Rivista Anarchica Online
Vecchie distinzioni e nuovi trasformismi
di Carlo Oliva
Anni di cambiamento, questi anni '90. Annunciati dalla caduta del muro di
Berlino, hanno sconvolto, oltre alla
carta geografica, abitudini, costumi e valori, particolarmente a livello politico. Ci hanno insegnato a riverire
il
nuovo che avanza, a non adagiarci sulle consuetudini, a disprezzare un poco chi si ostina a farlo, a non dar
niente
per garantito. A fare a meno dell'Unione Sovietica (e passi), dell'assistenza sanitaria, delle pensioni di
anzianità, del voto
proporzionale (per chi votava), delle aziende pubbliche e della distinzione tra destra e sinistra. Di quest'ultimo
feticcio di un modo superato di far politica, a dire il vero, non ci siamo ancora sbarazzati del tutto. Ma manca
poco. Ormai, a difendere la necessità di un impegno a sinistra sono pochi, e altamente sospetti (l'ultimo
a
impegnarsi in merito è stato, figuriamoci, Craxi) e a spiegarci che la sinistra non c'è (e la destra,
di conseguenza,
neanche) sono parecchi. E' un argomento prediletto dei vari pattisti e trasversalisti, dei Segni, dei Bianco, degli
Ayala, dei Martelli, dei Pannella e dei Rutelli, dei fautori del partito che non c'è e di quello che
dovrebbe esserci,
delle reti e delle liste per, dei rinnovatori e dei riciclatori. E, a quanto pare, costoro trovano orecchie attente in
ogni settore dello schieramento ideologico, se anche sul penultimo numero di "A" si poteva leggere una
esortazione, altrettanto convinta, sia pure diversamente motivata, a fare a meno di quelle superatissime
categorie.
Una certa utilità Ma sì, in fondo, chi ce lo vieta ? Che quella
di sinistra sia una definizione affatto estrinseca, poco più di una
metafora, lo sappiamo tutti. Non occorre essere dei grandi studiosi per sapere che deriva semplicemente dalla
collocazione (spaziale, non ideale) dei deputati rispetto alla presidenza nelle assemblee legislative, e risale ai
tempi della Rivoluzione Francese. Ora, quelle spaziali sono categorie eminentemente relative, e questo
può
renderle particolarmente utili ai fini di metafora politica. Ci sarà ben un motivo se non ha avuto
altrettanta fortuna
storica la metafora giacobina, sempre riferita alla collocazione parlamentare, di "montagna" e "palude", e se in
Sudamerica non si usa più certamente la distinzione tra "blancos" e "colorados" che, pure,
dominò per circa un
secolo le vicende politiche di molti paesi di quel continente, perdendo via via ogni riferimento all'originaria
connotazione razziale. Erano coppie di termini, diciamo così, descrittivi, legati a circostanze
particolari, mentre ognun sa che "destra"
e "sinistra" esprimono semplicemente la propria contrapposizione, dal che deriva una flessibilità d'uso
in cui sta
probabilmente la chiave della diffusione del loro impiego. Questo, naturalmente, significa che vanno utilizzate
con molta cautela per definire dei valori che si intende considerare assoluti. Insomma. Chiunque può
essere,
spazialmente e metaforicamente, a sinistra di qualcuno e a destra di qualcun altro e tra la sinistra di un partito
di
destra e la destra di un partito di sinistra dovrebbe esserci più contiguità che tra due partiti uno
più a sinistra (o
più a destra) dell'altro: in fondo, in questo consiste la tragedia storica delle socialdemocrazie. Chi invece
vorrà
affermare di essere solo ed esclusivamente di sinistra (o di destra) si caccerà fatalmente in un
deplorevole vicolo
chiuso, come è successo a certe tendenze estremizzanti, anarchismo compreso. E allora come si
fa ? Forse è meglio davvero farci una croce sopra. Purtroppo, neanche quella di farci una croce
sopra è un'operazione ideologicamente neutra, visto che nessuno rinuncia a una distinzione comoda solo
perché
la trova teoricamente insoddisfacente. Le distinzioni si fanno secondo certi criteri, che spesso sono in
correlazione
con gli obiettivi e gli interessi di chi le definisce. La distinzione classificatoria degli animali in vertebrati e
invertebrati è altrettanto lecita di quella in commestibili e non commestibili, ma è molto
probabile che chi adotta
la seconda abbia certi specifici fini, di natura gastronomica o commerciale. Quella tra destra e sinistra si
è conservata, dopo la Rivoluzione Francese, perché era comoda per organizzare gli
schieramenti tra le forze che appoggiavano e quelle che ostacolavano i programmi che pretendevano di
continuare
quello rivoluzionario (inteso come l'abolizione di un sistema storico di privilegi e la creazione di una
società su
basi politiche egualitarie). Il suo perpetuarsi per due secoli significa che quel criterio, mutatis
mutandis, ha
conservato a lungo una certa utilità. Personalmente, credo che sia ancora utilizzabile con profitto
proprio perché,
anche se il sistema cui si opponevano i giacobini non esiste più, non mi sembra che l'organizzazione
attuale della
società sia particolarmente egualitaria, ed è questo un valore cui tengo particolarmente.
Soltanto dei nomi Tutto ciò non esclude ogni sorta di complicazioni:
problemi di definizione operativa degli obiettivi (come
funziona, in sostanza, una società democratica? E con quali leggi elettorali?); dilemmi di adeguamento
mezzi-fini
(è proprio democratico eliminare i nemici della democrazia?); casi di falsa coscienza (io credo che il
mio
programma politico faccia progredire la democrazia, ma sono un inetto); casi di simulazione (io sostengo che
il mio programma politico farà progredire la democrazia, ma sono un mentitore), eccetera. La lotta
politica non è mai facile. Ma nessuna di queste specificazioni esonera veramente dagli obblighi di
schieramento. Io posso decidere che la tal forza organizzata con la sinistra non ha più nulla a che fare,
in quanto
totalmente asservita al padronato o alla plutocrazia internazionale (confesso che un tempo di queste private
scomuniche mi dilettavo più del lecito), ma non ho motivo di inferirne che la categoria di "sinistra" in
sé abbia
cessato di esistere. Se lo faccio, avrò anch'io i miei motivi, e farò meglio a dichiararli. Per
esempio, i pattisti/
traversalisti/riciclatori sono in genere personaggi che, provenendo dalla sinistra, hanno deciso di schierarsi a
destra
e, non desiderando esplicitare questa pur legittima opzione, preferiscono eliminare le categorie attraverso cui
la
si descrive, che, in fondo, è un'ingegnosa variante di quello che una volta si definiva "opportunismo".
Altri (come,
a quanto mi è sembrato di capire, fa Andrea Papi sul n. 194 di questa rivista) vogliono dire
semplicemente che
bisogna considerarsi liberi, d'ora in poi, di cercarsi alleati e compagni di strada in tutto l'arco politico, senza
privilegiare delle formazioni ormai degenerate e senza pagare un inutile tributo a vecchi pregiudizi. Un punto
di
vista lodevole, cui sono disposto a plaudire senza riserve, purché naturalmente gli obiettivi proposti
siano a)
identificabili e b) compatibili con i miei. Destra e sinistra, dicevamo dianzi, sono termini che non
esprimono altro che la loro reciproca contrapposizione,
ma non tutti, in politica, siamo disposti a rinunciare all'idea di contrapposizione. Finché esiste un blocco
sociale
e politico finalizzato alla conservazione, con tutte le tecniche disponibili, del privilegio economico e della
gestione autoritaria della cosa pubblica, la necessità di opporglisi mi sembra abbastanza ragionevole.
Il rischio
di trovarci fianco fianco di gruppi e persone di cui non apprezziamo l'ideologia e non approviamo l'articolazione
tattica è meno grave di quello di allearci, in nome di qualche fumosa "modernità", con
chissà chi. E' vero che il modello consociativo ha una lunga tradizione nel paese, specie al livello
dell'amministrazione, ma
questo è appunto uno dei motivi per cui il paese va come va. Dal trasformismo non è mai
venuto niente di buono.
Insomma, i nomi sono soltanto dei nomi, figuriamoci, e nessuno è attaccato alle etichette. Ma se volete
proprio
convincerci a non dirci più di sinistra, dire che il termine è vecchio non basta. Dovrete
esplicitare, con una certa
larghezza, criteri e obiettivi. Perché se quel vecchio termine in sé significa poco, non è
detto che significhi poco
il volersene sbarazzare a tutti i costi.
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