Sospetto e temo
fortemente il declino o forse persino la scomparsa di una
fondamentale capacità umana: quella di conversare. Non parlo
della chiacchiera, dello scambiarsi informazioni, dell'affermazione
delle proprie idee, della schermaglia e del duello verbale;
piuttosto intendo quel gioco libero del conversare che si muove
fluidamente tra le cose, i pensieri, gli argomenti e i sentimenti,
che crea nello scambio spesso qualcosa di inaspettato e talvolta
conduce oltre le proprie convinzioni ad una benefica deriva. Una
conversazione felice è terapeutica: è un buon
massaggio per la mente, qualcosa che ci fa riscoprire il senso di
comune umanità che spesso ci sfugge. Ma perché l'arte
di conversare sta scomparendo? Mi limito ad azzardare alcune
osservazioni. In primo luogo a causa di
un modo ansioso di percepire il tempo, scandito dagli impegni
quotidiani, dai ritmi di lavoro, un modo di pensare e vivere in cui
time is money e non si può sprecare, Ora per una
conversazione felice ci vuole tempo, senza sentire il ticchettio
dell'orologio, abbandonando l'assedio degli impegni e dei
doveri. Cristopher Lasch nel suo libro L'io minimo disegna
il ritratto della persona nell'epoca della "cultura della
sopravvivenza"; prevalgono la frammentazione dell'io, il senso
di vuoto, gli apparati difensivi per sopravvivere al peso
schiacciante della società di massa, la paura dell'intimità;
condizioni queste che minano alla base la reale possibilità
di comunicazione tra persone, perché la vera comunicazione
è un incontro con l'altro che ci porta oltre i nostri limiti
abituali, limiti che in tempi di sopravvivenza tendiamo a tenerci
ben stretti. Una conversazione felice per contro ha bisogno della
fiducia. E per comprendere chi parla dobbiamo ascoltare, re-imparare
ad ascoltare anche noi stessi mentre parliamo, soprattutto in
quei momenti in cui azioniamo il pilota automatico e ci lasciamo
andare ai giudizi surgelati, alle affermazioni firmate, alle
conclusioni in saldo. Se non tolleriamo di pensare ciò che ci
è più distante, distruggiamo alla base la possibilità
del dialogo. E del dialogo, della capacità di avvertire il
simile nel dissimile e il dissimile nel simile, abbiamo assoluto
bisogno. Sembra a prima vista paradossale che nella cosiddetta
civiltà della comunicazione debba scomparire la
conversazione. Eppure oltre le apparenze ciò che chiamiamo
comunicazione andrebbe più propriamente definito
trasmissione. Comunicare, ci ricorda Danilo Dolci nel suo bel
libro Dal trasmettere al comunicare (Edizioni Sonda, Milano
1988), è mettere in comune, corrispondere all'altro,
modificarsi nel rapporto. Quelle che abitualmente chiamiamo
comunicazioni di massa sono in realtà trasmissioni dai pochi
che detengono il potere di trasmettere ai molti che hanno solo il
potere di ricevere. Il sistema delle comunicazioni di massa ci ha
abituato ad essere ricevitori e ripetitori. Negli allucinati
dialoghi dei personaggi delle commedie di Ionesco ritroviamo in
forma lampante scambi verbali a comunicazione nulla. Ma se
osserviamo le molte conversazioni quotidiane cui assistiamo o
prendiamo parte potremo notare come, più spesso di quanto si
pensi, lo scambio comunicativo sia nullo. E' possibile anzi
arrivare a sostenere che proprio il modello di comunicazioni di
massa dominante socialmente accettato contribuisca a mutare
sostanzialmente anche le comunicazioni quotidiane tra le persone. In
primo luogo si fa sempre più sentire l'esigenza di essere ben
informati, quasi che non si potesse comunicare senza disporre delle
ultime notizie del telegiornale. In questo caso ciò
che facciamo valere nella conversazione è il nostro
saperne di più dell'altro, in qualche modo la nostra
superiorità sull'altro che non sa. Si ripropone una relazione
che ha il suo luogo naturale di crescita nelle nostre scuole dove
chi sa parla e chi non sa tace, dove riceve una ferita, forse
mortale, il bisogno umano di comunicare. Con le "comunicazioni
di massa", dice Dolci, si instilla, si inocula il virus del
dominio che agisce trasformando le persone in massa. "Costipare
gente da schiere di banchi nelle scuole (e prescuole) a schiere di
banchi nelle chiese fino ai banchi di lavoro più o meno
forzato; da un ghetto all'altro, da un lager a un altro; non
favorire i rapporti tra i lontani e l'imparare a conoscersi; non
favorire i rapporti tendenti a scoprire come è possibile
crescere insieme: così si impasta la massa",
(58). Dolci ci guida ad uno sguardo diverso attraverso i molti
discorsi sulla comunicazione, a recuperare la fiducia nella capacità
umana di esprimersi e di creare, modificata giorno dopo giorno fin
dalla prima infanzia. Uno degli strumenti fondamentali di questo
recupero è il dialogo o la conversazione aperta. Dolci ci ha
offerto in passato molti esempi di conversazioni con bambini e
adulti sui temi fondamentali dell'esistenza, sui problemi
politici, sulle miserie quotidiane, che pur trascritte non hanno
perso nulla della freschezza e del potere comunicativo che le ha
originate. Anche in quest'ultimo libro dialoghi sul tema della
comunicazione, sul conformismo, si intrecciano a considerazioni di
Dolci, a citazioni in un insieme vario e stimolante. Consiglio
una lettura a piccole dosi, ma scoprirete anche da soli che il libro
non si presta a una lettura continuativa , anzi sembra proprio
invitare alle pause di riflessione. Per concludere, intanto che
siamo su questo tema affascinante, se vi interessa sapere cosa
c'entri il dialogo con l'anarchismo (e c'entra molto), vi consiglio
un articolo di Marco Cossutta (nessuna parentela imbarazzante)
uscito sul numero di "Volontà" (4/90) intitolato
appunto: Elogio del dialogo.