Rivista Anarchica Online
A nous la libertè diario a cura di Felice Accame
Un caso di subdola misoginia
Non è la prima volta che il
cosiddetto "umorismo nero", al cinema, si affida ad un
narratore, sul quale inizia e ogni tanto torna la macchina da presa,
che gode del duplice privilegio di staccarsi a piacere dalla vicenda
narrata e di farne ugualmente parte in veste di protagonista.
Un classico della mia infanzia, con
Alec Guinness in non so più quanti ruoli, fu "Sangue blu"
(1949, per la regia di Robert Hamer, con Dennis Price e Valerie
Hobson, nomi e volti ormai semidimenticati anche dagli spettatori più
incalliti), una sorta di grottesco sterminio di famiglia finalizzato
alla sospirata e risolutiva eredità. Meno inoffensivo di
quanto possa sembrare, ora, in questa tradizione un po' tirchia
s'inscrive La guerra dei Roses, un filmetto diretto da Danny
De Vito e interpretato da sé medesimo con i due inseparabili
amici ("All'inseguimento della pietra verde", "I
gioielli del Nilo") Katleen Turner e Michael Douglas.
Le sue carte, il film, le punta
furbescamente sulla confezione di una crisi di coppia in versione
sadomasochistica estrema: un divorzio tipico della commedia
americana, insomma, servito in nero. Il risultato è un ibrido
che una certa attenzione iperrealistica della regia rende spesso
allettante, ma, a mio avviso, il cemento fondamentale che tiene in
piedi l'insieme è una forsennata misoginia (di cui, peraltro,
De Vito è recidivo: basti ricordarne quel "Ruthless
People" del 1986, distribuito in Italia sotto il significativo
titolo di "Per favore, ammazzatemi mia moglie").
Quest'imputazione non vorrei sembrasse
superficiale. Qualcuno potrebbe dire che sì, di certo il film
rappresenta un personaggio dalle chiare attitudini alla misoginia, ma
che ciò altrettanto certamente non basta ad etichettare come
misogino il film stesso: una cosa è ciò che dice un
personaggio e tutt'altra cosa è ciò che, meno
esplicitamente, dice un film nel suo complesso. Il che mi pare ovvio.
La misoginia di De Vito, infatti, va cercata ad un livello più
profondo del film, e precisamente nella logica sottesa allo sviluppo
narrativo.
Si parla, dunque, di una coppia
improvvisamente in crisi. Hanno due figli ormai grandi, hanno una
bella casa, non si fanno le corna, lui ha fatto carriera, lei
sembrerebbe amare lui e lui sembrerebbe amare lei. Ma lei, in casa,
coltiva l'amicizia di un gatto e lui di un cane... Oppure: lui dà
a lei la battuta per un raccontino spiritoso a cena con gli amici, e
lei ci tergiversa sopra. Si noti che è lei a deludere lui
nella conviviabilità sociale (precetto inevitabile
dell'americano medio), e si noti, soprattutto, che è lei a
dissacrare l'imparzialità dovuta dai coniugi all'animale
domestico dell'altro. Dal momento che il film vuol vendere una vera
guerra casalinga, combattuta all'ultima goccia di sangue (non
soltanto di appartenenza dei belligeranti), giunge presto il nodo
narrativo in cui l'amore decade - e così la coppia come tale -
e lascia il posto alla caccia assassina, come in un western giocato
fra salotto, bagno, cucina e solaio. Bene, di questo momento decisivo
manca una qualsiasi sensata ragione: mentre lui "non capisce" e
sbandiera fiducioso il suo amore per lei, quest'ultima al di là
di generiche dichiarazioni d'insoddisfazione non va; il suo rifiuto a
protrarre il matrimonio e la sua dichiarazione di guerra ci vengono
presentate più come un caso clinico d'improvvisa schizofrenia,
che come l'argomentato coronamento di un dissidio realmente vissuto
da due persone umane. La guerra pretestuosamente assegnata ai signori
Roses è soltanto la guerra della signora Roses ad un pacifico
marito. Qui, subdolamente, sta la tesi antifemminile del film; e il
fatto di presentare un personaggio manifestamente misogino e
sfruttatore della subalternità femminile rende ancora più
sottilmente subdolo l'inganno. E' come se De Vito ci dicesse: vedete
come calco la mano? È segno che scherzo...
Ridiamoci sopra tranquillamente. Ma non
è il primo, né sarà l'ultimo, a manipolare
astutamente narrazioni cinematografiche per truccare l'aspetto dei
propri valori.
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