Rivista Anarchica Online
Teatro di disturbo e teatro di liturgia: lo spettro della guerra
nell'altro teatro
di Fabrizio Cruciani
Ricordando
Fabrizio Cruciani / un debito di riconoscenza Fabrizio Cruciani, storico ed intellettuale
militante del teatro, è morto il 31 agosto scorso in un ospedale romano
dove dodici giorni prima era stato operato per un tumore ai polmoni. Non aveva ancora 51
anni. La pubblicazione dello scritto che segue ha per me
in primo luogo il significato di un gesto di affetto, che mi piace
rivolgere proprio alle pagine di "A", in ricordo di un maestro e di un compagno di strada al quale mi lega un
debito di riconoscenza difficilmente descrivibile. Fabrizio leggeva con la stessa attenzione i miei articoli su
questa
rivista e riteneva essenziale che io frequentassi entrambi i versanti. Da parte sua amava dire che lo studio
militante
del teatro di gruppo dell'ultimo ventennio lo aveva aiutato a comprendere il teatro del Rinascimento e quello
del
primo Novecento: i territori teatrali ai quali ha dedicato la maggior parte della sua produzione editoriale, e che
ha esplorato con la stessa attitudine a rivelare come i fenomeni di maggior peso nella cultura teatrale non siano
quelli più diffusamente evocati e come gli eventi di effettiva rilevanza storica siano quelli che la cronaca
tende
a marginalizzare o ad obliterare. Fra i suoi libri voglio
ricordare Jacques Copeau (Roma 1971), Teatro nel Rinascimento (Roma
1983), Teatro nel
Novecento (Firenze 1985), Promemoria del teatro di strada (con Clelia Falletti, Bergamo
1992). Era membro del
comitato direttivo dell'International School of Theatre Anthropology diretta da Eugenio Barba e co-fondatore
della
rivista "Teatro e Storia". E' stato animatore di importanti
manifestazioni teatrali, come il Festival di Sant'Arcangelo. La sua specialissima
vocazione di studioso-pedagogo ne ha fatto uno dei docenti più amati e prestigiosi del DAMS di
Bologna. Ma nel teatro Fabrizio ha espresso anche il suo
impegno civile - prima - e più politico in senso stretto. Di questo impegno trasparivano sempre, nei suoi scritti e nelle sue parole, la severità e
l'intransigenza:
un'indisponibilità a piegare il proprio pensiero allo spirito dei tempi che lo faceva in qualche modo
somigliare
a un viaggiatore o a uno straniero: indagatore spesso attonito, mai accondiscendente, di paesaggi umani e sociali
di cui sapeva riconoscere, attraverso i secoli, l'assurda, tante volte irragionevole "normalità". Oppure
il suo scabro
"candore" lo rendeva simile all'attore o al poeta (per usare l'immagine che lui stesso riferisce a Erwin Piscator
nello scritto che segue): figure "ridicole e asociali" quando la "realtà" impone le sue ragioni, magari
ricorrendo
agli eserciti e alla guerra. Il teatro - ha scritto in un passo che cito a memoria - non nasce dal teatro ma dalla
cultura: dagli uomini e dalle loro relazioni, visioni, utopie. Questa prospettiva sta alla base dello scritto che segue, e che propongo perciò, oltre che come
omaggio a Cruciani,
anche come momento di riflessione e di stimolo per quanti siano interessati alle questioni fondamentali del
teatro
politico. La fonte è "Quaderni di teatro", V, 19
(Febbraio 1983). L'articolo è stato poi ripreso ed ampliato in Teatro del
Novecento. Registi pedagoghi e comunità teatrali del XX secolo. Date le connotazioni di questa
rivista, i tagli
apportati riguardano digressioni e riferimenti di carattere più propriamente storico e documentario,
mentre si è
cercato di mantenere l'approccio politico e problematico della materia trattata. I titolini dei paragrafi sono
nostri.
Cristina Valenti
Più volte Erwin Piscator ha raccontato le sue esperienze della prima guerra mondiale, di quando,
nel 1915, si
trovò in mezzo all'orrore delle trincee, tra morti e granate. All'ordine di trincerarsi tenta di scavare come
gli altri,
ma non riesce a far penetrare la vanga nel terreno, e all'ufficiale che lo investe e gli chiede che mestiere faceva
da borghese risponde: l'attore. L'intera compagnia scoppiò a ridere - non sembra una professione reale,
era
farsesca, ridicola, vergognosa; non rispondeva al mondo presente. Dopo riuscì ad "imboscarsi" e fece
parte del
"Teatro del Fronte"; era normale, spiega, il teatro dei soldati per i soldati, ma indica la pazzia di un'epoca che
usa
il teatro come la grappa. La guerra del 1915, la prima guerra della mobilitazione totale, non finì
con la pace. Il grande dramma degli
"Ultimi giorni dell'umanità" si è svolto nella vita stessa e quei giorni sono i primi del mondo
abituato alla guerra
senza fine, che comincia con la pace, lo scrive Karl Kraus nella sua epopea in forma di dramma, un grande
quadro
della guerra che è il quadro del '900. La storia, e la storia del teatro, parla degli eventi al presente o al
passato; il
teatro nella storia, come la finzione, il gioco e la narrazione, conosce solo l'imperfetto, l'azione che si svolge
e
continua. La prima guerra mondiale è il nodo centrale e nascosto del secolo appena trascorso, il
Novecento: un
periodo di guerre, rivoluzioni, controrivoluzioni; di violenze, disagio, contraddizioni incalzanti e veloci.
Anche per parlare dei teatri nella morte del Teatro, occorre rendersi ben conto delle mutazioni
antropologiche che
questa guerra mise allo scoperto e aggravò senza pietà e senza pudori: gli amici "dichiarati"
nemici, le impotenze
del singolo nella macchina sociale, l'ipostatizzazione non solo dei valori ma perfino della loro formazione,
l'espropriazione del mondo, la precarietà e la separazione fisica e morale, psicologica e ideologica. E'
il secolo
in cui "tradizionale" diventa aggettivo negativo e "conservatore" significa reazionario e nemico del nuovo e del
moderno; in cui il tendere all'estremo, nel vissuto e nell'arte, è utopia e immanenza del presente. In cui
fare teatro
è agire una comunicazione, giustificarla e finalizzarla in un contesto di cui il teatro non dà il
senso; in cui parlare
di teatro è usare le parole del cambiare l'uomo e/o la società (...). Lo spettro della guerra, che
si aggira nei teatri
e nelle culture teatrali del '900, è anche l'estremizzazione che nasce dalla necessità di significare
e fondare valori.
Ma le ragioni del sociale e della cultura non sono immediatamente la ragione del teatro. Quando la guerra e la
lotta sono vere, il mestiere e l'arte della finzione vengono usati come retorica o propaganda o evasione; ma, nella
nudità e crudezza del quotidiano, dire "faccio l'attore" diventa ridicolo e asociale - come e più
che fare il poeta.
(...)
Il teatro per cambiare e il teatro per persuadere Il teatro per
cambiare l'uomo e il teatro per costruire una società diversa sono le ragioni che la cultura del teatro
ha elaborato per giustificare il fare teatro nel '900: il teatro è strumento, mezzo esaltante per vedere il
mutamento
e orientarlo, tra sublimazioni ed entusiasmi; il teatro è manipolazione degli spettatori, dalla propaganda
alla
celebrazione o anche alla messa in scena dell'attenzione del pubblico. (...) Il teatro ridotto alla sua funzione
o giustificazione sociale, come richiede il lungo sconvolgimento sociale
dell'Europa tra fine '800 e seconda guerra mondiale, è il teatro delle avanguardie e di ricerca, è
soprattutto il teatro
che si realizza fuori del teatro, che sostiene i teatri di disturbo, che giustifica i teatri del futuro e il rifiuto del
teatro; è lo spettacolo nello spazio e nel tempo del sociale. La storia più evidente di ciò,
più incisiva e decisiva,
è quella perversa della "socializzazione" dell'azione, della rappresentazione di una liturgia capace di
creare
emotività e persuasione, della ricerca di una comunità: il fingere del teatro viene riportato alla
metafora e al
simbolo, alla cerimonia e alla liturgia, allo svelare verità essenziali e assolute. Il rituale si fa spettacolo
(o si cerca
come tale) nelle finzioni simbologiche e nelle verità delle azioni, nel concretizzare quel sogno di
recupero delle
origini sacre e quel bisogno di comunità che è alla base delle più alte esperienze di
rifondazione del teatro del
'900, da Craig ad Appia, da Fuchs a Reinhardt, da Stanislavskij a Copeau. Ma si fa spettacolo nelle azioni e
riunioni sociali, con esiti perversi il cui orrore ne ha fatto troppo facilmente dimenticare le ragioni e il
fascino. Già Copeau, nel Théatre populaire, indicava Hitler e le messe in
scena naziste; e Goebbels elevava a spettacolo
le forme della propaganda: nel suo ministero Rainer Schlosser fu per qualche tempo responsabile del settore
teatrale, e orientò la politica teatrale decisamente verso forme culturali. Il 10 maggio 1933, sulla piazza
del Teatro
dell'opera a Berlino, si svolse una esaltante e esaltata rappresentazione, che non si può ricordare senza
essere
raggelati d'orrore per il fascino e la potenza spettacolare che rivela. Ebbe grande eco nella stampa e fu ripetuta
in altre città. Scesa la notte, alle 10 di sera, sfilò nella piazza un corteo di studenti con una
banda musicale delle sezioni
d'assalto; poi, portando torce in una suggestiva fiaccolata, arrivò un altro grande corteo di studenti nel
costume
di gala della loro corporazione. La folla nella piazza era enorme. Al centro era preparato un grande rogo e i
pompieri vi appiccarono il fuoco. Arrivarono i camion e nove araldi ricevettero a turno pacchi di libri, cosparsi
di benzina, che gettarono sul rogo gridando la sentenza. Primo araldo: "Contro la lotta delle classi e il
materialismo! Per l'unità del popolo e per una concezione idealista
della vita!... Getto alle fiamme gli scritti di Marx e di Kautsky". Secondo araldo: "Contro la degenerazione
dei costumi! per una buona moralità! per uno spirito della famiglia e
uno spirito dello stato!... Getto alle fiamme gli scritti di Heinrich Mann, Ernst Glaser e Erich Kastner"; e il terzo
e il quarto ("contro la sopravvalutazione della vita sessuale, corruttrice degli spiriti! Per una nobilitazione
dell'animo umano!... Getto alle fiamme gli scritti di Freud"); e il quinto e il sesto, e il settimo ("contro il
tradimento letterario nei confronti dei soldati della grande guerra! Per l'educazione di uno spirito sano!... Getto
alle fiamme gli scritti di Erich Maria Remarque"); e l'ottavo e il nono (gli scritti di Alfred Kerr e di Tucholsky
e di Ossietzky). Ad ogni lancio rispondevano le grida della folla. A mezzanotte, nell'atmosfera esaltata,
nella piazza che era lo
spazio del rito, tra i fumi del rogo e alla luce delle torce, Goebbels tenne un discorso. Nella sua forma
più cruda,
la rappresentazione della cerimonia purificatrice di massa era compiuta. Il teatro di massa e il teatro politico non
raggiungono la suggestione di questo spettacolo - ma ne hanno le motivazioni. (...) La teatralizzazione (di
eventi, liturgie, spazi, modi e motivi diversi di aggregazione) diventa non solo un uso del
teatro; né è riconosciuto come il valore profondo che, se mai, è il teatro ad avere perso
o a tradire. Ed è così anche
una componente del teatro, di un teatro che in tutte le sue forme (fino a quelle istituzionali) conosce nel '900
un
massimo di poetica e definizione ideologica e intellettuale e, in certo senso, un minimo di teatro. (...) Il
"teatro che voleva cambiare il mondo" (Bela Balazs parla dell'"agitprop") conosce l'ansia della festa e della
liturgia - e ne conosce la relativa vanità e i pericoli; socialisti e comunisti erano restii all'irrazionalismo,
ma il
teatro (e la teatralizzazione) non poteva fare a meno dell'emotività e della persuasione. (...) La
tensione alla "festa" come rinnovamento del teatro è comune nella cultura europea del '900 e assume
forme
e gradi di eversione diversi: contro l'istituzione teatrale, ma non sempre contro l'istituzione culturale e sociale;
contro le forme del potere nella società, ma non contro gli statuti del teatro. (...) Il tempo del teatro,
nella festa, si vuole etimologicamente assoluto, sciolto dai vincoli del quotidiano (banalità
e compromessi: tempo vuoto) e dalle inadeguatezze della società presente (uniformità e
alienazione: tempo
inutile). La festa invece del teatro (la celebrazione,lo spettacolo di e per le masse, che è
consenso e organizzazione
ed esibizione produttiva del consenso) è il rifiuto del presente, il tempo "diverso" dei "diversi", dei non
integrati
o non soddisfatti: ed è tempo ambiguo perché negazione, perché propone modi e valori
inattuali, facilmente
strumentalizzabili, festivi appunto e non feriali, di eccezione. Ma, nel '900, non esiste la festa invece
del teatro,
è la parola-categoria festa che è storiograficamente mistificante; laddove sono invece il senso
e i modi
dell'opposizione festa/teatro che vanno frequentati negli eventi coevi e nelle poetiche per conoscere il teatro del
'900.
Festa e teatro Alcune suggestioni, ancora, dal periodo sovietico:
"Nella nostra epoca di rivoluzione socialista le feste del popolo
sono più che un mezzo di educazione politica delle masse; per loro mezzo le masse si avvicinano all'arte
in tutte
le sue forme: poesia, pittura, musica, teatro. Le feste del popolo debbono basarsi sull'attività creatrice
delle masse.
I lavoratori non debbono limitarsi a prender parte alle processioni e ai raduni, ma anche prodursi come cantanti
e oratori, decoratori e artisti, improvvisatori e registi (...)". A quanto dichiara Kerencev in un rapporto sulle
feste del popolo al primo congresso del teatro operaio e
contadino, nel 1919, risponde Sklovskij dichiarando che il teatro delle feste c'è sempre stato ma con altri
nomi,
che il teatro è altra cosa ed ha una sua specificità. Si contrappongono ancora due discorsi che
non dicono cose
diverse ma parlano con linguaggi lontani di oggetti non omogenei. Nel 1923 Eisenstein scrive: "il programma
teatrale del Proletkul't non consiste nell'utilizzare i valori del passato e nemmeno nell'inventare nuove forme
di
teatro, ma nell'abolizione dell'istituto del teatro in quanto tale, sostituendovi una fase dimostrativa dei
conseguimenti, sul piano dell'elevazione, della qualifica, dell'attrezzatura esistenziale delle masse". E
c'è un'altra storia dell'opposizione festa e teatro, quella che usa la festa per affermare la comunione o
la
comunicazione interpersonale. In sostanza, diremmo oggi, il luogo del vissuto e della creatività.
Così Proudhon
non credeva alle grandi assemblee e riunioni, ma pensava che il tempo libero dell'operaio poteva essere
all'origine
di un risveglio culturale basato sulla vita dei gruppi (La célébration du dimanche,
1840 ). Teatro politico non
è stato solo il rituale festivo delle celebrazioni politiche di massa, ma anche le realtà più
informali e dirette di certe
esperienze di "agitprop". E anche le esperienze di attività espressive (teatrali) coi bambini che Asja
Lacis fece nel
1918, e che sono alla base del Programma di Benjamin, confluiscono nelle difformi tematiche
della festa:
"Improvvisare lo spettacolo significò per i bambini felicità e avventura (...). La rappresentazione
pubblica si
trasformò in una festa. I bambini del nostro studio si avviarono in una specie di corteo carnevalesco al
teatro
all'aperto della città, portavano con sé, cantando per le strade, gli animali, le maschere, gli
accessori e le scene.
A loro si unirono spettatori piccoli e grandi" (...) Due problemi di base nel teatro vengono radicalizzati
nella problematica della festa, quelli del pubblico e
dell'attore. Il pubblico assiste o subisce la festa, e allora è il pubblico-massa delle celebrazioni; o vi
è strettamente
implicato, è la stessa festa o per lo meno ne è la cultura, e allora è omogeneo. La
problematica del rapporto
creazione-fruizione è portato all'estremo e, come voleva Benjamin, espone il suo posto all'interno dei
mezzi di
produzione; sembra opporre al pubblico non indifferenziato la fruizione "borghese" dell'arte. L'attore si dissolve,
si annulla nel rifiuto della delega, si nega come specialista e si propone come stimolo al massimo; oppure
è lo
straniero, il diverso, che esibisce abilità, ma il cui tempo e il cui spazio sono lontani, non conosciuti.
Dall'opposizione festa/teatro viene una visione dinamica e dialettica: un percorso non una realtà, un
contrasto non
un fluire, in sostanza dietro le parole e le grandi ombre che nascondono ci sono problemi specifici da indagare
e da usare.
Le esperienze "separate" del teatro politico e "agitprop" A
quella delle feste, del teatro all'aperto e del teatro popolare, dello spettacolo e delle liturgie civili, dei Festpiele
e delle Esposizioni Universali, si intreccia la storia delle esperienze "separate" di teatro nelle diverse forme e
di
quelle in qualche modo attinenti al teatro; ma anche quella del teatro politico del teatro operaio, del teatro
"agitprop", nelle diverse forme e generi che assume lungo anni differenti e in situazioni geografiche storiche
non
uguali, ma anche nell'internazionalismo che li sostanzia e, in parte, li organizza. E in definitiva nella stessa
tensione: usare il teatro (anche come auto-pedagogia di chi lo fa). Oggi si conosce meglio la storia del teatro
politico e "agitprop" della rivoluzione sovietica; e numerosi contributi hanno chiarito e colorito quella tedesca
e anche quella francese e americana e inglese. Il teatro del proletariato, di "agitprop", le feste celebrative di
Evreinov, l'Ottobre teatrale di Mejerchol'd, le Bluse Blu; il teatro "agitprop" di Weimar con Piscator, Karl Heinz
Martin, Balazs, Wangheim, e Berta Lask, e Friedrich Wolf, e le organizzazioni di teatro socialiste e quelle
comuniste, e i gruppi di teatro e i loro intellettuali; la Federation du Théatre Ouvrier Francais, il gruppo
Ottobre
di Prevert, l'azione pratica e teorica di Jean-Richard Bloch: il Workers' Laboratory Theatre e il federal Project,
e John Dos Passos e Hallie Flanagan; il Workers Theatre Movement, i Rebel Players e lo Unity Theatre e i
Living
Newspapers col contributo di Joan Littlewood. Si può conoscere il movimento in Spagna, nella guerra
civile, con
le "Misiones pedagógicas" e il lavoro di Garcia Lorca e quello di Alejandro Casona e ancora di Maria
Teresa León
e il teatro definito pregnantemente "de urgéncia"; e ancora quello cecoslovacco con le "spartachidi",
le Bluse Blu,
e Jindrick Honzl; in Polonia, a Lodz e a Varsavia, fino al teatro partigiano della seconda guerra mondiale che,
con
il "Teatro Rapsodico", si faceva in case private; e in Romania, e in Jugoslavia, e in Belgio. Si può
ricordare
l'"Unione internazionale del teatro operaio", del 1930, a Mosca, per iniziativa dei sovietici e dei tedeschi,
francesi,
cecoslovacchi, belgi, con le sue conferenze e i suoi bollettini; e le olimpiadi del teatro per gruppi "agitprop",
come
si svolsero a Mosca nel 1933. E anche il teatro durante la lunga Marcia in Cina (...).
Il
sogno del teatro come comunità Il sogno e il bisogno del teatro come
comunità è anche negli scritti dei grandi maestri del teatro del '900, da
Stanislavskij a Copeau, da Mejerchol'd a Reinhardt; è anche nel loro lavoro pedagogico - nell'esperienza
di un
fare teatro che si misura sugli uomini che lo fanno, che ha diritto di esistere e senso prima dello spettacolo per
il pubblico. Lo spettatore non produce teatro bensì (nella cultura teatrale del '900) è prodotto
dal teatro. In questo
coincidono anche il teatro di liturgia e il teatro di disturbo, il cui valore non è nel teatro che si fa ma nel
fare
teatro. Il teatro sembra misurarsi nell'entusiasmo di chi lo fa e poi di chi lo fruisce; il fanatismo è
necessità per i teatri
di cui abbiamo parlato; ed è forza in Craig come in Copeau come in Stanislavskij. E' difficile per la
cultura
dialogare con il teatro nel '900, ed è difficile accettare questo teatro fuori dal Teatro e contro il Teatro
(anche per
chi pure sta al vertice dei cambiamenti sociali: per Lenin che osteggia il proletkul't; o per Hitler i cui molti
schizzi
di edifici teatrali nuovi sono ben tradizionali; o per Mussolini che scrive drammoni con Forzano). Harold
Clurman, che col Group Theatre aveva portato negli Stati Uniti il senso di un teatro non fatto come impresa
commerciale, sostanziato della comunità degli attori, scrive in un articolo del'29 un dialogo impudico:
"L'uomo
di legge: Se tralasciate il tono evangelico potete parlarmi di teatro. L'uomo di teatro: il
fanatismo non è solo
inevitabile con noi; è quasi indispensabile". La continuità vischiosa del teatro tradizionale,
le abitudini e i ritardi della cultura, della critica e della letteratura
drammatica...: la superficie del teatro del '900 ha una sua storia, che è importante e di largo rilievo. Ma
dietro ci
sono le urgenze della ricerca appassionata dei teatri di liturgia e di disturbo, del lavoro separato per il teatro,
dentro e fuori il teatro stesso. Con la storia di questo altro teatro dobbiamo fare i conti, poiché il teatro
del '900
è la nostra tradizione.
Fabrizio Cruciani
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