Rivista Anarchica Online
Mafia e capitale
di Salvo Vaccaro
È ingenuo delegare al momento politico la direzione di un conflitto acuto che ha per meta non solo e
non tanto
l'eliminazione di uno dei due partner del conflitto intestino, bensì le condizioni di ordine sociale,
economico e
politico, che consentono l'affermazione di un gioco competitivo, tragico, sulla pelle dei cittadini coinvolti
intensamente, loro malgrado, e costretti a stupidi schieramenti da tifoseria calcistica
Nella mitologia contemporanea, l'immagine della piovra mafiosa e tentacolare
si accoppia a quella del cancro:
una cellula mortale che pervade un corpo sano sino ad annichilirlo totalmente. Tutto ciò che viene
contagiato dalla
cellula-killer non ha scampo, proprio come certe categorie sociali e soprattutto economiche, le cui
attività
(commerciali, artigianali, industriali) sono "a rischio": di infiltrazione mafiosa, di ricatto, di sostituzione forzata
o indotta (nella gestione o nella proprietà), di pressione. La metafora patologica e clinica esprime un
linguaggio
verticale, che taglia in due parti ben distinte un corpo, quella sana e quella malata. Il cancro, tuttavia, è
una
patologia che emerge dal corpo sano e non proviene dall'esterno. Un impazzimento dell'organismo, una entropia
degradante. Tale lettura è coestensibile a quella che danno i pentiti di cosa Nostra. Essa è, a loro
parere,
degenerata dallo statuto originario (sebbene il punto d'origine sia sempre una finzione storica), è
debordata dai
"veri" limiti d'"onore" ben scolpiti in decine di anni di codice comportamentale e di pratica unanimemente
condivisa. Il delirio di potenza economica e politica dei "corleonesi" non ha limiti (le virgolette stanno ad
indicare
la sostituibilità del soggetto funzionale in un processo che potrebbe riguardare e andare bene per altri
fenomeni
sociali "irregolari" rispetto a un sistema trasgredito per motivi di scalata di potere), e infatti "delirare" significa
esattamente "passare i confini". L'accostamento tra i pentiti interessati e sostenitori della tesi del cancro
mafioso rispetto ad una società
capitalistica-statuale sostanzialmente sana e democratica, potrebbe anche non far piacere, comunque riflette
indubbiamente il peso dei pentiti nella complessa trama che l'immaginario sociale sulla lettura della mafia si
è
andato costruendo attraverso libri e instant-book, dibattiti televisivi, inchieste giornalistiche, dossier
investigativi,
requisitorie giudiziarie, veline dei servizi, e via dicendo. Il linguaggio medico-clinico sulla follia - ci ha detto
Foucault ormai trent'anni or sono - è servito e serve tutt'ora per escludere e controllare al contempo
comportamenti
"devianti": prima li istruisce in quanto tali e poi li regolamenta disciplinandone il trattamento. Raramente li ha
compresi simpateticamente o solidaristicamente. Ovviamente, in questa sede non si tratta affatto di capire con
benevolenza Cosa Nostra, bensì di comprendere alcuni meccanismi di funzionamento in quello
specifico versante
dell'economico. E credo che, alla fine della lettura degli interventi racchiusi in questo dossier, ne verrà
fuori un
quadro dissonante rispetto alle giaculatorie - peraltro apprezzabili negli intenti e in alcuni effetti "militanti" -
della società civile; la quale, detto incidentalmente, trascura negligentemente il fatto che in essa pure
si
ricomprendono atteggiamenti culturali para-mafiosi: mitologie dell'onore, dell'omertà,
dell'anti-istituzionalismo
statale, del ferreo rispetto gerarchico, della morte come giudice supremo, dell'autorità mondana, al pari
della
divina, che dà la morte, ecc. ecc.
La violenza agli esordi Terrore e violenza organizzate non sono ignote nel
panorama della storia dell'uomo, e dell'Homo capitalis, per
riferirci alla società occidentale degli ultimi tre-quattro secoli. Le lotte per la supremazia tra fazioni
di potere
economico agli esordi di quel che poi risultò il capitalismo moderno non erano meno aspre e illegittime
di quelle
di oggi, agli occhi delle popolazioni che le subivano sulla propria pelle. La pretesa di recintare terre, che allora
erano fonte di valorizzazione (agricoltura e pastorizia), i contributi da pagare a messi fiscali provenienti da
un'autorità pretesa suprema, lontana e invisibile agli occhi dei più (e che se la codificava
legittimamente dopo aver
vinto sul campo), le rivolte e le repressioni a sangue che ne scaturivano, le ferocie e le esemplari ritorsioni del
genere "stenderne uno per educarne cento", sembrano, indifferentemente, riportarci indietro al XVI-XVII secolo
o precorrere i giorni nostri. E' vero, cambiano anni, uomini, motivazioni e dinamiche, ma le medesime
poste in palio non sono soltanto il
frutto di un trucco analogico. La similitudine non ci insegna nulla di nuovo, appunto, solo ci rivela una
persistenza
arcaica di strumenti di forza pura quale veicolo per la dominazione. E in questo senso i primi accumulatori del
XVI-XVII secolo e i mafiosi odierni non fanno altro che massimizzare il potenziale di forza necessaria per
imporre la propria sovranità sul meccanismo capitalista della valorizzazione e del suo comando politico:
produrre
soldi a mezzo di soldi, saltando la scomoda e parassitaria intermediazione della produzione di qualche merce.
A
meno che la "merce" della violenza mafiosa non sia la sicurezza politica del controllo di popoli e territori
(legittimata de facto), esattamente come, secondo i postulati canonici di ogni costituzione liberale
che si rispetti,
lo stato è l'esponente depositario dell'uso della forza fisica entro un dato territorio e sopra una
determinata
popolazione, sorto dopo aver sbaragliato o consorziato concorrenti sia esterni che interni. E se successivamente
spunta un ulteriore concorrente, meglio un alter ego, allora è la guerra. E' sempre un discorso
vincente e vittorioso che sancisce verticalmente chi sono i buoni e chi i cattivi (riflesso
prolungato, e non annacquato da procedure di legittimazione democratica, è riscontrabile nel
riconoscimento
giuridico-statale nel campo del diritto internazionale), e non abbiamo timore di smentita che la storia verrebbe
scritta diversamente se tra cinquant'anni dovessero vincere gli uomini e le potenzialità della mafia, con
il "Papa"
Greco, Liggio e Riina glorificati e Buscetta, Falcone e Borsellino squalificati e reietti.
Il salto di qualità La tecnologia del XIX secolo è stato il
volano del capitalismo industriale, rappresentato esemplarmente da
immagini meccanicistiche. Oggi che le tecnologie informatiche si sono rese autonome da dimensioni ristrette
di
spazio-tempo, il capitalismo finanziario è l'acceleratore delle dinamiche di valorizzazione e
accumulazione
astratta trionfante in tutto il pianeta, sebbene una parte forse la più grande, lo vivrà come piovra
sfruttatrice dai
mille tentacoli asfissianti, che impedisce una vita degna, una autodeterminazione politica, una indipendenza
economica, la risoluzione dei problemi dell'inquinamento ambientale, della fame e della carestia, della sete e
della
canalizzazione delle acque. Il suggerimento che il ruolo che l'FMI - la sigla convenzionale per indicare il
capitalismo mondiale egemone -
gioca per l'Africa, il Sud - ed il centro - America e buona parte del continente asiatico, sia lo stesso che, in
piccolo,
gioca la mafia nei confronti delle regioni meridionali italiane, vuole significare l'interconnessione stretta tra
capitale (con tutti i suoi problemi di dislocazione dello sfruttamento e di oggetto di valorizzazione selvaggia)
e
Cosa Nostra (con tutte le "spiacevoli e oggettive" derive fisiologiche della violenza e del terrore vissute da chi
ne subisce le luttuose conseguenze). Anche il capitalismo, per trionfare, si è nutrito e si nutre di
vittime sacrificali. Sul piano economico, la mafia è
immersa sino al collo nel flusso anonimo e vorticoso dei capitali, e sarebbe la prima a voler scongiurare un
ribaltamento economico-politico che toccasse i nervi nevralgici dei meccanismi di valorizzazione. La
finanziarizzazione dell'economia occidentale è oggi il parassita speculativo che, nel capitale lecito, si
alimenta
di insider trading, di voci artatamente diffuse in borsa, di competizioni monetarie e di velocità di
trasferimento
di capitali da una borsa all'altra, da un paradiso fiscale all'altro, lucrando non su margini di rendita di
attività
concrete, bensì sul tempo astratto di reazione, direi quasi di fuso orario; laddove il capitalismo illecito
(ma la
qualificazione è contingente e legata ad una normativa umana e politica sempre più
inconsistente nella sua presa
sul fenomeno reale) si alimenta di attività considerate illegali, quali il racket, la commercializzazione
della droga,
l'accaparramento di appalti pubblici legati al potere politico, il traffico internazionale di armi. Attività
formalmente coerenti con il sistema capitalista ma da reprimere per motivi di mera opportunità
politica.
Un legame non slegabile In questa sede, la mafia è simile a tante
altre organizzazioni criminali, con la specificità culturale della propria
insularità (centralità della Sicilia) e della propria organizzazione familistica (a clan e filiazioni
di clan via
matrimonio), due fattori che la rendono in prospettiva anelastica rispetto ad analoghe formazioni la cui ricerca
di alleanze prescinde da vincoli simbolici di terra e sangue. La difficoltà di cogliere le trame della
combinazione
perversa tra politica statale ed economia mafiosa - ammesso che siano distinguibili, come suggerisce
ironicamente
Smithersons - fa ritornare alla mente i dibattiti engelsiani di fine ottocento sul ruolo dello stato rispetto alla
borghesia padrona: chi erano i guardiani del potere? i padroni del capitalismo, che si servivano dell'apparato
delegato dello stato per imporre i propri traffici (leciti) egemonicamente? oppure il ceto politico, che utilizza
le
risorse economiche della proprietà privata per perpetuare il proprio sistema di potere concedendo favori
e
normative privilegiate nella sfera economica, autonoma e forte ma pur sempre sussunta, sottomessa al politico?
Sotto questa luce, i discorsi sui rapporti tra mafia e politica sono identici all'inconsistenza ridicola di quei
dibattiti.
L'immagine della piovra dovrebbe suggerire che tentacoli e ventose non si muovono per aria, bensì in
un elemento
acqueo che consente prese e resistenze. Banale dire che il modo più idoneo per sconfiggere una piovra
temibile
e gigantesca sia quello di prosciugare l'ambiente in cui vive, specie se questo è un oceano immenso,
così come
oggi è immenso e smisurato lo spazio scenico in cui si recita un solo copione, da Toronto ad Aberdeen,
da Manila
a Managua, da Palermo a Vladivostok, da Accra a Katmandu: il capitalismo. Meno banale e più
serio, però, è dire che vanno recisi, da un lato, i tentacoli, incidendo quindi sulle trame occulte,
sui patrimoni accumulati e disponibili, sui segreti bancari, veri e propri santuari moderni del capitale finanziario,
sui vincoli di clan, sui legami di appartenenza, sulle connessioni tra poteri economici (illeciti, leciti e illeciti che
aspirano alla liceità) e poteri politici (leciti che utilizzano o sono utilizzati dall'illecito), nella cui zona
grigia si
intersecano campi strategici specifici e si stringono alleanze di potere. Ma dall'altro, va anche raschiata la
superficie sulla quale si saldano le ventose, rendendole vischiose e respingenti.
In altre parole, vanno cambiate le regole di un gioco che consente l'affermazione di un dominio unipolare - che
può anche frammentarsi in diversi partners ferocemente contrapposti e concorrenti alle poste dello
stesso gioco.
Vanno riviste le regole della finanza, degli appalti pubblici, della formazione del processo decisionale pubblico,
dello strapotere bancario, dei santuari e paradisi fiscali.
Un'angolazione sovversiva Qua forse ritorniamo all'utopia di un mondo
senza capitalismo, vivente cioè su basi politiche ed economiche
diverse da quelle attuali. Non è il caso nemmeno di accennarne in coda di discorso, ma è forse
l'angolazione da
cui è possibile intravedere anche soluzioni minimali di resistenza allo strapotere violento del denaro,
che è il vero
obiettivo di Cosa Nostra e del capitale (indifferente a questioni di lecito/illecito). Quando i movimenti
comprenderanno a tutto tondo tale valenza, allora la serrata lotta tra settori dello stato e Cosa
Nostra assumerà una configurazione forse meno intensa emotivamente ma indubbiamente più
corretta nell'analisi
dello scenario. Sarebbe il primo passo per l'individuazione di resistenze non solo locali (in Sicilia e in Italia)
ma
legate agli sfruttati di tutto il globo, solo i quali potranno interrompere i diktat della valorizzazione, bloccando
la finanza e restituendo concretezza ad un'economia scissa dai destini dei popoli per rarefarsi nella
moltiplicazione
infinita e parossistica del denaro. Proprio come un cancro. Da tale angolazione è possibile
recuperare altresì anche obiettivi intermedi e imporli alle istituzioni
controllandone dal basso l'attuazione. È ingenuo delegare al momento politico la direzione di un
conflitto acuto
che ha per meta non solo e non tanto l'eliminazione di uno dei due partner del conflitto intestino, bensì
le
condizioni di ordine sociale, economico e politico che consentono la realizzazione e l'affermazione di un gioco
competitivo tragico sulla pelle dei cittadini coinvolti intensamente loro malgrado e costretti a stupidi
schieramenti
da tifoseria calcistica. Se è vero che il Colosseo era la metafora della decadenza del potere imperiale
di Roma-caput-mundi, lo stadio
da football è l'immagine altrettanto eloquente non solo delle risse aggressive, se si vuole superficiali
quanto a
motivazioni sociali sebbene dissuasive e spostate di campo rispetto all'arena della Società, recitate
sull'erba e negli
studi televisivi per simulare una fittizia contrapposizione nel medesimo gioco (anche questa metafora
indicativa),
ma anche del ruolo da spettatore passivo chiamato a partecipare solamente nell'attimo del goal, quando
cioè a
vincere sono tutti gli altri, anche gli sconfitti della gara, ma mai i cittadini.
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