Rivista Anarchica Online
La mediazione necessaria
di Maria Matteo
Riflessione sui conflitti, sulle guerre, sulle modalità per prevenirle e combatterle. Senza gli occhiali
comodi ma
deformanti dell'ideologia.
Corpi scheletrici, pance gonfie, vecchi e bambini che giacciono nella polvere tra
l'indifferenza di tutti, mentre i
loro occhi enormi, dilatati scrutano apatici la telecamera che ne rimanda l'immagine. E' la Somalia. Dall'estate,
per mesi, i riflettori televisivi si sono accesi ad illuminare le sofferenze di questa parte del Corno d'Africa
finché,
come nella migliore tradizione dei film d'azione, non sono giunti i salvatori, al cui sbarco abbiamo potuto
assistere
in diretta. Evidentemente vi sono paesi in cui il dolore e l'ingiustizia sono più intollerabili che altrove.
Almeno
per l'ONU e per chi come gli Stati Uniti ha deciso di autoproclamarsene il gendarme armato. Riesce difficile
allontanare il sospetto che la posizione strategica della Somalia sia stata un non lieve incentivo dell'intervento
"umanitario" statunitense. Con buona pace di Woijtyla e dei suoi accoliti che si sono affrettati a benedire la
spedizione.
Mezzi non violenti? Pochi giorni prima della partenza dei marines, in un'altra parte del mondo,
nella Bosnia dilaniata da una tremenda
guerra civile, c'è stato un intervento esterno di ben altro sostegno: 500 pacifisti disarmati hanno
costruito una
catena umana che si è interposta tra i combattenti a Sarajevo. Un gesto simbolico che, al di là
della momentanea
interruzione dei combattimenti, suggerisce la possibilità di intervento e soluzione non armata dei
conflitti. La gran
parte delle persone, ispirandosi ad un senso comune troppo in fretta identificato con il buon senso, relega la
non-violenza nel limbo delle utopie simpatiche ma inutili. La sfiducia in mezzi nonviolenti di dissuasione
è tale
che in momenti di grave crisi anche gente certo non sospetta di manie militariste o pratiche violente, finisce col
non vedere altra via d'uscita che quella armata. In Bosnia persino organizzazioni come il Centro Internazionale
per la Pace di Sarajevo hanno sottoscritto appelli per un rapido intervento militare nella loro regione (1). E'
ben nota la tesi che tra due mali è giocoforza scegliere il minore, tuttavia tale assunto in apparenza
banale è
di non facile applicazione pratica in situazioni tragiche e complesse come quella Jugoslava. Gli stessi strumenti
della democrazia appaiono inutili, poiché la possibilità di scegliere non è in alcun modo
garanzia che le scelte
siano giuste. Le ultime elezioni in Serbia, nonostante il sospetto di brogli, hanno confermato il consenso alla
politica macellaia di Milosevic di amplissimi strati di popolazione. Scegliere in libertà non
comporta necessariamente lo scegliere la libertà. Il che pone in seria difficoltà chi, come
gli anarchici ed i libertari in genere, conferisce alla libertà un ruolo centrale nella propria teoria e nel
proprio agire
politico. L'accesso alla possibilità di decidere, anche se regolato con modalità ben più
ampie ed eque di quelle
usuali nei regimi democratici, non necessariamente apre la via ad un ordine sociale libertario. In effetti, occorre
riconoscerlo, la riflessione anarchica rischia talora di scivolare in un circolo vizioso. In qualche modo la
definizione e costruzione di uno spazio sociale libertario, suppone l'assunzione di un senso forte, etico della
libertà
che travalica l'ambito in cui questa viene comunemente concepita. La libertà non si limita perciò
a forgiare
modalità decisionali ma assume un ruolo più pervasivo, poiché diviene la
finalità esplicita dell'organizzazione
sociale. In ciò sta la sua grande forza ma anche la sua intrinseca debolezza, poiché se appare
più duttile ed agile
nell'affrontare i conflitti non distruttivi, è però poco attrezzata a gestire quelli più
dilaceranti. Il pensiero
liberal-democratico, la cui contiguità con l'anarchismo è per tanti versi innegabile, poggia
invece su una
concezione debole della libertà, considerata come bene prezioso ma fragile che occorre accuratamente
sorvegliare
e limitare per evitarne gli eccessi. Insomma la libertà è come certe medicine che nelle dosi
prescritte dal medico producono benefici, ma in
quantitativi più elevati intossicano.
Anche le democrazie Questa tradizione di pensiero non ha una concezione etica della
libertà. poiché separa nettamente l'ambito della
libertà da quello dell'etica. In tal modo fonda e giustifica la funzione regolatrice dello stato armato
all'interno delle
nazioni, e di organismi sovranazionali che intervengano nei conflitti tra gli stati. Nondimeno, nonostante la loro
apparente maggiore saldezza pragmatica, i regimi democratici han mostrato in troppe occasioni come il loro
meccanismo di regolazione si inceppi quando vengono attaccati da forze eversive. In questi casi, infatti, il
rispetto
delle regole cede il passo ad una logica dell'emergenza che, infischiandosene dei principi, adotta metodi simili
se non peggiori di quelli usati dall'avversario. Anche in questo caso quindi il sistema si rivela efficace
nell'affrontare conflitti ad esso compatibili ma incapace di risolvere quelli più distruttivi. Forme di
conflitto totale,
tra avversari irriducibili, fanno saltare le regole sociali preesistenti e ciò è tanto più vero
quanto più le strutture
sociali coinvolte assumono la libertà, l'uguaglianza e il rispetto della diversità quali principi
costitutivi. E'
un'aporia apparentemente irrisolvibile. La libertà non si ottiene negandola là dove la
libertà non è semplicemente
la mia, ma quella di tutti e di ciascuno. Il rapporto tra fini perseguiti e mezzi adottati non si può
misurare in
termini di mera efficacia, poiché in una prospettiva libertaria la distruzione dell'avversario rappresenta
sempre
comunque una sconfitta. Idealmente parlando l'unica strategia pienamente coerente mira a convincere
più che a
vincere l'avversario. Non è un caso che l'approccio non-violento abbia una forte componente
pedagogica. Il guaio
è che spesso ci troviamo di fronte a conflitti che rendono impossibile la rapida ed efficace applicazione
di tecnica
non-violenta di opposizione. Nel loro drammatico appello i membri del Centro per la Pace di Sarajevo,
constatata
l'inefficacia della resistenza civile alternativa nel prevenire prima e nel mitigare poi l'aggressione alla
Bosnia-Erzegovina, affermano con decisione: "In una situazione in cui la scelta è tra la
non-sopravvivenza e
l'intervento militare, noi decidiamo di scegliere quest'ultimo. Non si tratta di una scelta politica a cui ci porta
la
coscienza, bensì la necessità (1)". E' indubbio che di fronte al vero e proprio genocidio in
atto in Bosnia, risulta un po' capzioso cavillare sulla scarsa
coerenza di alcuni pacifisti jugoslavi. Occorre piuttosto che con chiaro richiamo ad un'etica della
responsabilità
ci si interroghi sul ruolo che in questa così come in altre analoghe vicende ha svolto la comunità
internazionale. Bisogna intanto chiarire che non tutti i conflitti sono uguali sia rispetto agli obiettivi delle
forze in campo sia
soprattutto in rapporto alle modalità del conflitto stesso. Sarebbe ingiusto infatti demonizzare i conflitti
in quanto
tali, poiché spesso l'assenza di conflitti non è l'indicatore d'una felice situazione d'equilibrio,
ma il chiaro sintomo
della non indolore eliminazione di ogni elemento di dissenso. I totalitarismi più feroci sono usualmente
assai abili
nel "pacificare" lo spazio sociale che controllano. E' altresì tipico di società più aperte
consentire certe forme di
conflitto quale garanzia della possibilità di trasformazione dei rapporti sociali. In questi casi il conflitto
non
innesca ma previene l'affermarsi di una logica distruttiva, poiché l'avversario raramente scade al rango
di nemico
da eliminare.
Un nemico de-umanizzato Nemico ed avversario non sono sinonimi, poiché
l'avversario, per quanto odioso, resta pur sempre un
interlocutore, qualcuno con cui ci si potrebbe mettere d'accordo; con il nemico non si può e non si vuole
cercare
una mediazione, perché egli crea una situazione intollerabile per il fatto stesso di esistere. Quando
l'avversario
diviene nemico subisce un processo di de-umanizzazione per cui uccidere, stuprare, torturare persone inermi
non
ha maggior rilevanza etica di quella che i più attribuiscono al liberarsi di topi e scarafaggi. Quanto
più si
approfondisce il processo di de-umanizzazione tanto più il conflitto si farà feroce, rendendo
impensabile un
processo di pace. Molti si sono chiesti perché gli americani al termine del secondo conflitto mondiale
non abbiano
riservato ai tedeschi lo stesso trattamento riservato ai giapponesi, sganciando su Berlino l'atomica. E'
sufficiente riguardare in TV uno dei tanti film che registi statunitensi dedicarono a quella guerra per avere la
risposta. In queste pellicole "scimmie gialle", epiteto usuale con cui vengono designati i giapponesi, non trova
un corrispettivo quando il nemico anziché giapponese è tedesco. Al contrario, caratteristica
costante di moltissimi
film è la cura con cui gli autori insistono nel distinguere la minoranza folle e spietata di SS e gerarchi
nazisti dal
resto dell'esercito e del popolo tedesco. Il processo di de-umanizzazione, pressoché totale nel caso dei
giapponesi,
non lo era altrettanto nel caso dei tedeschi. Le orrende testimonianze che giungono dalla Bosnia sono il chiaro
indice di una guerra in cui almeno per molte delle fazioni in lotta l'avversario è divenuto un nemico
completamente de-umanizzato. Sebbene poco verificabile il quadro della Somalia che pare emergere dai
reportages dei mass-media occidentali non è possibile misurare l'efficacia delle soluzioni proposte con
un
parametro univoco, poiché la valutazione dei vantaggi e dei costi di ogni ipotesi non è mera
questione tecnica ma
etica e politica. I sostenitori dell'intervento armato dimenticano che per lo più certe operazioni di pace
e polizia
internazionale non sono che la copertura delle squallide mire imperialistiche delle potenze occidentali. Poco
valgono le argomentazioni di chi, pur conscio del ruolo reale delle cosiddette forze multinazionali di pace, lo
considerano il male minore.
Contro le logiche degli stati Ancora non sappiamo quante migliaia di vittime innocenti abbia
mietuto la guerra nel golfo e quanti altri muoiano
e soffrano a causa del perdurare delle sanzioni economiche. A meno di scadere in una logica governata da un
indiscriminato occhio per occhio, dente per dente è impossibile pensare che bombardare a tappeto ed
affamare
un popolo sia il male minore. Questo non significa che si possano nutrire illusioni eccessive sulla
capacità di
incidere, nel breve periodo, di mezzi quali la marcia di pace a Sarajevo. Ma non significa neppure che si debba
accettare il ruolo di spettatori impotenti di fronte allo strapotere dei vari signori della guerra in Somalia come
in
Bosnia e, ancor più, qui in Italia. È scandaloso che quasi nessuno si sia opposto all'intervento
dell'esercito italiano
in Somalia, un paese dove gran parte delle battaglie sono combattute con armi fabbricate nel nostro paese.
D'altra
parte lo spirito umanitario del nostro governo è tanto sollecito ad inviare truppe nel Corno d'Africa
quanto poco
lo è nell'aprire le frontiere ai profughi, ai disertori ed agli obiettori provenienti dalla ex-Jugoslavia. E'
nota la
vicenda di Zoran Cuk, diciannovenne obiettore di Zagabria, espulso come immigrato clandestino dopo un breve
soggiorno nel nostro paese. Zoran non è certo l'unico che si sia rifiutato di vestire una divisa,
poiché pare sia
piuttosto elevato in tutti gli schieramenti il numero dei disertori e degli obiettori. Non sembra pertanto
illegittimo
supporre che tale numero possa ulteriormente crescere se vi saranno concrete forme di sostegno a chi non vuole
combattere in questa guerra. Per quanto scarse, le possibilità di risoluzione non tragica del conflitto
nella
ex-Jugoslavia dipendono in gran parte dalla capacità di costruire uno schieramento che sappia
esercitare la
necessaria funzione mediatrice. Funzione che certo non può essere svolta dall'ONU le cui risoluzioni
vengono
applicate solo quando coincidono con gli interessi della maggiori potenze finendo talora con l'inasprire
anziché
attutire il conflitto. In Serbia, in Croazia, in Bosnia esiste un'opposizione democratica alla guerra che l'ONU
e la
CEE si sono ben guardati dall'appoggiare, adoperandosi altresì per accelerare ulteriormente il processo
di
polarizzazione in atto. Le sanzioni economiche, colpendo indiscriminatamente le popolazioni serbe, macedoni
e montenegrine non possono che rafforzare le già dilaganti tendenze scioviniste e nazionaliste. In questo
quadro
è chiaro che l'onere dell'iniziativa non spetta agli stati ma a chi consapevolmente si pone fuori e contro
le logiche
che li animano. Se è vero che l'approccio libertario è poco attrezzato ad affrontare i conflitti
più dilaceranti, resta
anche altrettanto vero che è il più attento ed eticamente motivato nel perseguire strategie che
mirino ad allargare
gli spazi di convivenza e di rispetto per la diversità. Sostenere in tutti i modi l'opposizione alla guerra
in Croazia
come in Bosnia e in Serbia diviene obbiettivo prioritario, perché solo da ciò dipende la
possibilità di creare uno
spazio di mediazione e di dialogo. E' difficile ma necessario. Altrimenti l'ultima parola sarà dei cannoni
e dei
missili statunitensi oggi impegnati a pacificare col fuoco la Somalia.
1) Cfr. Azione non-violenta, novembre '92, pag.23 "agitprop".
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