Che cos'è un
Papalagi? Il nome ha un suono esotico che si arrotola sulla lingua,
potrebbe essere un frutto tropicale o forse il nome di un atollo dei
Mari del Sud. Un nome sconosciuto che evoca comunque la sua origine
non occidentale. Papalagi infatti è la parola con la quale
gli abitanti delle isole Samoa indicano l'uomo bianco. La breve nota
introduttiva del volumetto ci informa che le riflessioni in esso
contenute sono frutto di un viaggio compiuto dal capo indigeno
Tuiavii di Tiavea agli inizi del secolo in Europa. Viaggio che
lo convinse a ritenere pericoloso, e a ragione, il Papalagi per la
sopravvivenza delle altre culture e che lo indusse a mettere in
guardia la sua gente dal "fascino perverso
dell'Occidente". Apprendiamo inoltre che le considerazioni
di Tuiavii sono state raccolte e trascritte da un Papalagi in fuga
dall'Europa sconvolta dalla prima guerra mondiale, Eric Scheurmann,
un artista che fu amico di Hesse. Quindi possiamo affermare,
parafrasando Flaubert, "Papalagi c'est nous". Così
colta da irrefrenabile curiosità mi sono tuffata nella
lettura dl questo libro, Papalagi, (Stampa Alternativa, Roma
1991, L.1000), che tra l'altro ha anche il pregio di un quotidiano.
La sensazione immediata è stata quella di stare leggendo
la descrizione di un popolo sconosciuto, a me alieno; il Papalagi è
una creatura dalle sembianze umane che ha completamente tagliato i
suoi legami con la natura; copre il suo corpo con molti panni,
strati e strati di tessuto lo avvolgono e lascia scoperta, ma mai
interamente, solo la testa. Non dorme su una semplice stuoia
poggiata per terra ma su di un giaciglio complicato che lascia
passare l'aria al disotto, e soprattutto non vive in semplici
capanne ma in cassoni di pietra dalla struttura complicata, pieni
di fessure che lasciano entrare la luce, e di fessure che si
chiamano entrate se si sta andando dentro il cassone e uscite se
invece si sta tornando fuori. File e file di cassoni, stanno una
accanto all'altra e tra le file di cassoni spesso tutti uguali,
stanno altre fessure, le strade, che sono piene di gente frettolosa
che cammina, di carrozze (siamo all'inizio del secolo non
dimentichiamolo), di bambini urlanti, di rumori e di odori.
L'insieme dei cassoni e delle strisce per camminare sono chiamate
città, tra una città e l'altra si estende la
campagna, i cui abitanti conducono una vita più semplice, più
vicina alla vita vera dei samoani. Il senso di estraniazione è
durato solo pochi istanti, è vero; benché Tuiavii stia
descrivendo la generazione dei nostri bisnonni, non siamo cambiati
poi molto. Siamo solo peggiorati, ma siamo noi, gli stessi da
generazioni e generazioni, il tempo non fa che accumulare nuove
strutture su di noi e le nuove tecnologie, seppure per un verso ci
abbiano enormemente facilitato la vita, dall'altro ci stanno
schiacciando. Abbiamo quasi annullato le distanze spaziali, possiamo
vivere in diretta e contemporaneamente qualsiasi avvenimento sia in
corso sul pianeta, è sufficiente che sia presente la
televisione. Questa ansia da informazione l'aveva già
rilevata il capo samoano, il Papalagi legge affannosamente tutte le
mattine le molte carte, cioè i giornali, perché vuole
sapere tutto quello che sta succedendo nel grande paese, inoltre non
bastandogli le notizie che gli arrivano ogni giorno, ama anche
leggere quello che i pensatori hanno pensato, scritto e stampato
sulle "molte stuoie di pensieri", i libri. Buon Papalagi
perché tanto affanno? Ancora insoddisfatto e curioso cosa
altro hai inventato per fermare il tempo, la vita? Un luogo buio
dove perdere il contatto con la realtà, dove osservare
scorrere su una parete bianca immagini che sono solo un riflesso
della vita, così come la luna nel pozzo solo il riflesso
della luna che sta nel cielo. E tutto questo leggere, studiare,
guardare le immagini della falsa vita è chiamato "educare
lo spirito" e lo stato permanente di questo smarrimento si
chiama cultura. Ma il Papalagi non dedica che una minima parte del
suo tempo a queste nobili attività. Tutto il tempo,
che instancabilmente cerca di guadagnare, correndo senza sosta,
lo spende poi in lavori che difficilmente lo appagano, lavori che
sono suddivisi secondo il sesso e l'età, ma soprattutto
secondo la ricchezza, così che un uomo che possiede il tondo
metallo e la carta pesante in grande quantità, non ha bisogno
di lavorare, ma avrà altre persone alle sue dipendenze che
faranno ogni cosa per lui. E tutto il tondo metallo che avrà
guadagnato con il lavoro degli altri lo spenderà per riempire
di cose il suo cassone di pietra soffermandosi a guardare con animo
commosso solo il lavoro di altri Papalagi, detti artisti, che
riempiono di forme e colori stuoie bianche e scolpiscono nella
pietra fanciulle nude e giovani guerrieri, a confermare che in fondo
il Papalagi "sa della povertà della sua vita".
Come non condividere le riflessioni di Tuiavii? Le sue osservazioni
mi ricordano quelle che ho letto in un altro libro, pubblicato
anch'esso lo scorso anno da Bompiani. Il libro è Sguardi
venuti da lontano, una raccolta di testi scaturiti
dall'esperienza di studiosi africani e cinesi venuti in Europa a
studiare noi bianchi, inventori dell'antropologia. Così
questi sguardi alternativi su di noi, come quello di Tuiavii, mi
avevano fornito materiale di riflessione sulla nostra cultura.
Vorrei citare un passaggio dal testo di un narratore africano,
Diawné Diamanka, che conferma dopo quasi un secolo alcune
delle impressioni di Tuiavii. "In Europa è necessario
possedere un vasto sapere tratto dai libri. Una volta che si è
certi di averlo acquisito, bisognerà mettersi a scrivere
libri... Chi non riuscirà a portare a termine un'opera,
morirà senza lasciare traccia. Istruirsi,
scrivere libri, viaggiare, ecco ciò che in Europa rende
immortale l'uomo". Tutto cambia in apparenza senza cambiare
mai, quindi. Le conclusioni di Tuiavii sul destino dell'Europa sono
condivisibili, cito ancora: "... l'Europa si sta uccidendo. La
luce nella mano del Papalagi sta per spegnersi. Il buio è
sulla sua strada, si ode l'orribile battere d'ali dei pipistrelli e
l'urlo dei gufi". Tuiavii diceva questo prima ancora dello
scoppio della prima guerra mondiale. Oggi, in Jugoslavia si
combatte una guerra, che è come diventata un'abitudine
quotidiana, qualcosa di cui si legge, da mesi sui giornali,
colpiscono forse solo le ultime immagini riprese da un cameraman e
mandate in onda subito dopo la sua morte. Fa ancora effetto la morte
di un uomo? E dei molti le cui storie non conosceremo mai? Cosa
pensare della fine dell'Unione Sovietica, degli scontri in
Georgia, del golpe bianco di Eltsin ai danni di Gorbaciov? Come
interpretare, analizzare la rinascita dei nazionalismi, proprio e
soprattutto in Europa dell'Est? E le ondate di violenza xenofoba
in Germania? Gli episodi di intolleranza razziale in tutta
Europa? Povero Papalagi allora, l'orologio della storia sembra
andare con le lancette all'indietro e un libretto scarno, non mi
interessa a questo punto se veramente frutto delle considerazioni
del capo Tuiavii di Tiavea o piuttosto opera ingegnosa di
Scheurmann transfuga dall'Europa in guerra, che tanto mi aveva
deliziata alla prima lettura, mi ha portato, oltre al divertimento,
a riflessioni amare e piene di timore, mi ha costretta a pensare.
Ma non è forse questo lo scopo dei libri? Posso sorridere
con Tuiavii della nostra ossessione per il pensiero e per la parola
stampata, per i libri alla fin fine ma non posso dimenticare quello
che i libri rappresentano nella nostra cultura, cioè nella
nostra natura, essendo il concetto di natura una nostra costruzione
culturale... E qui inizia un'altra storia... Una storia senza
storia in realtà, dato che dell'argomento di cui sto per
scrivere non esiste uno studio sistematico ed esauriente, dei roghi
dei libri dove ne abbiamo letto, o sentito parlare sino a oggi? I
roghi dei libri (Il Melangolo), così si intitola un altro
libro di dimensioni ridotte che ha suscitato in me grandi emozioni e
grandi curiosità. Il suo autore, Leo Lowental, che fu uno
degli esponenti di spicco della Scuola di Francoforte insieme a
Marcuse e Adorno, ha scritto questo breve saggio in occasione del
cinquantesimo anniversario dei roghi dei libri nella Berlino del
1933. Il testo inizia con una citazione da Heine: "Là
dove si danno alle fiamme i libri, si finisce per bruciare anche gli
uomini", citazione tratta dal libro Almansor pubblicato nel
1876. Niente di più profetico forse è stato mai
scritto sulla Germania, qualche decennio più tardi, milioni
di ebrei e di altri individui scomodi, sono periti tra le fiamme dei
forni crematori nazisti. I nazisti furono tra i principali
sostenitori della bontà dei roghi dei libri, soprattutto se
si trattava di libri contrari allo spirito tedesco
o,"dell'immondizia e del sudiciume rappresentati dai letterati
ebrei che infestano le biblioteche" come diceva Goebbles. I
roghi dovevano "liberare la società dal miasma
contagioso del libro latore di maledizione e purificarla ", come dice
Speyer nel suo libro sulla distruzione dei libri nell'antichità.
I nazisti infatti, non furono certo i primi a utilizzare
questo sistema per cercare di rifondare la storia e cercare di
eliminare qualsiasi traccia e eredità del passato;
l'Imperatore Shi Huang, "fece proibire e dare alle fiamme tutti
i libri delle epoche precedenti", i libri ebraici furono
particolarmente prediletti dai piromani, ne furono bruciati venti
carri a Parigi il 13 Maggio 1248 e altri tre carri nel 1309.
Innumerevoli poi i roghi di opere degli Illuministi più
celebri, Voltaire, Rousseau, Diderot. La Chiesa Cattolica
prediligeva il rogo quale mezzo di purificazione e oltre a bruciare
eretici e streghe si premurava di eliminare con lo stesso sistema
anche i loro scritti e qualsiasi libro catalogato quale pericoloso,
(non dimentichiamo che solo nel 1965 è stato abolito l'indice
dei libri proibiti) e, come ricorda Lowental, si è fermata
solo di fronte all'Enciclopedia, dato che era costata una cifra
enorme. Gli esempi sono infiniti, citiamone anche qualcuno
letterario, prima di tutto Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, preso a
esempio da Lowental, che inizia con la frase "Era una gioia
appiccare il fuoco" e poi come non pensare al rogo della
biblioteca narrato da Eco ne "Il nome della rosa" dove il
vecchio monaco cieco Jorge, avvelena i confratelli piuttosto che
rischiare che un libro proibito e che avrebbe dovuto già
essere stato bruciato circoli di nuovo, e che preferisce che tutti i
libri periscano tra le fiamme piuttosto che quell'uno riveda la
luce? E come non ricordare Salman Rushdie, condannato a morte a
causa del suo libro "I versetti satanici", libro che è
stato bruciato pubblicamente in sua vece in Inghilterra da alcuni
fanatici non molto tempo fa? Le motivazioni e i significati che
stanno dietro ai roghi dei libri sono molteplici. Mosse studioso dei
movimenti di massa ipotizza che il significato più profondo
sia di tipo religioso, bruciare un libro è compiere un
esorcismo contro il suo autore, colpendo il libro è l'uomo
che si vorrebbe eliminare. E gli esempi si trovano in tutte le
culture, non solo in quella europea anche se fu "una
caratteristica delle nazioni cosiddette cristiane mettere all'ordine
del giorno la distruzione dei libri, ogni qualvolta esse venivano in
contatto con altre culture. Nel XVI secolo il primo vescovo del
Messico brucia la letteratura azteca, una generazione dopo, un suo
delegato condanna al rogo la letteratura maya". Ma appare
una costante in ognuna delle occasioni dei roghi, una cultura che
cerca di affermarsi su e contro un'altra cultura, e in ogni caso una
vittoria dell'autoritarismo e del totalitarismo sull'individuo,
affinché i vincitori potessero rifondare il mondo con un
gesto che "è la festa del nuovo nell'estinzione del
vecchio". Mi piace chiudere questo breve invito alla lettura
con una delle citazioni di apertura del libro di Lowental. Dalla
Tempesta di Shakespeare è tratto il brano nel quale Calibano
cerca di convincere Trinculo e Stefano a uccidere Prospero
incitandoli a dare alle fiamme, prima di tutto, la biblioteca che
Prospero ha portato con sé. Nel pomeriggio come ti
dicevo, ama dormire: allora lo puoi uccidere: ma, prima, cerca di
levargli i libri tu puoi schiacciargli il cranio con un ceppo,
oppure aprirgli il ventre con un palo, o tagliargli la gola col
coltello. Prima ricorda di levargli i libri: senza libri, è
uno sciocco come me, e non ha uno spirito al comando. Ma brucia i
suoi libri. Voi, di contro, spero
che leggerete.