Rivista Anarchica Online
Sindacati e zucchine
di Maria Matteo
Si è molto parlato dei bulloni. Ma a Torino e altrove contro i palchi degli oratori ufficiali
CGIL-CISL-UIL sono volate anche molte verdissime, lucenti zucchine. Uguali a quelle che
quotidianamente gli immigrati nordafricani raccolgono al termine dei mercati. Considerazioni
controcorrente sulla crisi dei sindacati, del sindacalismo, del nostro modello di sviluppo
Il 25 settembre a Torino sotto un cielo che annunciava le piogge torrenziali dei
giorni seguenti, sono saettate
in aria grosse zucchine d'un bel verde brillante che, lanciate con maestria, hanno colpito gli scudi in plexiglas
dietro cui si nascondevano gli oratori del sindacato. In verità di cose ne sono volate molte quella mattina
specie
dopo che i rappresentanti di CGIL, CISL e UIL hanno abbandonato il palco al termine di uno sbrigativo comizio
vivacemente contestato da gran parte della piazza. Quando la polizia, opportunamente istigata dal
sindacato, ha caricato i manifestanti è piovuto di tutto: castagne,
bulloni, latte, volantini, un ombrello, persino una scarpa. Ma, nonostante le manganellate, resta il dato
importante di una manifestazione che ha visto i lavoratori schierarsi contro la manovra governativa ma anche
contro un sindacato ormai da troppo tempo ridotto a mero apparato dello stato, atto più a calcolare
l'importo
dell'imposta sulla casa che a rappresentare gli interessi dei lavoratori. Sebbene gli scioperi dei giorni precedenti
a Firenze e Milano avessero dato il segno del clima che si stava creando, non pochi dubitavano che il vento di
quest'autunno non toccasse Torino, città in cui la grande tradizione di lotte operaie pareva essersi spenta
in un
altro autunno di 12 anni fa. Invece i pessimisti hanno avuto torto: la gente è tornata in piazza e quelle
verdissime, lucenti zucchine si sono stagliate contro il cielo. Già le zucchine. In effetti non sono state
loro ad
assurgere agli onori della cronaca, poiché la parte del leone l'ha fatta il bullone, la cui ferrea irruenza
pareva più
coreograficamente efficace per tracciare un quadro della situazione che vedesse simpaticamente concordi
governo e sindacati, Trentin e Parisi. Ed ecco tornare in auge tutto il più trito armamentario di una
sinistra
autoritaria la cui attitudine alla calunnia sopravvive al tramonto dei vecchi simboli, sì che il dissenso
espresso
da ampie fasce di lavoratori alla politica delle tre confederazioni viene stigmatizzato come opera di provocatori
e violenti.
Magmatica area È un apparato
propagandistico vecchio ma potente che probabilmente non mancherà di dare i suoi frutti, specie
se il dissenso non sarà capace di trovare spazi e modalità organizzative suoi propri, al di fuori
della logica dello
scontro di piazza con gli apparati sindacali. Intendiamoci: probabilmente pomodori e monetine sono stati
efficacissimi nel dare chiara visibilità alla crisi
di rappresentatività di CGIL, CISL e UIL, ma la rabbia senza sbocco rischia di produrre stanchezza e
disaffezione. In questo contesto decisivo è stato e sarà il ruolo di Essere Sindacato che operando
quale forza
di pressione interna alla CGIL potrà forse contribuire ad accelerarne il processo di delegittimazione
senza
tuttavia dar corpo ad un'alternativa credibile. Non sono peraltro mancati i segnali positivi: lo sciopero generale
auto-organizzato del due ottobre, proclamato dalle varie componenti della magmatica area del sindacalismo
alternativo, culminato in una manifestazione di 40.000 lavoratori a Roma è stato certo il più
significativo. È
indubbio che - sia pure ancora debole e minoritaria - la costruzione di un percorso sindacale diverso, comincia
ad avere un certo rilievo sociale. E' il sintomo che i richiami alla responsabilità collettiva per sanare
la crisi dell'azienda Italia non sono del tutto
convincenti e i sacrifici sia pur "equamente" distribuiti appaiono necessari solo per gli interessi di chi li richiede.
Detto questo non è comunque improbabile che governo e sindacato riescano a ricomporre fors'anche
nel breve
periodo le lacerazioni in atto. Poco conta se ciò costerà o meno la poltrona ad Amato e Goria.
In ogni caso
questa vicenda ci pone di fronte alla necessità di una riflessione più matura sul ruoli e i limiti
dell'alternativa
sindacale oggi in Italia. Ruolo e limiti che non possono essere definiti come mera questione organizzativa.
Problemi quali la presenza nella contrattazione, il riconoscimento giuridico o, su un piano più
strettamente
politico, la ricerca di più significative convergenze tra le varie componenti sono importanti ma non
decisivi. La
crescita del sindacalismo alternativo si innesta sulla crisi delle tre maggiori organizzazioni sindacali, una crisi
le cui radici non sono certo univoche. La rinuncia di CGIL, CISL e UIL ad ogni residuo ruolo di mediazione
sociale, di cui gli accordi di luglio sul blocco della contrattazione sono certo il momento più
emblematico, è un
dato che deve essere approfondito. Un sindacato che non negozia, che non contratta non è un sindacato.
Il
sindacato dei tardi anni '70 era certo afflitto da elefantiasi burocratica, asservito al sistema dei partiti, sempre
meno propenso ad accogliere le spinte dal basso ma era pur sempre un sindacato, non un mero apparato di
servizio. L'abdicazione totale del proprio ruolo implica un tale svilimento d'importanza che nessun apparato
burocratico, per quanto legato alle logiche di potere, accetterebbe a cuor leggero. Perché ciò
accada deve esserci
dell'altro, ossia la convinzione di non poter più svolgere alcuna funzione di regolazione o, se si
preferisce, di
disciplinamento sociale, per il venir meno di forme significative di conflitto nel mondo del
lavoro. Ricucire lo strappo? Non si
spiegherebbe altrimenti il disorientamento di CGIL, CISL e UIL di fronte al prorompente risorgere di
combattività da parte dei lavoratori. Già da tempo qualche sindacalista più accorto,
convinto che l'azienda non
fosse tanto solida si era affrettato a cercare un impiego più sicuro: ed eccoti l'ex-segretario generale
della CISL
Marini ministro del lavoro e Benvenuto, suo omologo nella UIL, consulente di una grande industria. D'altra
parte i più recenti sviluppi dello scontro in corso non consentono di escludere che CGIL, GISL e UIL
possano
sia pure con difficoltà ricucire lo strappo e recuperare almeno in parte le posizioni perdute. Non pare
perciò
irragionevole ipotizzare uno scenario che veda il percorso sindacale alternativo non riuscire a superare una certa
soglia di crescita. Se la spinta alla radicalizzazione del conflitto sicuramente presente nel multiforme ambito
di Rifondazione
Comunista producesse una discreta fuoriuscita dalla CGIL, potrebbe forse verificarsi uno spostamento ma non
un ribaltamento degli attuali equilibri. Se anche il sindacalismo alternativo allargasse al di là di ogni
previsione
la propria area di consenso non è comunque unicamente su questo terreno che si giocherebbe la partita
decisiva.
All'interno del presente modello di sviluppo l'unica variabile significativa è relativa alle
modalità di accesso ad
un benessere socialmente riconosciuto ed accettato come tale. La critica socialista al capitalismo ha
tradizionalmente sottolineato come tale sistema si fondi sull'impossibilità d'una spartizione egualitaria
dei beni
disponibili, ma con il capitalismo ha condiviso la fiducia nella realizzabilità di uno sviluppo
illimitato.
Nuovo modello di solidarietà L'approccio ecologico ha mostrato
come i costi del mantenimento di consumi qualitativamente e
quantitativamente pari agli attauli comporti una distruzione di risorse non rinnovabili insostenibile in futuro.
Il quadro si fa tragico se appena si volge lo sguardo ai paesi del sud del mondo. Qui la distribuzione e la
predazione delle risorse fa sì che un terzo del pianeta tenga in ostaggio i restanti due terzi. Il più
malpagato
salariato del nord è di fatto un privilegiato. È quindi necessario un modello di
solidarietà nuovo. La difesa dello
stato sociale in cui vediamo arroccata tanta parte della sinistra sindacale anche nei suoi settori più
radicali non
consente di uscire dalla logica del sistema. L'immagine del Welfare quale ombrello che ripara dai monsoni del
capitalismo risulta poco convincente, specie quando l'ombrello minaccia di chiudersi definitivamente
lasciandoci al bagnato. Ma quel che più conta è che in tale modo si finisce con l'esercitare un
ruolo subalterno
senza riuscire a tracciare percorsi di autogestione. L'autonomizzarsi del sociale è precondizione
necessaria alla
fuoriuscita da una condizione di dipendenza dallo stato non solo materiale ma anche e soprattutto culturale. Per
tornare alla situazione odierna sebbene l'intransigente difesa del salario sociale rappresenti al momento un punto
irrinunciabile, occorre peraltro attivare meccanismi di solidarietà di segno diverso. Altrimenti si resta
intrappolati nel pantano per cui contro una manovra che impone pesantissimi tagli in materia di servizi i
sindacati si limitano ad invocare l'eliminazione degli sprechi, mirando ad una mera razionalizzazione del
sistema. I nostri beneamati governanti giustificano i sacrifici che ci impongono asserendone la
necessità per uscire dalla
crisi. Porsi in condizione di rispettare le condizioni poste dal trattato di Maastricht fa sì che l'attuale
livello di
spesa risulti incompatibile con tale obiettivo. Non interessa affatto capire se la finanziaria da loro prospettata
sia o meno in grado di raggiungere lo scopo, l'importante è che l'entrata o meno dell'Italia in Europa
ha poco
o nulla a che fare con gli interessi degli sfruttati del primo e del terzo mondo. Quel che veramente è
incompatibile, quel che veramente è insostenibile è l'attuale modello di sviluppo e di
organizzazione sociale.
Quale qualità della vita? Assume pertanto rilievo non solo
l'iniquità nella divisione delle ricchezze ma la costellazione di significati che
si annette al più diffuso concetto di benessere. Il senso culturalmente acquisito e accettato di benessere
viene
contestato da una critica libertaria attenta alle acquisizioni del pensiero ecologico e acutamente consapevole
delle implicazioni dello sfruttamento del sud del mondo. Il concetto di qualità della vita viene
ridisegnato
attraverso una revisione profonda dei presupposti etici e materiali dell'agire sociale. E' qui che si gioca la partita
vera. Le frange più libertariamente orientate dell'arcipelago sindacale alternativo qualche piccolo passo
in questa
direzione l'hanno fatto. Strutture non gerarchiche in cui vige il principio della costante revocabilità dei
delegati
e la rotazione degli incarichi. Aggregazioni in qualche caso capaci di trascendere il momento della mera
rivendicazione salariale o normativa per impegnarsi in questioni di carattere generale, come lo sciopero del 22
febbraio '91 contro la guerra del Golfo. D'altro canto a fronte dell'irreversibile crisi del socialismo autoritario
le possibilità per l'alternativa sindacale d'uscire dalla marginalità si determinano sia sul piano
organizzativo, di
metodo, sia con le capacità di definire i propri obiettivi fuori dallo stolido operaismo distintivo della
sinistra.
Se non si verifica questa condizione i sindacati alternativi corrono il pesante rischio di farsi portavoce di mere
spinte corporative. Il 25 settembre a Torino al termine della manifestazione contro la manovra Amato, dal
tram che mi portava a
casa ho visto alcuni emigrati nordafricani aggirarsi tra le bancarelle ormai quasi del tutto smontate del mercato
di Porta Pila. Tra cartacce e rifiuti cercavano qualcosa di commestibile: uno di loro si è allontanato
stringendo
in mano alcune verdissime, lucenti zucchine. Già le zucchine.
|