Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 22 nr. 188
febbraio 1992


Rivista Anarchica Online

Papalagi e intolleranza
di Elena Petrassi

Che cos'è un Papalagi? Il nome ha un suono esotico che si arrotola sulla lingua, potrebbe essere un frutto tropicale o forse il nome di un atollo dei Mari del Sud. Un nome sconosciuto che evoca comunque la sua origine non occidentale. Papalagi infatti è la parola con la quale gli abitanti delle isole Samoa indicano l'uomo bianco. La breve nota introduttiva del volumetto ci informa che le riflessioni in esso contenute sono frutto di un viaggio compiuto dal capo indigeno Tuiavii di Tiavea agli inizi del secolo in Europa.
Viaggio che lo convinse a ritenere pericoloso, e a ragione, il Papalagi per la sopravvivenza delle altre culture e che lo indusse a mettere in guardia la sua gente dal "fascino perverso dell'Occidente".
Apprendiamo inoltre che le considerazioni di Tuiavii sono state raccolte e trascritte da un Papalagi in fuga dall'Europa sconvolta dalla prima guerra mondiale, Eric Scheurmann, un artista che fu amico di Hesse. Quindi possiamo affermare, parafrasando Flaubert, "Papalagi c'est nous".
Così colta da irrefrenabile curiosità mi sono tuffata nella lettura dl questo libro, Papalagi, (Stampa Alternativa, Roma 1991, L.1000), che tra l'altro ha anche il pregio di un quotidiano. La sensazione immediata è stata quella di stare leggendo la descrizione di un popolo sconosciuto, a me alieno; il Papalagi è una creatura dalle sembianze umane che ha completamente tagliato i suoi legami con la natura; copre il suo corpo con molti panni, strati e strati di tessuto lo avvolgono e lascia scoperta, ma mai interamente, solo la testa. Non dorme su una semplice stuoia poggiata per terra ma su di un giaciglio complicato che lascia passare l'aria al disotto, e soprattutto non vive in semplici capanne ma in cassoni di pietra dalla struttura complicata, pieni di fessure che lasciano entrare la luce, e di fessure che si chiamano entrate se si sta andando dentro il cassone e uscite se invece si sta tornando fuori. File e file di cassoni, stanno una accanto all'altra e tra le file di cassoni spesso tutti uguali, stanno altre fessure, le strade, che sono piene di gente frettolosa che cammina, di carrozze (siamo all'inizio del secolo non dimentichiamolo), di bambini urlanti, di rumori e di odori. L'insieme dei cassoni e delle strisce per camminare sono chiamate città, tra una città e l'altra si estende la campagna, i cui abitanti conducono una vita più semplice, più vicina alla vita vera dei samoani. Il senso di estraniazione è durato solo pochi istanti, è vero; benché Tuiavii stia descrivendo la generazione dei nostri bisnonni, non siamo cambiati poi molto.
Siamo solo peggiorati, ma siamo noi, gli stessi da generazioni e generazioni, il tempo non fa che accumulare nuove strutture su di noi e le nuove tecnologie, seppure per un verso ci abbiano enormemente facilitato la vita, dall'altro ci stanno schiacciando. Abbiamo quasi annullato le distanze spaziali, possiamo vivere in diretta e contemporaneamente qualsiasi avvenimento sia in corso sul pianeta, è sufficiente che sia presente la televisione. Questa ansia da informazione l'aveva già rilevata il capo samoano, il Papalagi legge affannosamente tutte le mattine le molte carte, cioè i giornali, perché vuole sapere tutto quello che sta succedendo nel grande paese, inoltre non bastandogli le notizie che gli arrivano ogni giorno, ama anche leggere quello che i pensatori hanno pensato, scritto e stampato sulle "molte stuoie di pensieri", i libri. Buon Papalagi perché tanto affanno? Ancora insoddisfatto e curioso cosa altro hai inventato per fermare il tempo, la vita? Un luogo buio dove perdere il contatto con la realtà, dove osservare scorrere su una parete bianca immagini che sono solo un riflesso della vita, così come la luna nel pozzo Š solo il riflesso della luna che sta nel cielo. E tutto questo leggere, studiare, guardare le immagini della falsa vita è chiamato "educare lo spirito" e lo stato permanente di questo smarrimento si chiama cultura. Ma il Papalagi non dedica che una minima parte del suo tempo a queste nobili attività. Tutto il tempo, che instancabilmente cerca di guadagnare, correndo senza sosta, lo spende poi in lavori che difficilmente lo appagano, lavori che sono suddivisi secondo il sesso e l'età, ma soprattutto secondo la ricchezza, così che un uomo che possiede il tondo metallo e la carta pesante in grande quantità, non ha bisogno di lavorare, ma avrà altre persone alle sue dipendenze che faranno ogni cosa per lui. E tutto il tondo metallo che avrà guadagnato con il lavoro degli altri lo spenderà per riempire di cose il suo cassone di pietra soffermandosi a guardare con animo commosso solo il lavoro di altri Papalagi, detti artisti, che riempiono di forme e colori stuoie bianche e scolpiscono nella pietra fanciulle nude e giovani guerrieri, a confermare che in fondo il Papalagi "sa della povertà della sua vita". Come non condividere le riflessioni di Tuiavii? Le sue osservazioni mi ricordano quelle che ho letto in un altro libro, pubblicato anch'esso lo scorso anno da Bompiani. Il libro è Sguardi venuti da lontano, una raccolta di testi scaturiti dall'esperienza di studiosi africani e cinesi venuti in Europa a studiare noi bianchi, inventori dell'antropologia. Così questi sguardi alternativi su di noi, come quello di Tuiavii, mi avevano fornito materiale di riflessione sulla nostra cultura. Vorrei citare un passaggio dal testo di un narratore africano, Diawné Diamanka, che conferma dopo quasi un secolo alcune delle impressioni di Tuiavii. "In Europa è necessario possedere un vasto sapere tratto dai libri. Una volta che si è certi di averlo acquisito, bisognerà mettersi a scrivere libri... Chi non riuscirà a portare a termine un'opera, morirà senza lasciare traccia. Istruirsi, scrivere libri, viaggiare, ecco ciò che in Europa rende immortale l'uomo".
Tutto cambia in apparenza senza cambiare mai, quindi. Le conclusioni di Tuiavii sul destino dell'Europa sono condivisibili, cito ancora: "... l'Europa si sta uccidendo. La luce nella mano del Papalagi sta per spegnersi. Il buio è sulla sua strada, si ode l'orribile battere d'ali dei pipistrelli e l'urlo dei gufi". Tuiavii diceva questo prima ancora dello scoppio della prima guerra mondiale.
Oggi, in Jugoslavia si combatte una guerra, che è come diventata un'abitudine quotidiana, qualcosa di cui si legge, da mesi sui giornali, colpiscono forse solo le ultime immagini riprese da un cameraman e mandate in onda subito dopo la sua morte. Fa ancora effetto la morte di un uomo? E dei molti le cui storie non conosceremo mai? Cosa pensare della fine dell'Unione Sovietica, degli scontri in Georgia, del golpe bianco di Eltsin ai danni di Gorbaciov? Come interpretare, analizzare la rinascita dei nazionalismi, proprio e soprattutto in Europa dell'Est? E le ondate di violenza xenofoba in Germania? Gli episodi di intolleranza razziale in tutta Europa? Povero Papalagi allora, l'orologio della storia sembra andare con le lancette all'indietro e un libretto scarno, non mi interessa a questo punto se veramente frutto delle considerazioni del capo Tuiavii di Tiavea o piuttosto opera ingegnosa di Scheurmann transfuga dall'Europa in guerra, che tanto mi aveva deliziata alla prima lettura, mi ha portato, oltre al divertimento, a riflessioni amare e piene di timore, mi ha costretta a pensare. Ma non è forse questo lo scopo dei libri?
Posso sorridere con Tuiavii della nostra ossessione per il pensiero e per la parola stampata, per i libri alla fin fine ma non posso dimenticare quello che i libri rappresentano nella nostra cultura, cioè nella nostra natura, essendo il concetto di natura una nostra costruzione culturale...
E qui inizia un'altra storia... Una storia senza storia in realtà, dato che dell'argomento di cui sto per scrivere non esiste uno studio sistematico ed esauriente, dei roghi dei libri dove ne abbiamo letto, o sentito parlare sino a oggi? I roghi dei libri (Il Melangolo), così si intitola un altro libro di dimensioni ridotte che ha suscitato in me grandi emozioni e grandi curiosità. Il suo autore, Leo Lowental, che fu uno degli esponenti di spicco della Scuola di Francoforte insieme a Marcuse e Adorno, ha scritto questo breve saggio in occasione del cinquantesimo anniversario dei roghi dei libri nella Berlino del 1933. Il testo inizia con una citazione da Heine: "Là dove si danno alle fiamme i libri, si finisce per bruciare anche gli uomini", citazione tratta dal libro Almansor pubblicato nel 1876. Niente di più profetico forse è stato mai scritto sulla Germania, qualche decennio più tardi, milioni di ebrei e di altri individui scomodi, sono periti tra le fiamme dei forni crematori nazisti.
I nazisti furono tra i principali sostenitori della bontà dei roghi dei libri, soprattutto se si trattava di libri contrari allo spirito tedesco o,"dell'immondizia e del sudiciume rappresentati dai letterati ebrei che infestano le biblioteche" come diceva Goebbles. I roghi dovevano "liberare la società dal miasma contagioso del libro latore di maledizione e purificarla ", come dice Speyer nel suo libro sulla distruzione dei libri nell'antichità. I nazisti infatti, non furono certo i primi a utilizzare questo sistema per cercare di rifondare la storia e cercare di eliminare qualsiasi traccia e eredità del passato; l'Imperatore Shi Huang, "fece proibire e dare alle fiamme tutti i libri delle epoche precedenti", i libri ebraici furono particolarmente prediletti dai piromani, ne furono bruciati venti carri a Parigi il 13 Maggio 1248 e altri tre carri nel 1309. Innumerevoli poi i roghi di opere degli Illuministi più celebri, Voltaire, Rousseau, Diderot. La Chiesa Cattolica prediligeva il rogo quale mezzo di purificazione e oltre a bruciare eretici e streghe si premurava di eliminare con lo stesso sistema anche i loro scritti e qualsiasi libro catalogato quale pericoloso, (non dimentichiamo che solo nel 1965 è stato abolito l'indice dei libri proibiti) e, come ricorda Lowental, si è fermata solo di fronte all'Enciclopedia, dato che era costata una cifra enorme.
Gli esempi sono infiniti, citiamone anche qualcuno letterario, prima di tutto Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, preso a esempio da Lowental, che inizia con la frase "Era una gioia appiccare il fuoco" e poi come non pensare al rogo della biblioteca narrato da Eco ne "Il nome della rosa" dove il vecchio monaco cieco Jorge, avvelena i confratelli piuttosto che rischiare che un libro proibito e che avrebbe dovuto già essere stato bruciato circoli di nuovo, e che preferisce che tutti i libri periscano tra le fiamme piuttosto che quell'uno riveda la luce? E come non ricordare Salman Rushdie, condannato a morte a causa del suo libro "I versetti satanici", libro che è stato bruciato pubblicamente in sua vece in Inghilterra da alcuni fanatici non molto tempo fa?
Le motivazioni e i significati che stanno dietro ai roghi dei libri sono molteplici. Mosse studioso dei movimenti di massa ipotizza che il significato più profondo sia di tipo religioso, bruciare un libro è compiere un esorcismo contro il suo autore, colpendo il libro è l'uomo che si vorrebbe eliminare. E gli esempi si trovano in tutte le culture, non solo in quella europea anche se fu "una caratteristica delle nazioni cosiddette cristiane mettere all'ordine del giorno la distruzione dei libri, ogni qualvolta esse venivano in contatto con altre culture. Nel XVI secolo il primo vescovo del Messico brucia la letteratura azteca, una generazione dopo, un suo delegato condanna al rogo la letteratura maya".
Ma appare una costante in ognuna delle occasioni dei roghi, una cultura che cerca di affermarsi su e contro un'altra cultura, e in ogni caso una vittoria dell'autoritarismo e del totalitarismo sull'individuo, affinché i vincitori potessero rifondare il mondo con un gesto che "è la festa del nuovo nell'estinzione del vecchio".
Mi piace chiudere questo breve invito alla lettura con una delle citazioni di apertura del libro di Lowental. Dalla Tempesta di Shakespeare è tratto il brano nel quale Calibano cerca di convincere Trinculo e Stefano a uccidere Prospero incitandoli a dare alle fiamme, prima di tutto, la biblioteca che Prospero ha portato con sé.
Nel pomeriggio come ti dicevo, ama dormire: allora lo puoi uccidere: ma, prima, cerca di levargli i libri tu puoi schiacciargli il cranio con un ceppo, oppure aprirgli il ventre con un palo, o tagliargli la gola col coltello. Prima ricorda di levargli i libri: senza libri, è uno sciocco come me, e non ha uno spirito al comando.
Ma brucia i suoi libri.

Voi, di contro, spero che leggerete.