Rivista Anarchica Online
Uno di noi
di Carlo Oliva
Alcune considerazioni sulla sentenza della Corte di Cassazione del 23 ottobre sul processo Calabresi
Sabato 24 ottobre: tutti i giornali annunciano in prima pagina la decisione della
Corte di cassazione sul caso
Calabresi. Con qualche eccezione, il clima è di sollievo generale, come se ci avessero tolto dalle spalle
un
qualche peso gravoso. Sono contento anch'io, naturalmente. Ma c'è un particolare che in qualche modo
mi lascia
perplesso, che mi rovina un po' quella legittima soddisfazione. Si tratta, non vi sembri strano, della grande foto
di Adriano Sofri in prima pagina del "Manifesto", sotto il titolo a sette colonne composto dalla sola parola
"Giustizia". Naturalmente tutti i giornali, questo sabato mattina, pubblicano in prima pagina una foto di Adriano
Sofri, da solo, contrapposto al suo accusatore, o, più correttamente, in compagnia dei co-accusati, ma
questa
è abbastanza peculiare. L'ex-leader è effigiato - in piano americano - in un ambiente ricco di
quadri e di libri,
anzi letteralmente traboccante di libri - libri sugli scaffali, libri alle pareti, libri accatastati sul pavimento -
mentre fissa l'obiettivo reggendo a due mani un enorme volume, da cui evidentemente ha appena staccato lo
sguardo. E' quella che una volta si sarebbe definita una "foto d'arte", sapete, quelle che apparivano, per
intenderci, sulle riviste del tipo di "Alfabeta" e si proponevano di cogliere, se non l'anima almeno il mood del
soggetto (infatti è anche firmata, da tale Tano d'Amico, che dev'essere uno che di queste cose se ne
intende) e
a noi lettori suggerisce un'idea di consuetudine libraria, di assiduità agli studi più faticosi, di
quella forma
d'impegno intellettuale un po' demodé propria di chi è uso maneggiare grossi tomi polverosi
in ambienti
pittorescamente disordinati. Beh, a me tutto questo è sembrato eccessivo. Va bene che Sofri, da
quando ha lasciato l'attività politica (e anche da prima) si è dedicato davvero agli studi,
meritando a pieno titolo la definizione d'intellettuale, ma quella foto rappresenta una sorte di cooptazione
beatificatoria nell'olimpo della cultura. Garantisce al colto pubblico e ai colti collaboratori di quel giornale che
l'ex-leader di Lotta Continua è a tutti gli effetti una persona per bene, uno di noi, anzi, migliore di tanti
di noi
che una tale confidenza con gli antichi volumi non possiamo vantare. Che è certamente vero, ma lascia
il
dubbio, alimentato magari da qualche vicenda giudiziaria passata, di che cosa sarebbe successo altrimenti.
Certezza del diritto? Cerchiamo di essere precisi, perché la questione
è delicata ed è meglio evitare equivoci. Non ho niente da ridire
sulla sentenza della Cassazione e sono assolutamente convinto dell'innocenza degli imputati. Come saprete, ho
fatto parte di Lotta Continua fino alla fine e non ho mai avuto motivo di dolermene o di pentirmene (e la
redazione di "A" è pregata di omettere, per una volta, la consueta nota di deprecazione). E' vero che non
ho
condiviso certe posizioni di Sofri e dei suoi amici più stretti dopo lo scioglimento dell'organizzazione,
in
particolare sul problema cosiddetto della dissociazione (ne ho anche scritto su questa rivista, se non erro),
né
mi è piaciuto il modo in cui ha impostato la sua strategia processuale, ma il processo era suo e la
responsabilità
relativa anche. Qualcuno ha scritto che la Cassazione ha ristabilito, annullando le sentenze precedenti, la
"certezza del diritto". Personalmente non credo particolarmente alla certezza del diritto, e temo che aspettarsi
giustizia dai tribunali non sempre sia cosa ragionevole, perché può sempre capitare che al
giudizio si
sovrappongano preoccupazioni diverse da quella di rendere giustizia a chi la chiede, ma sono sicuro che l'Alta
Corte, in questo particolare frangente, abbia compiuto un atto di giustizia. E se in futuro il suo pronunciamento
avrà qualche conseguenza d'indole generale, riducendo il peso che nei processi di qualsiasi tipo hanno
le
chiamate di correità di pentiti e delatori vari, sarà tanto meglio per tutti. Delle conseguenze
future - ho visto - si preoccupano in parecchi, dal Procuratore Generale che ha sostenuto
l'accusa a quasi tutti i commentatori di qualche peso che si sono occupati della sentenza. Nessuno di costoro,
mi sembra, deve nutrire grandissima stima per la magistratura e per i numerosi corpi di polizia che allignano
nel paese, visto che sono tutti sicuri che, una volta eliminata la collaborazione dei delatori, giudici e poliziotti
non saranno capaci d'individuare e di condannare uno straccio di delinquente, con particolare riguardo a quelli
che più ci preoccupano in questi giorni. Avranno i loro motivi. Personalmente, forse perché
rovinato da
un'assidua lettura di romanzi gialli, ho un'immagine mentale più articolata dell'attività attraverso
cui si
individuano e condannano i malviventi. E, che volete, resto irrimediabilmente convinto che persino i peggiori
capi mafiosi e i più turpi amministratori corrotti abbiano diritto a un processo che non si esaurisca in
una
chiamata di correità da parte di qualcun altro. Per sconfiggere la mafia e la corruzione ci vuol altro
che non i pentiti, e finché non avremo quest'altro non è
il caso di stracciarsi le vesti o di affrettarsi a mettere le mani avanti scrivendo, come hanno fatto in tanti, che
sì, questa volta è andata così, perché è un caso eccezionale (Adriano
Sofri non è un pirla qualsiasi) ma i pentiti
vanno benissimo, e non si toccano se no guai.
Se la sua immagine pubblica... In realtà, più che del futuro
mi preoccupo del passato. Penso alle centinaia di condanne irrorate ed eseguite in
base alla legislazione premiale, in seguito a dichiarazioni ancora più contorte, contraddittorie e
inaffidabili di
quelle del povero Marino, rilasciate, con inesausto cinismo, da assassini confessi recuperati a un passo
dall'ergastolo, da cupi burocrati del terrorismo o da ceffi che comunque avevano molto più da perdere
di Marino
e molto più di lui erano soggetti alle pressioni degli inquirenti. Mi chiedo con che faccia si possa
sostenere che
questa parodia di giustizia abbia aiutato, in passato, a sconfiggere un grave attacco alla democrazia. Della
democrazia fa parte un sistema giudiziario funzionante e rispettoso dei diritti degli imputati. Sofri non
c'entra. Lui ha impostato la sua difesa sulle contraddizioni e le inverosimiglianze interne all'accusa,
e a quanto pare hanno finito per credergli, sia pure in extremis. Il vero problema è perché a tanti
altri non hanno
creduto, anche se di contraddizioni e di inverosimiglianze nelle dichiarazioni, per fare qualche nome un po' a
caso, dei Fioroni, dei Peci, dei Barbone e via dicendo non ne mancavano certo. Forse sono cambiati i
tempi. Forse lui ha trovato dei giudici più illuminati. Forse gli ha giovato la mobilitazione di
un'opinione pubblica che in tanti altri casi è mancata (ma ancora: perché
in tanti altri casi è mancata?) E forse è anche un po' vero che, come dicevamo ai nostri bei
tempi in Lotta Continua e in altre organizzazioni
consimili, la giustizia non è estranea a quella che una volta si chiamava logica di classe, e non è
tanto facile
condannare in via definitiva gli intellettuali che vengono fotografati con aria assorta in mezzo a pile di libri.
Adriano Sofri non si offenderà: è uomo di grande intelligenza, ha riflettuto tutta una vita su
questi temi e ci avrà
pensato senz'altro anche lui, e poi il problema non riguarda lui personalmente ma l'immagine che di lui è
stata
divulgata a livello pubblico. Ma ammetterete che c'è qualche possibilità che se la sua immagine
pubblica (e la
sua attuale figura sociale) fosse stata diversa, se fosse stato, tanto per non andare troppo lontano, un banale
architetto Pietrostefani, un ignoto Bompressi o un antipatico Marino, la sentenza del 23 ottobre sarebbe stata
forse diversa.
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