Rivista Anarchica Online
Vivere da anarchica
di Rosanna Ambrogetti
All'età di 89 anni, è morta a Bologna Maria Zazzi. Per ricordarne la figura umana e militante,
ripubblichiamo
l'intervista che le fece Rosanna Ambrogetti nel numero 91 di "A" (aprile 1981)
Maria Zazzi, settanta anni, una lunga militanza alle spalle, una militanza attiva
anche se poco "famosa". La sua
militanza si è svolta soprattutto all'estero: Francia, Belgio, Spagna, sempre in movimento da un posto
all'altro.
Conosco Maria adesso, che ha dato tutto il possibile alla lotta; ma non si è fermata, è sempre
presente ovunque
ci sia un'attività, una prospettiva di lavoro che la interessi. Con lei ho voluto parlare del suo passato ed
ho
ascoltato molto: il racconto è semplice, fatto con una modestia grandissima, la modestia di chi, avendo
creduto
sinceramente in quello che faceva, pensava di non fare mai abbastanza. Ma quello che più mi ha
colpito nel suo racconto è ciò che traspare fra le righe: l'entusiasmo che l'ha
accompagnata; la totale disponibilità ad una lotta che, come lei stessa dice, era la sola ragione,
il solo modo per
sopportare la misera vita di allora; il "mutuo appoggio", realizzato nella pratica con spontaneità
fra i compagni;
infine la semplicità con cui ha superato la difficoltà che il suo essere donna, certamente una
volta più di ora,
poteva comportare, per essere fino in fondo una compagna al fianco ed al pari dei compagni. Certamente
esperienze come questa è meglio ascoltarle che leggerle, ma spero che anche dallo scritto, senza dubbio
meno
efficace del racconto, possa scaturire ciò che ho colto dalla viva voce di Maria.
Maria più che farti domande, preferirei fossi tu a raccontarmi un po' la tua militanza,
la tua vita di
compagna anarchica. Oppure una prima domanda potrebbe essere: come è cominciata?
Molto semplicemente. Quando avevo circa diciannove anni, nel 1923, partii per la Francia. Dovevo andare
a
Parigi da mio fratello; sua moglie era morta di parto e lui avevo bisogno di qualcuno vicino, soprattutto per la
bambina appena nata. All'epoca non ero ancora coscientemente anarchica, ma già, istintivamente, avevo
un spirito
libertario. Appena in Francia poi, conobbi Armando Malaguti, che molto tempo dopo diventerà mio
marito,
anarchico fuggito da Bologna per una lite con un pezzo grosso fascista. Tramite lui cominciai a frequentare
compagni ed ambienti anarchici e gradatamente mi ritrovai nelle loro idee, anarchica anch'io. Infatti quello che
doveva essere un breve soggiorno a Parigi divenne l'inizio della mia "militanza", della mia vita movimentata
assieme ad Armando, sempre costretti a spostarci da un posto all'altro.
Maria qual era la composizione sociale dei gruppi con cui sei stata in contatto e qual era la
vostra attività?
A Parigi i gruppi anarchici erano in gran parte composti da operai, anche se non mancavano alcuni studenti.
C'era
qualche intellettuale, mentre invece erano quasi completamente assenti le donne. Inoltre con l'emigrazione
fascista
si erano aggiunti anche molti lavoratori italiani. In quel periodo la nostra attività era volta soprattutto
all'assistenza
ai rifugiati ed alla propaganda, particolarmente nei luoghi di lavoro. A Parigi conobbi la famiglia Berneri a cui
fui molto legata e che ricordo sempre con molto affetto. La nostra attività procurò ad Armando
vari arresti e la
nostra vita fu per questo molto movimentata. Infatti nel 1927 ci trasferimmo nel Lussemburgo poi in Belgio
a causa di un mandato di espulsione che aveva
colpito Armando. Prima andammo a Seraing, poi a Liegi, per fermarci infine a Bruxelles. Anche a Bruxelles
entrammo subito in contatto con i compagni anarchici. Qui conobbi anche Ida Mett (autrice de "I
contadini russi
50 anni dopo" n.d.r.) e suo marito Nicola Zarevic, fuggiti dalla Russia. Più avanti conobbi anche
Durruti ed
Ascaso. Del gruppo con cui lavoravo io faceva parte anche un professore, Giulio Manon, che fu condannato a
10
anni di carcere per aver messo una bomba carta (tra l'altro rimasta inesplosa) nel pianerottolo di casa di un
giudice
che aveva condannato ad una pena durissima un giovane compagno anarchico. Dopo cinque anni gli fu
concessa la grazia, ma egli molto coerentemente la rifiutò. Anche qui a Bruxelles la nostra
attività continuava fra la propaganda e l'assistenza ai rifugiati. Ricordo che, precedentemente, a Liegi,
mi
occupavo soprattutto di portare cibi, vestiti e saluti ai compagni in carcere e siccome mi presentavo sempre
come
zia del compagno di turno che cercavo, i secondini mi affibbiarono il soprannome di "tante Marie" (zia Maria).
In Belgio fu molto importante l'agitazione a favore di Sacco e Vanzetti. Questa campagna culminò il
giorno
dell'esecuzione con uno sciopero generale organizzato da noi. La sera prima, ai capolinea, riempimmo tutti i
tram
di manifesti inneggianti allo sciopero generale, ricordo che io ero assieme a Bruno Guaraldi e a Sbardellotto.
I
sindacati ufficiali non promossero nessuna iniziativa, né furono al corrente della nostra. Per cui
all'indomani
mattina, quando - spinti dalla nostra propaganda - i lavoratori aderirono in massa allo sciopero di protesta,
restarono di sasso.
Al di là del lavoro strettamente politico, che impressioni, che ricordi hai di questo
periodo?
Di tutto questo periodo ricordo sempre con piacere la grande solidarietà che esisteva fra i compagni.
Ci si aiutava
reciprocamente, si divideva quel poco che c'era, ci si sosteneva moralmente, in modo spontaneo, pronti ad
affrontare assieme, serenamente, sia le piccole cose di ogni giorno sia la continua persecuzione poliziesca.
Proprio
a proposito della solidarietà che si manifestava tutti i giorni, ricordo che poiché io col mio
lavoro (facevo la sarta
per uomo) aiutavo anche alcuni compagni che stavano da noi, questi molto naturalmente e spontaneamente
mandavano avanti la casa.
Andando avanti nei ricordi, rimaniamo in Belgio o siamo di nuovo in
movimento?
I ricordi sono tanti e parlandone ne riaffiorano sempre alla mente, in modo non sempre ordinato. Ma almeno
cercherò di parlarti delle tappe più importanti. A Liegi Armando, per un litigio con un prete
fascista (faceva parte
di una delle tante "opere di assistenza per gli emigranti" che il fascismo in accordo con la Chiesa aveva seminato
all'estero ovunque ci fossero emigranti da "controllare") fu colpito da espulsione. Cercammo però di
rimanere in
Belgio ed Armando continuò a stare a casa clandestinamente. Però un giorno arrivarono
a casa dei poliziotti per cercare Armando, che fortunatamente era assente; perquisirono
la casa e mi interrogarono, chiedendo spiegazioni per gli abiti maschili trovati. Io non mi feci intimorire, ma
dopo
questa perquisizione decidemmo di tornare a Bruxelles. Io però alla stazione fui fermata e portata al
commissariato a causa di un mandato di espulsione spiccato contro di me a Liegi. Quando fui portata davanti
al
commissario però mi accorsi che nel mandato di cattura il mio cognome era sbagliato (Faggi
anziché Zazzi) ed
anche la foto non molto chiara non poteva assicurare con precisione la mia identità. Giocando su
queste cose tentai il tutto per tutto ed insistei sul fatto che non ero la persona che cercavano.
Effettivamente non poterono fare altro che rilasciarmi, chiedendomi però di tenermi a disposizione.
Naturalmente
li presi alla lettera e raggiunsi immediatamente Parigi (era il 1932) dove mi ritrovai con Armando e dove
riprendemmo subito i contatti con i compagni. Durante questo secondo periodo a Parigi conobbi anche Machno
e Volin.
Maria , fra i compagni che hai conosciuto hai già citato parecchi nomi poi passati alla
storia (i Berneri,
Ascaso, Durruti, Ida Mett, ed ora Machno e Volin). Di tutti loro che impressioni hai avuto?
Erano compagni eccezionali. Di tutti loro ho un ottimo ricordo; erano di una modestia e di un cameratismo
eccezionali, non si comportavano affatto da "superiori" nonostante la stampa borghese spesso li presentasse
come
dei capi. In genere la stampa li presentava come uomini d'azione, mentre invece erano anche uomini di pensiero,
in grado di affrontare qualunque argomento o contraddittorio.
E del periodo "Spagna": cosa puoi dirmi?
Quando scoppiò la guerra di Spagna, Armando andò subito a Barcellona e di lì
andò con la colonna Ascaso, a
combattere a Monte Pelato, sul fronte d'Aragona. Poco dopo andai anch'io a Barcellona.
Maria, ciò che noi leggiamo su Barcellona è più vicino al mito o alla
realtà?
Barcellona era una cosa fantastica. Arrivando là si entrava in un altro mondo. Si vedeva veramente
da ogni cosa,
dalla più grande alla più piccola, che era avvenuto un grande cambiamento. Si viveva in piena
solidarietà e
fraternità con la coscienza di lottare non solo per abbattere il fascismo, ma per costruire un mondo
migliore basato
sull'uguaglianza e sulla libertà.
Oltre agli anarchici, quali erano le altre forze politiche che lavoravano in questo
senso?
Per quel che vidi io, oltre agli anarchici ed al piccolissimo POUM, non c'erano altri che si impegnassero
sinceramente per far trionfare questi principi rivoluzionari. I comunisti, contrariamente a quanto si legge nei
loro
libri, erano del tutto assenti e solo dopo i fatti del maggio '37 riuscirono ad avere posto nella vita di Barcellona.
Io comunque non mi fermai molto in Spagna e poco dopo tornai a Parigi. Armando tornò dalla Spagna
in licenza
nel '37 ma fu subito arrestato. A Parigi mi occupavo soprattutto di sistemare i compagni che tornavano dalla
Spagna. Trovavo loro documenti e alloggio e vi assicuro che non c'era molto tempo per fermarsi.
Nel 1939, quando ci fu l'invasione tedesca, dove ti trovavi?
Quando ci fu l'invasione tedesca io mi trovavo ancora a Parigi, nonostante l'invito delle autorità
francesi ad
evacuare la città. In dicembre fui arrestata dalla Gestapo e portata al quartier generale. Fui subito
interrogata:
volevano informazioni su Armando Malaguti ed io per non tradirmi decisi di rispondere sempre "non lo so".
Mi
interrogarono per tutta la giornata, ma non mi fecero nulla. Verso sera mi portarono in cella dove rimasi sola
per
tutta la notte. Dalla cella sentivo le urla, che non cessavano mai, di quelli che venivano torturati. Il giorno dopo
ripresero lo stesso interrogatorio. Ad un certo punto mi chiesero l'indirizzo ed il mio nome: io ormai non li
ascoltavo più e risposi col solito "non lo so". A questa mia risposta uno di loro mi dette un pesante
ceffone, poi
fui riportata in cella. Non subii altri maltrattamenti e dopo tre giorni e tre notti fui rilasciata. Appena fuori
mi recai in un bar, che
sapevo frequentato da compagni, sperando di avere notizie di Armando: anche lui era stato arrestato. Il giorno
dopo il mio rilascio subii una perquisizione, volevano di nuovo strapparmi notizie di Armando e, alle mie
risposte
negative, mi schiaffeggiarono di nuovo. Cominciai a cercare Armando in tutte le prigioni di Parigi. In una trovai
Giovanna Berneri anche lei in arresto. Alla fine trovai anche Armando: chiesi un permesso di visita che mi fu
negato, ma con decisione mi rivolsi direttamente ai francesi, che non vedevano di buon occhio i tedeschi
occupanti, e con qualche stratagemma riuscii a vederlo. Dopo un mese Armando fu portato in Germania ed in
seguito mandato al confino a Ventotene. Questo lo venni a sapere solo tre mesi più tardi da mia sorella
e nel '42
cercai di tornare in Italia. Alla frontiera fui fermata per tre giorni: nel visto che mi avevano rilasciato al
consolato
c'era un segno particolare che mi aveva segnalata alla polizia di frontiera. Tornai comunque a Bologna e qualche
tempo dopo andai a Ventotene per vedere Armando. Per vederci occorreva però un ottimo motivo e
così
decidemmo di sposarci. A Ventotene c'era, come capo della polizia, il "famoso", per noi anarchici, questore
Guida. Al confino fui aiutata da Pertini e da Terracini, che se ne intendevano più di noi, per ottenere
i documenti
necessari al matrimonio. Questi documenti però tardavano ad arrivare e Pertini mi consigliò
di tornare a Bologna - nonostante l'opposizione
di Guida che voleva aggregarmi alle confinate - per poter sfruttare una seconda volta il diritto alla visita
matrimoniale. Successivamente Armando fu trasferito ad Ustica e poi a Renicci d'Anghiari da dove
scappò dopo
l'8 settembre 1943. In seguito continuammo la nostra militanza a Bologna. Armando, da certi documenti trovati
da dei compagni a Firenze, risultava fucilato per cui fummo lasciati abbastanza tranquilli. Lavoravamo con
i partigiani nell'attività antifascista, aiutavamo i compagni vivendo alla giornata e rischiando
più volte di essere scoperti; in questi casi la fucilazione era assicurata. Fui però delusa
dall'ambiente dei compagni
italiani. Mi mancava il clima fraterno che avevo sempre trovato tra i compagni con cui avevo lavorato all'estero.
Non c'era la stessa forte solidarietà che ci aveva sempre sostenuto, che ci aveva fatto proseguire nella
lotta con
sempre maggior energia, perché sì, i rischi erano tanti, ma quella era la sola ragione, il solo
modo di poter
sopportare la misera vita di allora
Maria, e adesso?
Beh, il movimento anarchico è sempre il mio punto di riferimento, l'idea è sempre la stessa
e sono contenta
quando vedo compagni giovani lavorare con impegno. A modo mio sono con loro; se posso cerco ancora di
aiutarli.
Maria per "chiudere", diciamo così, il tuo racconto di compagna militante vorrei farti
una domanda che
è una mia curiosità personale. Anch'io sono una compagna e sto vivendo la mia militanza circa
40 anni
dopo la tua, sono tentata ai paragoni: che cosa ha significato per te essere "donna" nella lotta? Cosa pensi
di questo problema in generale?
Certamente non posso che essere d'accordo col desiderio di emancipazione della donna, con la
volontà di superare
questa discriminazione, anche se ormai per me non ha molta importanza. Devo dire però che io non ho
avuto
grosse difficoltà; innanzitutto ho vissuto e lavorato quasi sempre con compagni, donne ce n'erano poche
e quando
c'erano non eravamo molto affini. Poi nel lavoro politico ed anche nella vita, dal mio compagno e da tutti i
compagni con cui ho lavorato non sono mai stata discriminata e non mi sono mai comportata come tale.
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Così ricordo Maria: una figura
limpida
Mercoledi 5 gennaio, nell'ospedale bolognese in cui era da tempo ricoverata, è morta Maria Zazzi.
Era nata nel
1904 a Perino (Piacenza). Con lei scompare una limpida figura di militante anarchica, una donna semplice e
buona, per oltre un sessantennio sulla breccia dell'impegno sociale. La conobbi all'inizio degli anni '70, nella
casa bolognese al Roncrio in cui viveva con Libero Fantazzini, il
compagno anarchico con cui - dopo la morte di Armando - ha condiviso l'ultima parte della propria vita. La loro
casa è stata sempre un punto di riferimento e di ospitalità per gli anarchici bolognesi, per i tanti
compagni
immigrati a Bologna dal Sud per ragioni di studio o di lavoro, per chiunque bussasse alla loro
porta. Presenti, finché hanno potuto, a tutte le iniziative di propaganda e di lotta in giro per l'Italia,
Maria e Libero hanno
rappresentato davvero un felice tramite tra la loro generazione temprata dalla lotta antifascista e noi avvicinatici
alle idee anarchiche a cavallo tra gli anni '60 e '70. Con loro queste idee comuni trovavano il confortante
riscontro
di due vite vissute e, ancor più, di due mentalità aperte. Maria era ricca di umanità
e buonsenso, infondeva serenità. Lei che non aveva avuto figli, è stata anche un po'
"mamma" per tanti giovani: pronta a cogliere gli aspetti positivi della ribellione giovanile contro le ingiustizie
sociali, ad indirizzarli verso un impegno militante, ma anche a temperarne gli eccessi, a ricondurre il tutto in
un
quadro di profonda umanità e di equilibrio. Dietro quel suo aspetto minuto e dimesso, batteva un
gran cuore e si celava una volontà di lotta e di
trasformazione sociale che né l'età né le avversità della vita hanno mai potuto
scalfire. Dispiace che all'obitorio dell'ospedale, presso cui ci siamo ritrovati per darle l'estremo saluto, non
le sia stato
risparmiato l'insulto di una cerimonia religiosa che Maria mai avrebbe voluto e che offende sia noi atei e liberi
pensatori sia chi ha una fede religiosa ma non per questo pretende di imporla agli altri.
Paolo Finzi
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