In "A" 187 (dicembre '91 / gennaio '92) Roberto Gimmi, all'interno di un servizio sul
bioregionalismo, riporta
alcuni giudizi di Elmar Zadra sull'impresa autogestita, significativamente segnalati come "i sette peccati
dell'autogestione". La cosa mi ha stimolato a riflettere, innanzitutto sulla contraddittorietà
dell'espressione "impresa autogestita".
Non per fare ideologia, ma qualunque nome reca con sé il peso del contesto storico-materiale che
co-determina
a qualificarlo. E se "autogestione" eredita pregi e difetti della tradizione anarchica, di quella porzione degna di
rilievo che ha inteso l'utopia non solo come fine a cui tendere attraverso una lotta sociale e politica, ma anche
e soprattutto come pratica attuale, anche al costo di compromessi più o meno gestibili pragmaticamente
e
giustificabili ideologicamente e al rischio di (auto)vanificazione nell'attrito con l'universo circostante non certo
favorevole all'autogestione; così "impresa" è un termine legato ad una pratica del capitalismo
(prima si diceva
"negozio" il contrario dell'"ozio"), legato cioè al vincolo del "produrre per produrre" profitto, il che non
è lo
stesso di una accezione eretica (ma meramente ideologica qualora non sostenuta dalla e nella
prassi) di impresa autogestita.
Questa premessa intende evidenziare come qualunque limite si voglia e si debba riscontrare nella pratica
autogestionaria, è non solo connesso a deficit progettuali (sui quali il movimento comunitario, libertario
e
anarchico riflette in posizione minoritaria rispetto al grosso del movimento cosiddetto antagonista), ma anche
a condizioni specifiche dettate da fattori di tempo (in quali tempi storici si pratica l'autogestione)
e di spazio (in
quali contesti geo-socio-politici si pratica l'autogestione). Tali considerazioni, beninteso, superano la dimensione
imprenditoriale concernendo ogni evento collettivamente sperimentato di autogestione.
Tuttavia, non è mia intenzione rifugiarmi nella complessità di problemi di cui si invoca,
solitamente, la
soluzione dopo lo scioglimento di nodi e trame più fitti del problema specifico (ad esempio, la questione
del
mercato in genere, del mercato capitalista nella fattispecie e dei rapporti con l'utopia quotidiana
dell'autogestione). Così intendo misurarmi, brevemente, con i "sette peccati dell'autogestione"
così come
vengono evidenziati nell'articolo, commentandone la plausibilità e l'afferenza.
1° peccato: "siamo tutti uguali, e ciò nuoce al fatto di porre la persona
adatta al posto giusto". Non credo
sussistano problemi giacché l'uguaglianza cui si riferisce il pensiero libertario non pregiudica la
diversità di
competenze e sensibilità da valorizzare al servizio di un'equipe affiatata. La diversità di
competenze a mio
avviso non deve, però, alimentare gerarchie sulla scia di pregiudizi (letteralmente) relativi al valore
misurabile
su una scala ideale di una competenza su un'altra (lavoro intellettuale più importante del lavoro
manuale, o
viceversa).
2° peccato: "rotazione dei ruoli per evitare accumulo di potere". Non riesco a
vedere il limite; anzi. Nessun
dubbio sulla qualificazione specifica di ciascun soggetto coinvolto in processi autogestionari; il controllo diffuso
non vuol dire interferenza gratuita, oppure che tutti sanno fare tutto, ma che sono nelle condizioni di conoscere
i meccanismi reali della conduzione autogestionaria di un "quid" nel suo complesso, potendo così
intervenire
con cognizione di causa nell'elaborazione strategica. Ciò che va evitato, a mio parere, è
l'accentramento dei dati
di conoscenza che rendono manipolabile la formazione di una strategia globale dell'impresa autogestita, del suo
progetto insomma. Da qui la rete di scambi orizzontali sul sapere autogestionario in funzione preventiva.
3° peccato: "l'assemblea decide tutto". L'assemblearismo, contrariamente a quanto
si possa ritenere, non è un
mito fondante anarchico, ma una pratica la cui validità è limitata ad opportunità prestate
all'anarchismo.
Moltiplicare la prassi assembleare vuol spesso dire paralizzare una tensione collettiva verso il sapere decisionale
che prepara l'occultamento delle reali istanze decisorie. Ciò che va salvaguardata è la
decisionalità collettiva
delle linee principali, da un canto, e la delega con mandato revocabile, dall'altro, al fine di evitare la formazione
di ceti e gruppi oligarchici (politici e burocratici) che manipolano i processi decisionali elevandosi al di sopra
dei soggetti autogestionari.
4° peccato: "forma giuridica egualitaria e senza scopo di lucro". L'obiezione
rinvia alle considerazioni sui
compromessi legati al "come", al "quando" e al "dove" dell'autogestione. Piuttosto emerge sovente l'illusione
di svuotare di contenuti istituti giuridici borghesi immettendo in essi elementi di autogestione libertaria. Sul
piano prettamente pragmatico e non ideologico, posso ritenere opportuno l'uso contingente di alcuni istituti
giuridici borghesi in vista del perseguimento di un mio obiettivo, senza svendermi né svilirne l'intima
coerenza
ben più corazzata delle nostre migliori intenzioni. In altri termini, non basta fare una cooperativa con
90 persone
piuttosto che con 9 credendo di avviare una gestione libertaria e decentrata nella cornice della forma
tradizionale; in caso di conflitto - punto dolens nel quale l'istituto giuridico si esalta nella sua gestione e
risoluzione non libertaria - i nodi vengono al pettine: o si risolvono in via extragiudiziale, e allora non ha
importanza essere in 9 o in 90 giacché è importante la logica utilizzata ed il collante di
affinità che lega i partner
alla salvaguardia di un progetto; oppure si agisce in via giudiziale secondo le norme statutarie e del codice
civile, e allora non ha altrettanto importanza essere in 9 o in 90.
5° peccato: "la discussione sui principi". Discutere in eterno sui principi
ogniqualvolta una decisione si presenta
difficile per un qualunque motivo, può essere noioso e paralizzante, conducendo al rapido esaurimento
di
energie e fantasie altrimenti necessarie e indispensabili in quei frangenti. Tuttavia il ricorso pedissequo a
principi rivela un sintomo che nasconde qualcos'altro che sarebbe bene far emergere. Comunque il rilievo
può
essere accettato, a patto che non si liquidino i principi alla stregua di orpelli inutili o impacci buoni per
decorazioni barocche. In determinate fasi del processo autogestionario, i principi estranei a logiche dettate dal
contesto ambientale sotto la cui influenza si opera possono risultare illuminanti per svincolarsi da strettoie,
imprimendo nel contempo scarti benefici per il corretto prosieguo dell'esperimento autogestionario all'interno
di contesti ostili (è bene non dimenticare che tale ostilità può non essere repressiva e
conflittuale bensì
seducente e allettante verso impercettibili ma costanti slittamenti degradanti).
6° peccato: "tutte le attività hanno lo stesso valore". Non capisco
l'obiezione. In un'equipe sportiva, ad esempio,
ogni ruolo differenziato ha lo stesso valore di un altro senza uniformarsi ad esso. La valorizzazione di ciascuno
passa attraverso l'uguaglianza di rilievo di ciascuno: solo così l'equipe può ben figurare nella
competizione.
7° peccato: "superiorità in ultima istanza del valore umano vs.
economicità e qualità del prodotto". Forse sarà
la quadratura del cerchio, ma se non si riesce a produrre beni qualitativamente idonei all'uso pubblico (durevoli,
biodegradabili e non effimeri, che alimentano sprechi e consumismi parassitari), in maniera economica dal
punto di vista delle risorse produttive, ma anche per l'utente pubblico, e tutto ciò senza sfruttare la
forza-lavoro,
ebbene si sarà registrato il fallimento dell'autogestione, e si sarà data via libera definitivamente
al sistema
capitalista anche sul piano simbolico (sul piano pratico, la sua invincibilità è limitata dal residuo
utopico
irriducibile). Se l'impresa autogestionaria sfrutta quanto l'impresa capitalista, meglio smettere subito: è
più
dignitoso e non procura danni irreparabili sul piano simbolico. Altri sperimenteranno in diversi tempi e in
diversi contesti, con maggiori capacità e fantasia. Se, invece, si intende uniformarsi agli standard di
economicità
e qualità vigenti, nulla vieta di istituire una bella impresa senza qualifica autogestionaria.