul quale inizia e ogni tanto torna la macchina da presa, che gode del duplice privilegio di staccarsi a piacere dalla vicenda narrata e di farne ugualmente parte in veste di protagonista.
Un classico della mia infanzia, con Alec Guinness in non so più quanti ruoli, fu "Sangue blu" (1949, per la regia di Robert Hamer, con Dennis Price e Valerie Hobson, nomi e volti ormai semidimenticati anche dagli spettatori più incalliti), una sorta di grottesco sterminio di famiglia finalizzato alla sospirata e risolutiva eredità. Meno inoffensivo di quanto possa sembrare, ora, in questa tradizione un po' tirchia s'inscrive La guerra dei Roses, un filmetto diretto da Danny De Vito e interpretato da sé medesimo con i due inseparabili amici ("All'inseguimento della pietra verde", "I gioielli del Nilo") Katleen Turner e Michael Douglas.
Le sue carte, il film, le punta furbescamente sulla confezione di una crisi di coppia in versione sadomasochistica estrema: un divorzio tipico della commedia americana, insomma, servito in nero. Il risultato è un ibrido che una certa attenzione iperrealistica della regia rende spesso allettante, ma, a mio avviso, il cemento fondamentale che tiene in piedi l'insieme è una forsennata misoginia (di cui, peraltro, De Vito è recidivo: basti ricordarne quel "Ruthless People" del 1986, distribuito in Italia sotto il significativo titolo di "Per favore, ammazzatemi mia moglie").
Quest'imputazione non vorrei sembrasse superficiale. Qualcuno potrebbe dire che sì, di certo il film rappresenta un personaggio dalle chiare attitudini alla misoginia, ma che ciò altrettanto certamente non basta ad etichettare come misogino il film stesso: una cosa è ciò che dice un personaggio e tutt'altra cosa è ciò che, meno esplicitamente, dice un film nel suo complesso. Il che mi pare ovvio. La misoginia di De Vito, infatti, va cercata ad un livello più profondo del film, e precisamente nella logica sottesa allo sviluppo narrativo.
Si parla, dunque, di una coppia improvvisamente in crisi. Hanno due figli ormai grandi, hanno una bella casa, non si fanno le corna, lui ha fatto carriera, lei sembrerebbe amare lui e lui sembrerebbe amare lei. Ma lei, in casa, coltiva l'amicizia di un gatto e lui di un cane... Oppure: lui dà a lei la battuta per un raccontino spiritoso a cena con gli amici, e lei ci tergiversa sopra. Si noti che è lei a deludere lui nella conviviabilità sociale (precetto inevitabile dell'americano medio), e si noti, soprattutto, che è lei a dissacrare l'imparzialità dovuta dai coniugi all'animale domestico dell'altro. Dal momento che il film vuol vendere una vera guerra casalinga, combattuta all'ultima goccia di sangue (non soltanto di appartenenza dei belligeranti), giunge presto il nodo narrativo in cui l'amore decade - e così la coppia come tale - e lascia il posto alla caccia assassina, come in un western giocato fra salotto, bagno, cucina e solaio. Bene, di questo momento decisivo manca una qualsiasi sensata ragione: mentre lui "non capisce" e sbandiera fiducioso il suo amore per lei, quest'ultima al di là di generiche dichiarazioni d'insoddisfazione non va; il suo rifiuto a protrarre il matrimonio e la sua dichiarazione di guerra ci vengono presentate più come un caso clinico d'improvvisa schizofrenia, che come l'argomentato coronamento di un dissidio realmente vissuto da due persone umane. La guerra pretestuosamente assegnata ai signori Roses è soltanto la guerra della signora Roses ad un pacifico marito. Qui, subdolamente, sta la tesi antifemminile del film; e il fatto di presentare un personaggio manifestamente misogino e sfruttatore della subalternità femminile rende ancora più sottilmente subdolo l'inganno. E' come se De Vito ci dicesse: vedete come calco la mano? È segno che scherzo...
Ridiamoci sopra tranquillamente. Ma non è il primo, né sarà l'ultimo, a manipolare astutamente narrazioni cinematografiche per truccare l'aspetto dei propri valori.