Rivista Anarchica Online
Oltre l'individualismo
di Filippo Trasatti
Bencivenga è un filosofo che attualmente lavora negli Usa e che
inizialmente si è occupato di filosofia del
linguaggio. Ha scritto recentemente due libri introduttivi alla filosofia, Giochiamo con la
filosofia (Mondadori,
1990) e La filosofia in trentadue favole (Mondadori, 1991) in cui presenta le
tematiche filosofiche in modo
insolito, piano, antiaccademico. Il suo libro più recente, Oltre la tolleranza
(Feltrinelli, 1992) è un libro
ambizioso, come il sottotitolo tende a sottolineare: per una proposta politica esigente. Un libro
per alcuni versi
in sintonia con un altro uscito recentemente di Claudio Pozzoli, L'utopia possibile
(Rusconi, 1992), per la critica
della politica attuale, entrambi segnali forse che qualcosa nel mondo degli intellettuali si sta muovendo per
riconsiderare la politica, al di là degli scandali quotidiani, delle parrocchie politiche, delle ridicole
quanto
inconsistenti proposte di cambiamento dei partiti. Un modo di considerare la politica impietoso che mette
in luce in primo luogo come oggi la politica sia il luogo
non del progetto ma della sua assenza; una follia politica che si ammanta degli abiti della Realpolitik, che
vorrebbe gestire la complessità, quella degli intrighi partitici più che la complessità del
reale. Il cosiddetto realismo politico proclamato dai nostri governanti, in coro con gli intellettuali della
morte dell'utopia,
consiste nello spostare i problemi, nell'affrontarli con miopia, relativamente al proprio campo visivo limitato
e
particolare, senza minimamente considerare le conseguenze globali delle proprie azioni. Di questa arte il
capitalismo mondiale pienamente sviluppato è maestro: la questione ambientale e i devastanti problemi
del Terzo
Mondo, ponendo con radicalità la questione dei limiti e delle conseguenze dello sviluppo, ne hanno
rivelato in
modo abbacinante il risvolto irrazionale. Il capitalismo ha saputo sfruttare il mito popolare e rivoluzionario del
paese di Cuccagna, e non può arrendersi all'evidenza che la festa è finita. Eppure tutto continua
quasi come se
niente al mondo succedesse davvero, forse in ossequio a quegli intellettuali che, come Baudrillard, hanno
teorizzato la vittoria mondiale della logica della simulazione. Si dice, e forse a ragione, che il catastrofismo non
conduce a nulla di buono e anzi serve a giustificare indirettamente un certo immobilismo. Ma questo
è vero quando si tratta di un catastrofismo semplicistico, che non indaga le ragioni e le
responsabilità,
gli errori e le strade possibili, i desideri e le possibilità. Si dimenticano rapidamente gli orrori che questo
secolo
ormai al tramonto ha portato con sé e non sono certo graditi coloro che continuamente puntano il dito
e volgono
lo sguardo verso un passato di macerie e sangue, stilando un memorandum all'incontrario, buono per la
meditazione e indispensabile nel momento delle decisioni importanti. Bencivenga ha l'indubbio merito di
schierarsi apertamente per gli oppressi, "quelli sottoterra" come li chiama lui,
i dannati della terra. "Io sto dalla parte di quelli sottoterra. Che cosa vuol dire? Che considero le
comodità e gli
agi di cui è piena la mia vita privilegi ingiustificati, non il meritato frutto del mio duro lavoro (...) Che,
il giorno
in cui quelli sottoterra verranno a reclamare la loro parte e a togliermi di mezzo insieme a tutti i miei complici,
avranno ragione. (...) Che la più dolorosa e ingiusta violenza fatta a quelli sottoterra consiste nel farli
passare dalla
parte del torto: dettare le regole di un gioco in cui non possono che risultare perdenti e poi accusarli di non stare
alle regole" (pp.14-15). Parole dure: che ci sentiamo o no direttamente responsabili dello stato del mondo,
sicuramente siamo colpevoli di omissione di soccorso quotidianamente. E la risposta non sta evidentemente
nella
carità (più o meno pelosa) che è un atto individuale che ognuno giudica secondo i
propri valori, ma in un
cambiamento radicale della politica, del modo di vivere, del modo di pensare, in una proposta
alternativa. Ma prima di arrivare alla proposta politica, che costituisce l'ultimo capitolo del libro,
Bencivenga da filosofo si
addentra su un problema importante che sta alla base di un certo modo di concepire la politica: la dottrina
dell'individualismo, che ha implicazioni economiche, politiche e psicologiche di notevole portata. La tesi
è
interessante: la politica miope di cui si parlava all'inizio sarebbe il frutto maturo di una concezione
dell'individuo
che risale all'illuminismo, in cui l'individuo cioè è al centro dell'universo come soggetto pieno,
dotato di diritti
inalienabili e naturali, onnipotente all'interno quanto pretenzioso all'esterno, unità in contrapposizione
ad altre
unità che per lui sono l'altro. Il percorso di Bencivenga qui si fa arduo e tenterò di
semplificarlo. La questione cruciale è quella dell'identità: se ne parla in ambito politico,
nazionale, psicologico. Sembra scontato
che l'identità sia un valore irrinunciabile e forte: per essa lotta una persona per tutta la vita e interi
popoli e gruppi
etnici. Ma se affrontata da un diverso punto di vista la questione si fa più complessa: innanzitutto non
c'è mai una
sola identità, ma più identità tra loro interconnesse, parzialmente contraddittorie,
stratificate, a diversi livelli di
sviluppo storico e personale. Melucci, definendo l'identità, chiarisce in questo modo il problema: "Di
identità
possiamo parlare a proposito di un individuo o di un gruppo, ma nei due casi ci riferiamo a queste tre
caratteristiche: continuità di un soggetto al di là delle variazioni nel tempo e degli adattamenti
all'ambiente;
delimitazione di questo soggetto rispetto agli altri; capacità di riconoscersi e di essere riconosciuto".
(Il gioco
dell'io, Feltrinelli, Milano, 1991 , p. 35-36). Queste tre caratteristiche potrebbero essere
così tradotte: unità,
differenza, appartenenza. L'individuo, o il gruppo, per costituire la propria identità in
contrapposizione ad altri, chiede di essere
riconosciuto, attraverso caratteri distintivi, differenze rispetto agli altri, appartenenze rispetto a gruppi a cui si
sente di appartenere. L'identità pero non è qualcosa di definitivo, chiuso, indipendente:
è un processo continuo
che dalla nostra nascita fino alla morte rimodella continuamente il confine tra io e altri, in un gioco di molteplici
appartenenze dovuto ai complessi meccanismi di differenziazione sociale. Viviamo e non possiamo fare a meno
di vivere in un sistema dalle molteplici appartenenze. Questo significa che appellarsi alla propria
identità è
scegliere una tra le proprie identità e farne una bandiera, mettendo in secondo piano le altre
identità che ci
compongono. Ma se l'identità è differenza e libertà rispetto ad altro, essa rischia
altresì di diventare prigione per se stessi; ecco
il doppio versante anche politicamente rilevante del problema dell'identità: identità è
al tempo stesso libertà in
quanto si sottrae alla determinatezza del dato, ed è prigione in quanto produce per sé un reticolo
che si protegge
ma anche rinchiude ed esclude dall'altro, dal mutamento e quindi nega la propria libertà. Questa
tematica acquista
concretezza nel campo della rivendicazione dei diritti di una minoranza, poniamo quella omosessuale.
Proclamare
un'identità, e quindi una differenza rispetto agli altri, e richiedere in base a questa identità dei
diritti speciali può
certamente servire a proteggere dalle vessazioni e dalle discriminazioni cui la minoranza omosessuale è
continuamente sottoposta, ma significa nel contempo irrigidirsi entro un campo di identificazione troppo rigido,
entro un insieme di categorie che, per essere riconosciute dagli altri, richiedono una certa stabilità e
riconoscibilità
sociale. L'alternativa non è rinunciare all'identità, ma proporre una concezione costruttiva
e aperta dell'identità alla cui
base sta una versione radicalmente diversa dell'individualismo. E qui torniamo al percorso filosofico proposto
da Bencivenga. Dopo aver criticato la concezione tradizionale dell'individuo come atomo sociale, naturalmente
dotato di ragione e di diritti, fornito di identità sostanziale e riconoscibile, l'autore propone di
considerare
l'individuo essenzialmente come pluralità, come luogo della differenza, come dialogo: "un'isola di
diversità in
un mondo identico, ma un'isola la cui identità è precisamente il suo essere diverso" (p.87); "il
soggetto non è un
individuo ma piuttosto una comunità(...); è dalla comunità, da quella che fisicamente
circonda il soggetto, che
quest'ultimo raccoglie tutto il materiale della sua diversità" (93-94). Tutto ciò che consideriamo
più proprio, il
minimo gesto, la frase, le abitudini, l'articolazione della nostra visione del mondo ci viene dall'esterno, ma in
noi,
e questo è il proprio dell'individuo, avviene quel bricolage di differenze senza le quali non saremmo
vivi e non
saremmo noi. Ecco perché la diversità è ricchezza, e ogni arroccamento sulla
proprietà privata dell'individuo è
allo stesso tempo furto e impoverimento. Perché allora, al contrario, avviene che la
diversità fa paura? Perché la diversità sembra una continua minaccia
alla nostra identità? A questa questione assai complessa sono state date tante risposte a livelli diversi:
psicologico,
sociologico, etnologico, antropologico. A livello filosofico si può dire che il diverso ci fa paura
perché lo
pensiamo come totalmente altro, e il totalmente altro è l'inconoscibile il cui modello fondamentale
è per noi la
morte. Questo totalmente altro ha nell'economia psichica una traduzione fortemente emotiva che nasce lontano
alle origini della nostra storia, laddove in uno stato di dipendenza quasi assoluta abbiamo succhiato insieme al
latte la paura che l'altro tanto più potente di noi, mamma-ambiente-tutto ci abbandonasse privi di amore.
Gli studi
psicologici sul conformismo e la devianza, che vanno considerati con molta cautela, mostrano che la
riprovazione
e il rifiuto del deviante variano considerevolmente a seconda dello status che egli ha nel gruppo; è
inoltre piuttosto
facile constatare come in certi ambienti, quello artistico per esempio, la devianza venga assunta come valore
positivo. Una certa etologia, insistendo sul concetto di territorialità, mutuato dal comportamento
animale, ha
preteso di affermare la naturalità di un comportamento predatorio umano per la difesa del proprio
territorio,
dall'altro, il nemico, l'intruso. L'individuo inserito in un sistema sociale stratificato e gerarchico, dominato dalla
razionalità strumentale e scientifica, dal potere delle merci e dalla cultura di massa, si svuota
progressivamente
e accede a quella che Christopher Lasch chiama "cultura della sopravvivenza" in cui è necessario
difendersi dallo
strapotere dell'ambiente esterno, sottratto ad ogni controllo, e rifugiarsi in un'intimità mimetica che
assume i colori
dominanti per poter meglio proteggersi. Queste e molte altre più complesse ragioni possono spiegare
la nostra
abitudine a concepire l'altro come estraneo da evitare, sopraffare, omologare. Ma in questo non c'è nulla
di
naturale, se per naturale intendiamo qualcosa di dato e immodificabile. "La Terza via cercata, in aggiunta e in
alternativa al distruggere l'altro e al renderlo identico a noi, consiste nell'imparare l'altro (senza
dimenticare quello
che siamo già)" (p. 118). Ed eccoci finalmente arrivati, dopo questo lungo percorso, alla proposta
politica esigente (come la chiama
l'autore): dare assoluta centralità in politica al valore educazione, educazione alla complessità
in cui per le ragioni
che si sono sopra delineate, obiettivo primario diventi allargare le frontiere della propria individualità,
imparare
comportamenti articolati e molteplici. Questa proposta "richiede uno stato che non si limiti a stare a guardare,
ma
fornisca invece direttive precise e le sostenga con una politica adeguata. Uno stato che, per esempio, tassi
all'inverosimile ogni prodotto di lusso, consideri seriamente l'eliminazione dell'ereditarietà dei beni e
incentivi
con vigore attività di scambio e promozione culturale" (p. 122). Proposte che mi trovano assolutamente
consenziente, salvo per un particolare non trascurabile: una concezione profondamente diversa dello stato.
Bencivenga si illude che attraverso una discussione, un movimento di opinione, uno scontro politico, si possa
arrivare a convincere gli avversari dell'utilità e della razionalità di queste scelte politiche. Pensa
addirittura a come
convincere eventuali elettori della bontà di questo programma. Dimentica o trascura che una struttura
di potere
si fonda su interessi che di razionale hanno poco, oltre il dominio. Ammettiamo, per amor di discussione,
che un tal ministro delle finanze proponga (perché per imporlo dovrebbe
fare un colpo di stato) di eliminare l'ereditarietà dei beni: che cosa c'è di più facile che
trasferirli all'estero, a pochi
passi dal confine in una banca svizzera? E certamente sarebbe difficile convincere il padrone della fabbrichetta
brianzola, magari di fucili, a lasciare pacificamente allo stato tutto ciò per cui ha lavorato. Voglio
dire che forse il nostro non si rende conto che sta proponendo qualcosa che porta molto vicini alla
rivoluzione, che intacca profondamente il concetto di proprietà privata dei beni, di cui liberamente il
soggetto
giuridico può disporre, su cui il nostro ordinamento è fondato. Questa proposta politica
è dunque assolutamente
incredibile per le gravi carenze di analisi socio-politica che essa porta con sé. Ciò non toglie
che questa critica della concezione tradizionale dell'individuo ci interessa per diversi motivi.
Tramontata l'idea di un soggetto collettivo portatore della rivoluzione sociale, gli operai, il popolo, la classe
borghese, o almeno tramontata l'idea che sia possibile individuare un unico motore storico produttore di
cambiamento, vanno profondamente riconsiderate le forme del mutamento. Vanno ridisegnate le mappe del
conflitto analizzando le forme complesse che oggi il dominio ha assunto. In un contesto di integrazione globale
militar-economica, la dimensione del mutamento non può che essere su scala planetaria. Quali sono
oggi i soggetti
portatori del mutamento che hanno conservato la speranza, la tensione e il conflitto? Quali progetti possono
aggregare individui che esprimono interessi e bisogni diversi? È sufficiente oggi riproporre una carta
dei diritti
che riaffermi, senza articolarli in tempi, luoghi e contesti, i valori fondamentali della libertà,
eguaglianza e
solidarietà? Oggi, mentre sembra trionfare senza avversari il liberalismo classico, con la sua teoria
del soggetto che è razionale
nella misura in cui si adegua alla razionalità economica, con la sua separazione astratta tra sfera
pubblica dei
doveri e sfera privata dei bisogni e dei desideri, sembra più che mai necessaria la critica
dell'individualismo verso
una concezione dell'individuo che riconosce in sé il dialogo, la pluralità, la presenza del diverso
e della comunità
e che si realizza a partire dalla vita quotidiana partecipando a differenti forme di comunità.
|