Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 22 nr. 190
aprile 1992


Rivista Anarchica Online

Ma quali 7 peccati?

In "A" 187 (dicembre '91 / gennaio '92) Roberto Gimmi, all'interno di un servizio sul bioregionalismo, riporta alcuni giudizi di Elmar Zadra sull'impresa autogestita, significativamente segnalati come "i sette peccati dell'autogestione". La cosa mi ha stimolato a riflettere, innanzitutto sulla contraddittorietà dell'espressione "impresa autogestita".
Non per fare ideologia, ma qualunque nome reca con sé il peso del contesto storico-materiale che co-determina a qualificarlo. E se "autogestione" eredita pregi e difetti della tradizione anarchica, di quella porzione degna di rilievo che ha inteso l'utopia non solo come fine a cui tendere attraverso una lotta sociale e politica, ma anche e soprattutto come pratica attuale, anche al costo di compromessi più o meno gestibili pragmaticamente e giustificabili ideologicamente e al rischio di (auto)vanificazione nell'attrito con l'universo circostante non certo favorevole all'autogestione; così "impresa" è un termine legato ad una pratica del capitalismo (prima si diceva "negozio" il contrario dell'"ozio"), legato cioè al vincolo del "produrre per produrre" profitto, il che non è lo stesso di una accezione eretica (ma meramente ideologica qualora non sostenuta dalla e nella prassi) di impresa autogestita.
Questa premessa intende evidenziare come qualunque limite si voglia e si debba riscontrare nella pratica autogestionaria, è non solo connesso a deficit progettuali (sui quali il movimento comunitario, libertario e anarchico riflette in posizione minoritaria rispetto al grosso del movimento cosiddetto antagonista), ma anche a condizioni specifiche dettate da fattori di tempo (in quali tempi storici si pratica l'autogestione) e di spazio (in quali contesti geo-socio-politici si pratica l'autogestione). Tali considerazioni, beninteso, superano la dimensione imprenditoriale concernendo ogni evento collettivamente sperimentato di autogestione.
Tuttavia, non è mia intenzione rifugiarmi nella complessità di problemi di cui si invoca, solitamente, la soluzione dopo lo scioglimento di nodi e trame più fitti del problema specifico (ad esempio, la questione del mercato in genere, del mercato capitalista nella fattispecie e dei rapporti con l'utopia quotidiana dell'autogestione). Così intendo misurarmi, brevemente, con i "sette peccati dell'autogestione" così come vengono evidenziati nell'articolo, commentandone la plausibilità e l'afferenza.

1° peccato: "siamo tutti uguali, e ciò nuoce al fatto di porre la persona adatta al posto giusto". Non credo sussistano problemi giacché l'uguaglianza cui si riferisce il pensiero libertario non pregiudica la diversità di competenze e sensibilità da valorizzare al servizio di un'equipe affiatata. La diversità di competenze a mio avviso non deve, però, alimentare gerarchie sulla scia di pregiudizi (letteralmente) relativi al valore misurabile su una scala ideale di una competenza su un'altra (lavoro intellettuale più importante del lavoro manuale, o viceversa).

2° peccato: "rotazione dei ruoli per evitare accumulo di potere". Non riesco a vedere il limite; anzi. Nessun dubbio sulla qualificazione specifica di ciascun soggetto coinvolto in processi autogestionari; il controllo diffuso non vuol dire interferenza gratuita, oppure che tutti sanno fare tutto, ma che sono nelle condizioni di conoscere i meccanismi reali della conduzione autogestionaria di un "quid" nel suo complesso, potendo così intervenire con cognizione di causa nell'elaborazione strategica. Ciò che va evitato, a mio parere, è l'accentramento dei dati di conoscenza che rendono manipolabile la formazione di una strategia globale dell'impresa autogestita, del suo progetto insomma. Da qui la rete di scambi orizzontali sul sapere autogestionario in funzione preventiva.

3° peccato: "l'assemblea decide tutto". L'assemblearismo, contrariamente a quanto si possa ritenere, non è un mito fondante anarchico, ma una pratica la cui validità è limitata ad opportunità prestate all'anarchismo. Moltiplicare la prassi assembleare vuol spesso dire paralizzare una tensione collettiva verso il sapere decisionale che prepara l'occultamento delle reali istanze decisorie. Ciò che va salvaguardata è la decisionalità collettiva delle linee principali, da un canto, e la delega con mandato revocabile, dall'altro, al fine di evitare la formazione di ceti e gruppi oligarchici (politici e burocratici) che manipolano i processi decisionali elevandosi al di sopra dei soggetti autogestionari.

4° peccato: "forma giuridica egualitaria e senza scopo di lucro". L'obiezione rinvia alle considerazioni sui compromessi legati al "come", al "quando" e al "dove" dell'autogestione. Piuttosto emerge sovente l'illusione di svuotare di contenuti istituti giuridici borghesi immettendo in essi elementi di autogestione libertaria. Sul piano prettamente pragmatico e non ideologico, posso ritenere opportuno l'uso contingente di alcuni istituti giuridici borghesi in vista del perseguimento di un mio obiettivo, senza svendermi né svilirne l'intima coerenza ben più corazzata delle nostre migliori intenzioni. In altri termini, non basta fare una cooperativa con 90 persone piuttosto che con 9 credendo di avviare una gestione libertaria e decentrata nella cornice della forma tradizionale; in caso di conflitto - punto dolens nel quale l'istituto giuridico si esalta nella sua gestione e risoluzione non libertaria - i nodi vengono al pettine: o si risolvono in via extragiudiziale, e allora non ha importanza essere in 9 o in 90 giacché è importante la logica utilizzata ed il collante di affinità che lega i partner alla salvaguardia di un progetto; oppure si agisce in via giudiziale secondo le norme statutarie e del codice civile, e allora non ha altrettanto importanza essere in 9 o in 90.

5° peccato: "la discussione sui principi". Discutere in eterno sui principi ogniqualvolta una decisione si presenta difficile per un qualunque motivo, può essere noioso e paralizzante, conducendo al rapido esaurimento di energie e fantasie altrimenti necessarie e indispensabili in quei frangenti. Tuttavia il ricorso pedissequo a principi rivela un sintomo che nasconde qualcos'altro che sarebbe bene far emergere. Comunque il rilievo può essere accettato, a patto che non si liquidino i principi alla stregua di orpelli inutili o impacci buoni per decorazioni barocche. In determinate fasi del processo autogestionario, i principi estranei a logiche dettate dal contesto ambientale sotto la cui influenza si opera possono risultare illuminanti per svincolarsi da strettoie, imprimendo nel contempo scarti benefici per il corretto prosieguo dell'esperimento autogestionario all'interno di contesti ostili (è bene non dimenticare che tale ostilità può non essere repressiva e conflittuale bensì seducente e allettante verso impercettibili ma costanti slittamenti degradanti).

6° peccato: "tutte le attività hanno lo stesso valore". Non capisco l'obiezione. In un'equipe sportiva, ad esempio, ogni ruolo differenziato ha lo stesso valore di un altro senza uniformarsi ad esso. La valorizzazione di ciascuno passa attraverso l'uguaglianza di rilievo di ciascuno: solo così l'equipe può ben figurare nella competizione.

7° peccato: "superiorità in ultima istanza del valore umano vs. economicità e qualità del prodotto". Forse sarà la quadratura del cerchio, ma se non si riesce a produrre beni qualitativamente idonei all'uso pubblico (durevoli, biodegradabili e non effimeri, che alimentano sprechi e consumismi parassitari), in maniera economica dal punto di vista delle risorse produttive, ma anche per l'utente pubblico, e tutto ciò senza sfruttare la forza-lavoro, ebbene si sarà registrato il fallimento dell'autogestione, e si sarà data via libera definitivamente al sistema capitalista anche sul piano simbolico (sul piano pratico, la sua invincibilità è limitata dal residuo utopico irriducibile). Se l'impresa autogestionaria sfrutta quanto l'impresa capitalista, meglio smettere subito: è più dignitoso e non procura danni irreparabili sul piano simbolico. Altri sperimenteranno in diversi tempi e in diversi contesti, con maggiori capacità e fantasia. Se, invece, si intende uniformarsi agli standard di economicità e qualità vigenti, nulla vieta di istituire una bella impresa senza qualifica autogestionaria.

Salvo Vaccaro
(Palermo)