Rivista Anarchica Online
Gli anarchici contro il fascismo
di A.A.V.V.
Nelle pagine che seguono sono ricordati alcuni episodi della
resistenza opposta dagli anarchici al
fascismo, con particolare riguardo alla lotta contro lo squadrismo delle camicie nere all'inizio degli
anni '20 ed alla resistenza armata contro i nazifascisti (1943-45). Alcuni episodi, dicevamo: non
pretendiamo infatti in queste poche pagine di fare la storia della resistenza anarchica al fascismo
né
di segnalarne tutte le fasi salienti. Tanto più che noi stessi della redazione ci troviamo costretti,
per
ragioni di spazio o per eccessiva frammentarietà, a non pubblicare tutte le testimonianze e le
informazioni che ci sono giunte da compagni di molte regioni italiane. Vogliamo
sottolineare inoltre che è difficile inquadrare questi episodi in uno schema storico preciso,
per il semplice motivo che tale storia non è mai stata scritta. Siamo certi comunque che
scavando
accuratamente nel passato, ricercando documenti e pubblicazioni dell'epoca raccogliendo altre
preziose testimonianze di chi allora visse e combattè contro il fascismo, sarebbe possibile
riportare alla
luce altri episodi di lotta, altre figure di compagni. Il nostro scopo è semplicemente quello di
contribuire a rompere quel "muro del silenzio" che circonda la partecipazione degli anarchici a quella
lotta antifascista che la falsa retorica della Repubblica Conciliare vorrebbe attribuire solo alle forze
rappresentate in Parlamento.
Nel '20 gli anarchici in Italia erano una forza rivoluzionaria con cui si dovevano fare i conti, una
forza
con cui dovevano fare i conti padroni, governo e fascisti. Essi avevano un quotidiano,
Umanità Nova,
che tirava cinquantamila copie e numerosi periodici. L'U.S.I., il sindacato rivoluzionario influenzato
dagli
anarchici (segretario ne era l'anarchico Armando Borghi), contava centinaia di migliaia di
iscritti. Dopo il fallimento dell'occupazione delle fabbriche, gli anarchici riconoscendo nel fascismo
la "contro-rivoluzione preventiva" (come la definì bene Luigi Fabbri) con cui i padroni
avrebbero cercato di
impedire il ripetersi di una situazione pre-rivoluzionaria, gettarono tutte le loro energie nella mischia
contro il giovane ma già robusto figlio bastardo del capitalismo. La volontà ed il
coraggio degli anarchici
non potevano però bastare di fronte allo squadrismo, potentemente dotato di mezzi e di armi
e
spalleggiato dagli organi repressivi dello stato. Tanto più che anarchici ed anarcosindacalisti
erano
presenti in modo determinante solo in alcune località ed in alcuni settori produttivi. Soltanto una
analoga
scelta di scontro frontale da parte del Partito Socialista e della Confederazione Generale del Lavoro
avrebbe potuto fermare il fascismo.
il disfattismo riformista
Purtroppo la politica disfattista, capitolarda del Partito e del sindacato riformisti, che già
aveva
ostacolato lo sviluppo rivoluzionario e dunque contribuito al fallimento dell'occupazione delle fabbriche,
seminò confusione ed incertezza nel movimento operaio in un momento che già era per
molti aspetti di
riflusso delle lotte. E questo proprio di fronte al moltiplicarsi ed aggravarsi delle violenze fasciste,
soprattutto dopo il '21. Ovunque in Italia le squadracce di Mussolini assaltavano le sedi politiche,
le redazioni, i militanti più
attivi, tutto quanto "puzzasse" di "sovversivo". Lo stato liberale fu diretto complice sia delle
attività
criminali sia dell'intera strategia politica del fascismo nella comune lotta contro la combattività
dei
lavoratori. Pur essendo essi stessi vittime delle violenze squadriste, i socialisti si limitarono a
denunciare le
"illegalità" fasciste, senza dedicare tutte le loro energie alla lotta popolare rivoluzionaria contro
il
terrorismo padronale. Non solo, ma il PSI giunse al punto di stipulare con i fascisti un Patto di
Pacificazione (agosto 1921) che contribuì a disarmare il movimento operaio sia
psicologicamente sia
materialmente, nel momento stesso in cui si intensificavano le violenze squadriste (che continuarono a
crescere... in barba al patto!). Quello che ci interessa sottolineare è che, mentre i vertici
politici sindacali invitavano alla "calma" e alla
non violenza, furono gli stessi lavoratori, organizzatisi autonomamente, a dare alcune storiche lezioni
ai fascisti. Le insurrezioni di Sarzana (luglio '21) e di Parma (agosto '22) sono due esempi della
validità
della linea politica sostenuta dagli anarchici, allora, sulla stampa e nelle lotte: contro il disfattismo delle
burocrazie riformiste, gli anarchici sostenevano infatti l'urgente necessità di battere con la lotta
il
movimento fascista, stimolando la combattività dei lavoratori. Coerentemente con questo
programma
gli anarchici si batterono sino in fondo senza quei tentennamenti e quella ricerca di compromessi che
caratterizzarono l'attività dei socialisti. Significativa al riguardo la differente posizione assunta
da
socialisti e comunisti da una parte ed anarchici dall'altra, di fronte al movimento degli Arditi del
Popolo.
gli arditi del popolo
Questo movimento, sorto nel 1920 per iniziativa di elementi eterogenei, si sviluppò
rapidamente
assumendo caratteristiche marcatamente antifasciste ed antiborghesi, e fu caratterizzato da un marcato
decentramento autonomo delle organizzazioni locali. Gli Arditi del Popolo assunsero quindi colorazioni
politiche talvolta differenti da un posto all'altro, ma sempre li accomunò la coscienza della
necessità di
organizzare il popolo per resistere violentemente alla violenza delle camicie nere. Gli anarchici aderirono
entusiasticamente alle formazioni degli Arditi e spesso ne furono i promotori individualmente o
collettivamente; per restare ai due episodi già accennati basti pensare che in maggioranza
anarchici
furono i difensori di Sarzana e che a Parma, fra le famose barricate erette per resistere agli assalti delle
squadracce di Balbo e Farinacci, ve n'era una tenuta dagli anarchici. Completamente diverso fu
l'atteggiamento sia dei socialisti sia dei comunisti (questi ultimi costituitisi in
partito nel gennaio 1921). Nonostante la vasta e spontanea adesione di molti loro militanti agli Arditi
del Popolo, entrambe le burocrazie partitiche presero le distanze e cercarono di sabotare lo sviluppo di
quel movimento. Gli organi centrali del neonato P.C. d' I. giunsero al punto di imporre ai propri iscritti
di evitare qualsiasi contatto con gli Arditi, contro i quali fu imbastita anche una campagna di stampa a
base di falsità e di calunnie. Intervistato pochi mesi fa alla televisione il comunista Umberto
Teraccini
ha cercato ancora di giustificare quella scelta politica. E ancora oggi noi, come già cinquant'anni
fa i
nostri compagni, vediamo proprio in quella scelta un esempio tipico della volontà comunista
di
subordinare la lotta antifascista alla coincidenza con le proprie mire di egemonia sul movimento operaio.
È evidente che questa dura critica alla politica dei vertici dei partiti di sinistra di fronte alle
violenze
fasciste non coinvolge i militanti di base, che - anche se su posizioni da noi molto differenti - dettero il
loro contributo di lotta e di sangue alla lotta contro il fascismo. Il disfattismo social-riformista ed
il settarismo comunista resero impossibile una opposizione armata
generalizzata e perciò efficace al fascismo ed i singoli episodi di resistenza popolare non
poterono
unificarsi in una strategia vincente.
il confino e l'esilio
Gli anarchici che, in prima fila nella resistenza al fascismo, s'erano esposti generosamente senza
calcoli
personali o di partito, subirono più duramente degli altri antifascisti (in proporzione alle forze)
le
violenze squadriste prima e quelle legali poi. All'incendio delle sedi anarchiche e delle sezioni U.S.I., alle
devastazioni di tipografie e redazioni, agli ammazzamenti, seguirono i sequestri, gli arresti, il confino....
Ai superstiti, perseguitati, disoccupati, provocati, spiati, non restava che la via dell'esilio. Si può
dire che
nel ventennio fascista ben pochi militanti anarchici (esclusi gli incarcerati ed i confinati) rimasero in Italia
e quei pochi guardati a vista ed impossibilitati per lo più anche a svolgere attività
clandestina. Continuano singoli episodi di ribellione a testimoniare, nonostante tutto,
l'indomabilità dello spirito
libertario. Bastano alcuni esempi. Il 21 ottobre 1928, l'anarchico Pasquale Bulzamini, a Viareggio,
mentre rincasa, viene aggredito da un
gruppo di fascisti e ferocemente bastonato. In un caffè, aveva poco prima deplorato la
fucilazione
dell'antifascista Della Maggiora. Muore tre giorni dopo, all'ospedale. Il 7 ottobre 1930, il compagno
Giovanni Covolcoli spara contro il Podestà e il segretario del suo paese -
Villasanta (Milano) - che lo hanno a lungo perseguitato fino a farlo internare nel manicomio.
Riconosciuto sano di mente e rilasciato in libertà, ha voluto vendicarsi contro i suoi tenaci
persecutori. Nell'aprile del 1931, a La Spezia, il giovane anarchico Doro Raspolini spara alcuni colpi
di rivoltella
contro l'industriale fascista De Biasi per vendicarsi contro uno dei maggiori responsabili dell'assassinio
di suo padre, Dante, attivo anarchico, massacrato nel 1921 a Sarzana colpito da innumerevoli
revolverate
e da 21 colpi di pugnale e quindi - legato ancor prima che morisse ad un'automobile - era stato
così
trascinato per diversi chilometri). Doro Raspolini muore nelle carceri di Sarzana in conseguenza delle
sofferenze e torture inflittegli dai fascisti. Il 16 aprile 1931, i compagni Schicchi, Renda e
Gramignano vengono condannati dal Tribunale Speciale,
a Roma, rispettivamente ad anni 10, 8 e 6 di reclusione. Erano imputati di essere rientrati dall'estero per
svolgere attività contro il fascismo.
la resistenza
Il '43 vede dunque gli anarchici della generazione pre-fascista sparsi tra esilio, confino e galere.
Poche
tracce sono rimaste dell'influenza anarchica ed anarco-sindacalista. I pochi militanti liberi dapprima e
gli
ex confinati poi riprendono con immutato vigore i loro posti di combattimento, chi nella lotta armata,
chi nell'organizzazione della resistenza operaia, chi nella propaganda clandestina al nord e
semi-clandestina al sud, nelle zone "liberate" (si fa per dire), dove gli alleati non concedono la
libertà di stampa
agli anarchici, preoccupati (giustamente dal loro punto di vista) che la lotta antitedesca ed antifascista
potesse diventare rivoluzione sociale. Per quanto riguarda la partecipazione degli anarchici alla lotta
armata partigiana, essa avvenne per lo più
all'interno di formazioni politicamente miste. Solo in quelle poche località in cui la presenza di
anarchici
e simpatizzanti era nonostante tutto sufficientemente numerosa, i compagni organizzarono formazioni
proprie, inquadrate però anch'esse, spesso a seconda della situazione locale, nelle
divisioni Garibaldi
(controllate dai comunisti), Matteotti (socialisti) e Giustizia e
Libertà (espressione dei "liberal-socialisti"
del Partito d'Azione). La mancata autonomia (che quasi sempre, dati i rapporti di forza,
significò dipendenza) dalle formazioni
partigiane partitiche fu dovuta non solo alla quasi generale esiguità numerica del superstite
movimento
anarchico, ma anche al fatto che gli alleati si rifiutavano (sempre giustamente, dal loro punto di vista)
di rifornire di armi e munizioni le formazioni anarchiche. In questo contesto il valore e spesso
l'estremo sacrificio di tanti anarchici furono sfruttati da altre forze
politiche e poterono così servire ben poco alla radicalizzazione rivoluzionaria del movimento
partigiano.
Scarsa risultò in definitiva l'influenza politica anarchica nella Resistenza, che venne incanalata
dai
partigiani ufficiali (dai liberali ai comunisti) verso quella squallida restaurazione "democratica borghese"
che è ancor oggi sotto i nostri occhi.
Gli attentati a Mussolini
La lotta al fascismo, come abbiamo visto, si risolveva molte volte in azioni individuali, azioni pagate
con
la vita. Ricordiamo qui brevemente i tre nostri eroici compagni: Gino Lucetti, Angelo Sbardellotto
e Michele
Schirru. Essi tentarono la via individuale per giustiziare quel maiale di Mussolini, ma sfortunatamente
non ci riuscirono. Il primo tentativo (1926) non riuscì proprio per sfortuna (la bomba di
Lucetti finì oltre la macchina del
boia); Lucetti fu processato con i complici (anch'esse anarchici) Stefano Vatteroni e Leonardo Sorio:
Lucetti fu condannato a trent'anni, gli altri a sette e sedici anni. Gli altri due tentativi purtroppo non
ebbero nemmeno esecuzione pratica per l'arresto preventivo sia di Schirru (1931) che di Sbardellotto
(1932). Questi ultimi due dopo un processo sommario furono entrambi fucilati. La sorte di Lucetti
fu anch'essa tragica: liberato nel 1943, dopo la caduta del fascismo, morì sotto un
bombardamento appena uscito dal carcere! Particolarmente significativo il "Testamento" di Michele
Schirru, in cui l'anarchico sardo racconta la sua
maturazione politica e spiega le ragioni di ordine morale e politico che l'hanno convinto della
necessità
di eliminare il "duce".
|
I cavalieri erranti
La diaspora dell'esilio non ferma la lotta antifascista
Primissimo pensiero degli anarchici nell'esilio fu la stampa per continuare
anche dall'estero gli attacchi
al regime fascista. Il I maggio del '23 esce a Parigi "La voce del profugo", ed il 3 giugno il
quindicinale "Il profugo". Cominciarono intanto le provocazioni criminali dei fascisti: il 3 settembre
a Parigi il giovane anarchico
Mario Castagna viene aggredito da una banda di fascisti e nella colluttazione contro i suoi aggressori
ne uccide uno. Pochi mesi dopo, il 20 febbraio 1924, il giovane anarchico Ernesto Bonomini uccide,
in un ristorante di
Parigi, con alcuni colpi di rivoltella, il gerarca fascista Nicola Bonservizi, segretario dei fasci all'estero,
corrispondente del "Popolo d'Italia" e redattore del giornale fascista di Parigi "L'Italie Nouvelle". Il
nostro compagno dichiarerà di aver voluto protestare contro i delitti impuniti dei fascisti e dei
loro
complici. Verrà condannato a otto anni di galera. Un altro giornale vedrà la luce il
Primo Maggio,
sempre a Parigi, a cura di compagni italiani: "L'Iconoclasta"; inoltre sempre in quell'anno alcuni anarchici
danno vita ad un giornale clandestino intitolato "Compagno, ascolta!" dove vengono date indicazioni
per una lotta energica e spietata, nell'eventualità di una insurrezione in Italia. Dopo pochi
giorni dal delitto Matteotti si costituisce a Parigi un comitato animato dagli anarchici e che
darà vita in seguito ad un'altro giornale dal titolo "Campane a stormo", la cui redazione
verrà affidata
al compagno Alberto Meschi. Per il delitto Matteotti gli anarchici italiani in Francia danno inizio anche
ad una campagna nazionale generale che culmina nella distribuzione di migliaia e migliaia di volantini
in cui vengono denunciati i crimini dei fasci (luglio 1924). Durante l'anno 1925 gli anarchici italiani
continuano la loro attività antifascista, mentre prosegue la
pubblicazione di giornali e riviste; basterà qui ricordare "La tempra" e "Il monito". In questi
anni le persecuzioni, le privazioni di ogni genere, le più vili angherie nei confronti degli
anarchici continuano da parte di agenti fascisti in Francia. Comunque essi non si piegarono. Proprio
in quei giorni (11 ottobre 1927) Luigi Fabbri, insegnante, dopo
essersi rifiutato di prestare giuramento al fascismo ed essere riuscito a rifugiarsi in Francia, pubblica a
Parigi, con Berneri e Gobbi, il giornale "Lotta umana". Continuano intanto le persecuzioni e gli
arresti e le espulsioni. Nel marzo del 1928 a Parigi viene
arrestato il compagno Pietro Bruzzi; altri due compagni Carlotti e Centrone (che morirà
valorosamente
in Spagna) vengono prima arrestati e dopo espulsi. La risposta il più delle volte è
opera di coraggiosi militanti che agiscono sempre in via individuale. Il 22
agosto a Saint-Raphael (Francia) il console, noto fascista, marchese Di Mauro viene fatto segno di un
attentato. Pochi mesi dopo, l'8 novembre, il giovane anarchico Angelo Bartolomei, con un colpo di
rivoltella, uccide il prete fascista don Cesare Cavaradossi. Questi, vice Console, gli aveva proposto, per
evitare l'espulsione dalla Francia, di tradire i compagni e di diventare suo confidente. Il Bartolomei riesce
a fuggire da Nancy e a rifugiarsi in Belgio, dove però verrà arrestato nel gennaio del
1929. Anche in altri paesi gli anarchici italiani continuano a subire persecuzioni ed arresti per la loro
attività
antifascista. Nel luglio del 1928 in Belgio l'anarchico Gasperini ricorre allo sciopero della fame per
ribellarsi all'estradizione chiesta dal governo italiano (aveva ferito assieme ad altri compagni, alcuni
fascisti nel 1921). Il governo belga concederà invece l'estradizione del compagno Carlo
Locati. L'espulsione è una sorte che colpirà moltissimi compagni. Infatti pochi mesi
dopo, il 13 agosto, a Liegi,
il compagno Gigi Damiani viene prima arrestato e poi espulso (Tunisia). A questa ondata di persecuzioni
che vede gli anarchici italiani colpiti sempre in prima fila, il movimento cerca di rispondere come
può. Ormai, però, diventa difficile anche la pura sopravvivenza, per le continue
espulsioni che colpiscono
chiunque faccia una energica attività antifascista: nel gennaio del '29 i compagni Gobbi, Berneri,
Fabbri
e Fedeli, in seguito alle forti pressioni del governo italiano, vengono arrestati a Parigi e condotti alla
frontiera con il Belgio. È questo l'inizio della Odissea di Berneri e di tanti altri compagni.
Arrestati in una
parte ed espulsi, non resta che cambiar nome e attività, attraverso la Francia, il Belgio, il
Lussemburgo,
la Svizzera, sempre braccati e senza posa. Nel settembre del 1929 a Saarbrucken (Germania) il
giovane anarchico Enrico Manzoli (Morano),
aggredito da un gruppo di fascisti appartenenti ai "caschi di acciaio", si difende e ne uccide uno. Altri
anarchici, però, cadranno sotto i colpi dei fascisti: nel gennaio del 1930, a Nizza, è
ucciso da un ex-carabiniere il compagno Vittorio Diana, a causa del suo intransigente atteggiamento in
occasione delle
manifestazioni fasciste per l'inaugurazione di un gagliardetto. Pochi mesi prima era morto in seguito ai
patimenti e privazioni, presso Parigi il giovane anarchico Malaspina, braccato senza posa dalle polizie
di vari paesi. Era stato imputato di aver lanciato una bomba contro la Casa del fascio di Juan-les-pins.
Assolto per insufficienza di prove, era stato in prigione e più volte torturato. Il 1929 vede
gli anarchici ancora in prima fila nella lotta al fascismo, anche se tale lotta è affidata, data
la scarsità pressoché totale di mezzi, alla sola volontà e al solo coraggio. Nel
giugno del 1929 i compagni
raccolti attorno alla redazione della rivista "Lotta Anarchica", fanno arrivare in Italia, clandestinamente,
un giornale di piccolo formato e stampato su carta velina. Si tenta anche di passare all'azione:
nell'agosto dello stesso anno l'anarchico Paolo Schicchi (compie in
quell'anno 65 anni!) si imbarca dalla Francia e poi Tunisia per la Sicilia, dove vuole suscitare con il
proprio esempio, un movimento di ribellione contro il fascismo; ma al suo arrivo a Palermo viene
immediatamente arrestato assieme al compagno Gramignano. Vennero condannati rispettivamente a 10
e a 6 anni di galera. Il compagno Renda, anch'egli partecipante all'impresa venne condannato a 8
anni. Nel gennaio del 1921 a Parigi si tiene un convegno di anarchici per intensificare la lotta
clandestina in
Italia, lotta che porterà molti compagni ad essere arrestati e deportati al confino. Questo non
impedì di
continuare a spedire materiale in Italia portato da vari compagni. Gli anarchici comunque in quegli anni
collaborarono anche con altre formazioni antifasciste, soprattutto con "Giustizia e Libertà",
senza
interrompere la serie di continue azioni individuali. Anche in America gli anarchici svilupparono una
forte attività antifascista. Già il 16 giugno del '23 il
governo fascista premeva su quello americano per far chiudere il foglio anarchico "l'Adunata dei
Refrattari". La risposta degli anarchici non si fece attendere: il 24 novembre scoppia una bomba al
consolato italiano mandandolo completamente in rovina. Tutto l'anno 1924 segna una serie continua di
manifestazioni antifasciste organizzate ed animate dagli anarchici. A Cuba, per esempio; gli anarchici
organizzarono uno sciopero generale in occasione dell'arrivo di una nave italiana (27 settembre
1924). Non si contano le provocazioni fasciste di quegli anni, sebbene il più delle volte i
fascisti ricevano delle
lezioni durissime, come nel caso di una provocazione fascista ad un comizio anarchico (16 agosto 1925)
a New York. Certo gli anarchici, sebbene pochi e sempre perseguitati e soprattutto senza nessun
appoggio esterno, furono in quegli anni una spina non indifferente per il governo americano. Non
passava giorno che alle provocazioni fasciste, appoggiate e protette certe volte, dalle autorità
americane,
gli anarchici non rispondessero per le rime. Il '26 e '27 sono due anni infuocati per il movimento
anarchico negli Stati Uniti. Infatti, in quegli anni, alla protesta contro il fascismo, si assomma la protesta
contro la criminale persecuzione di Sacco e Vanzetti. È praticamente impossibile enumerare
qui tutte le manifestazioni, gli attentati, e gli scontri sia contro le
autorità americane che contro i fascisti. Sono gli anni in cui gli anarchici venivano presi molte
volte a
pistolettate sulla pubblica via, sia da poliziotti americani che da agenti fascisti. Anche negli anni
seguenti, fino al '36, continuarono da parte degli anarchici manifestazioni e attività
antifasciste che culminarono in arresti e deportazioni in Italia. Molti compagni, come Armando Borghi,
vissero lunghi anni clandestinamente, a causa di tali persecuzioni. Altri, sfuggiti miracolosamente a tante
peripezie, morirono poi valorosamente in Spagna, o fatti prigionieri, vennero poi deportati in Italia.
Coatti e baldi
di P. F.
Fieramente ribelli anche al confino
L'8 novembre 1926 fu pubblicato sulla "Gazzetta Ufficiale" il decreto che
istituiva il "Tribunale Speciale
per la difesa dello Stato" e le "Commissioni provinciali per l'assegnazione al Confino di Polizia". Ma fin
da prima di quel decreto molti anarchici furono relegati su quelle isole sperdute nel Mediterraneo che
già erano state utilizzate alla fine del secolo scorso per tenervi raccolti (ed isolati dal mondo
esterno)
i sovversivi. Al confino, gli anarchici costituirono sempre un gruppo compatto e battagliero, e
seppero combattere
la dittatura fascista anche in quelle dure condizioni. Basti pensare alle condanne al carcere subite da 152
confinati politici che nel 1933 organizzarono a Ponza le proteste contro i continui soprusi della direzione
della Colonia; numerosi fra questi condannati gli anarchici (Failla, Grossuti, Bidoli, Dettori, ecc.).
L'anno
successivo l'anarchico Messinese, confinato ad Ustica, prese a schiaffi il direttore della Colonia che
voleva obbligarlo a fare il saluto romano. La ribellione contro simili soprusi si estese progressivamente
ad altre isole, in particolare a Ventotene ed a Tremiti, portando a nuove condanne contro compagni
nostri. Uniti da stretti vincoli di solidarietà, gli anarchici riuscirono a far giungere e circolare
clandestinamente
fra i compagni alcuni testi anarchici e sostennero nel contempo vivaci polemiche con gli altri confinati.
Particolarmente tesi furono sempre i rapporti fra confinati comunisti ed anarchici poiché i primi,
ligi alle
direttive politiche provenienti dal Partito e da Mosca, fecero sempre di tutto per ostacolare
l'attività
politica dei libertari. Ad acutizzare questa polemica giunsero, a partire dal 1936, le notizie dal fronte
spagnolo, che, seppur senza precisione, riferivano di scontri armati fra anarchici e stalinisti. Ribelli
ad ogni autorità, gli anarchici tennero costantemente un comportamento fiero e deciso, e furono
sempre ritenuti i più pericolosi e sediziosi dalle autorità del confino; questa pessima (e
meritata) fama
presso le alte gerarchie fasciste fu causa di nuove persecuzioni e condanne e spesso dell'allungamento
della pena di confino senza neppure una parvenza di processo. Accadde così che alcuni
compagni, pur
condannati inizialmente a pochi anni, dovettero restare sulle isole fino al 1943, quando, con la caduta
del fascismo in luglio, esse furono "smobilitate". Significativa al riguardo la liquidazione del confino
di Ventotene, dov'era stato concentrato un numero
elevato di anarchici. Quando giunse la notizia della caduta del fascismo i primi ad esser liberati furono
i militanti di "Giustizia e Libertà", cattolici, repubblicani e testimoni di Geova; per cui in un
primo tempo
rimasero a Ventotene solo comunisti, socialisti ed anarchici. Quando però il maresciallo
Badoglio chiamò
al governo Roveda per i comunisti e Buozzi per i socialisti, questi pretesero ed ottennero la liberazione
dei carcerati comunisti e socialisti, trascurando gli anarchici ed i nazionalisti sloveni. Si ruppe
così quel
vincolo di solidarietà che, al di là delle accese polemiche, aveva pur sempre legato le
varie comunità
politiche di confinati di fronte al comune nemico fascista. Nonostante alcuni militanti dei partiti di
sinistra
cercassero di rifiutarsi di partire per non lasciar soli gli anarchici, il grosso dei confinati se ne
andò libero,
noncurante di quelli che erano costretti a restare sull'isola. Gli anarchici, dopo una decina di giorni dalla
partenza degli altri, furono trasportati, per nave e poi in treno, fino al campo di concentramento di
Renicci d'Anghiari (Arezzo). Durante questo lungo viaggio di trasferimento molti compagni cercarono
di fuggire, eludendo la stretta vigilanza di poliziotti e carabinieri, ma solo uno riuscì nel suo
intento.
Appena giunti nel campo gli anarchici ebbero a scontrarsi con le autorità e due compagni nostri
furono
immediatamente segregati in cella; questo diede l'avvio alle proteste ed alla continua agitazione degli
anarchici (fra i quali ricordiamo Alfonso Failla) che giunsero a scontrarsi violentemente con le forze
dell'ordine del campo. Successivamente, comunque, alcuni riuscirono a fuggire ed andarono a costituire
le prime bande partigiane delle zone circostanti. Solo nel settembre le guardie se la squagliarono ed i
compagni lasciarono il campo, appena prima che arrivassero i tedeschi.
Nella rivoluzione spagnola
La notizia che in Spagna era scoppiata la rivolta popolare contro il
"putsch" di Franco fu come lo
scoppio di una bomba, negli ambienti dell'emigrazione antifascista italiana a Parigi. Gli esuli, da anni
costretti a lottare sulla difensiva, videro subito che in terra di Spagna si osava finalmente dire
chiaramente no al fascismo, e si impugnavano le armi per impedirne il trionfo. Mentre alcuni
compagni partirono immediatamente per andare a combattere a Barcellona, molti altri si
preparavano a partire e si riunivano frequentemente per decidere il da farsi. Ad un convegno
appositamente indetto, di tutte le forze politiche antifasciste italiane a Parigi, sia Longo per i comunisti
sia Buozzi per i socialisti dichiararono che i loro partiti erano disposti ad inviare aiuti sanitari e a dare
un
appoggio morale al popolo spagnolo, ma non erano d'accordo per un intervento armato. Il
rappresentante dei repubblicani restò sulle generali, evitando qualsiasi impegno, per cui gli
anarchici ed
il "giellisti" (militanti del movimento "Giustizia e Libertà") furono gli unici a sostenere la
necessità di
un'immediata partenza per la Spagna. E così fecero. Il 18 agosto 1936, infatti, meno di un
mese dopo l'insurrezione popolare (19 luglio), partì per il fronte
d'Aragona un primo scaglione di antifascisti italiani, arruolatisi volontariamente nella sezione italiana
della colonna "Ascaso", organizzata e formata da militanti anarchici della F.A.I. e anarcosindacalisti
della
C.N.T. La maggior parte di questi primi volontari italiani erano anarchici (un centinaio). Altri
anarchici italiani, giunti in Spagna successivamente, si aggregarono alla colonna "Durruti"
(C.N.T.-F.A.I.), alla colonna "Tierra y Libertad" (C.N.T.-F.A.I.), alla colonna "Ortiz" (C.N.T.-F.A.I.)
e ad altre
formazioni. Secondo una stima documentata dai registri di arruolamento della sezione italiana, depositati
presso la C.N.T.-F.A.I., gli anarchici italiani combattenti in Spagna furono
seicentocinquantatre. Nei primissimi mesi dell'inizio della rivoluzione moltissimi compagni
italiani furono trascinati da un
entusiasmo rivoluzionario che li portò sempre in prima fila: è in questo periodo che
morirono e rimasero
feriti la maggior parte di essi. Molti compagni feriti ritornarono al fronte a combattere nuovamente.
Questo, per esempio, è il caso del compagno Pio Turroni, che ferito una prima volta in ottobre
ritornò
dopo pochi mesi al fronte, dove rimase nuovamente ferito; rientrò quindi a Barcellona, dove fu
commissario politico per gli italiani, nella caserma "Spartacus". È impossibile qui ricordare
anche solo i nomi di tutti, morti e superstiti. Tra i sopravvissuti ricordiamo
in modo particolare, perché ancor oggi militanti attivi nel movimento anarchico, oltre a Turroni,
Umberto Marzocchi ed Umberto Tommasini. Gli anarchici italiani mantennero sempre una posizione
coerente, soprattutto di fronte alla contro-rivoluzione comunista, come nelle giornate del maggio '37
a Barcellona. Non è un caso che gli stalinisti
in quei giorni assassinassero gli anarchici italiani Camillo Berneri (che redigeva a Barcellona il periodico
in lingua italiana "Guerra di classe") e Francesco Barbieri. Anche di fronte al processo di
militarizzazione la loro posizione intransigentemente rivoluzionaria fu
espressa in modo pressoché unanime. Già il 10 ottobre prima, e il 13 novembre poi,
stilarono
rispettivamente due documenti in cui denunciavano il pericolo di involuzione controrivoluzionaria, se
fosse passato, come poi passò, il processo di militarizzazione (documenti firmati, per la sezione
italiana
della colonna "Ascaso ", da Rabitti, Mioli, Buleghin, Petacchi, Puntoni, Serra, Segata). Anche se
durante
le tragiche giornate della controrivoluzione comunista essi si trovarono in disaccordo con la "dirigenza"
della F.A.I. e della C.N.T. e nonostante avessero ormai compreso che le sorti della rivoluzione
volgevano al peggio, essi continuarono a combattere e a morire. Sono circa sessanta gli anarchici
italiani morti in Spagna e centocinquanta i feriti, di cui molti morirono
più tardi a causa delle privazioni sopportate nei campi di concentramento in Francia.
Sarzana
Una risposta esemplare alle squadre fasciste
La presenza di un forte e combattivo movimento operaio, ed in
particolare di molti gruppi anarchici ed
anarco-sindacalisti, fece sì che lo squadrismo fascista assumesse un carattere violentemente
provocatorio
ed omicida nell'intera provincia di La Spezia, così come nel Carrarino. Il padronato ed i
fascisti non potevano sopportare che continuasse la tradizione di ribellione dei
lavoratori, che nella occupazione delle fabbriche avevano decisamente mostrato il proprio carattere
rivoluzionario; per questo motivo, fin dagli inizi del 1921, poche settimane cioè dopo il
tradimento dei
riformisti e la grave sconfitta dell'occupazione delle fabbriche, i fascisti tentarono di spadroneggiare,
minacciando e colpendo i militanti rivoluzionari. Basti ricordare, per esempio, l'assalto fascista alla
Camera del Lavoro di La Spezia (27 febbraio '21),
l'uccisione del compagno Olivieri (28 febbraio), gli incidenti provocati ai suoi funerali (11 marzo),
l'inaugurazione provocatoria del gagliardetto dei fasci spezzini (11 aprile) e la devastazione da parte dei
fascisti delle due Camere del Lavoro, aderenti rispettivamente alla C.G.L. ed all'U.S.I. (12 maggio). Ma
furono soprattutto le grandi spedizioni punitive a caratterizzare (qui come altrove) la violenza delle
camicie nere, ed a provocare la decisa rabbiosa risposta popolare; era ormai abitudine per i fascisti
"concentrarsi" in un centro abitato, assaltarvi le sedi antifasciste, uccidere gli oppositori più
irriducibili,
per poi ripartire certi dell'impunità da parte dello Stato "liberale". Il capo riconosciuto di queste
squadracce nello spezzino era Renato Ricci, ex-legionario fiumano e futuro onorevole: fra le altre
imprese, fu lui a guidare personalmente una spedizione punitiva contro i centri di Pontremoli e di
Sarzana
(12 giugno). La reazione popolare antifascista fu allora così decisa che gli squadristi furono
costretti a
ripiegare, e le autorità non poterono fare a meno di arrestare il Ricci e di rinchiuderlo nelle
carceri di
Sarzana. Privati momentaneamente del loro ducetto locale, i fascisti decisero di cercare di liberarlo,
e soprattutto
di dare una storica lezione alla popolazione di Sarzana, scelta come simbolo della lotta dei "sovversivi"
contro la reazione padronale e fascista. Sarzana, infatti, trovandosi a metà strada fra La Spezia
e Carrara,
era un centro particolarmente importante nelle lotte anarco-sindacaliste e nella propaganda anarchica,
ed inoltre aveva tradizionalmente una giunta comunale "rossa", tutte cose queste che la rendevano
giustamente odiata dall'avversario di classe. Gli squadristi, dunque, guidati da Amerigo Dumini (uno dei
più noti criminali fascisti, futuro correo nell'assassinio del deputato socialista Matteotti),
calarono da
molte province della Toscana nelle zone circostanti Sarzana, preparandosi ad attaccarla in forze.
Quando
furono informati che nel paese di Arcola (La Spezia) un loro camerata, tal Procuranti, era stato ucciso,
subito iniziarono la spedizione punitiva, compiendo violenze ancor prima di entrare in Sarzana: fra gli
altri, fu ucciso un contadino a Santo Stefano Magra (La Spezia). Giunti a Sarzana, i fascisti si
concentrarono alla stazione ferroviaria per inquadrarsi bene e per sferrare l'attacco; fu allora che
accolsero sparando 7 carabinieri e 4 soldati, che, comandati dal capitano Jurgens, li volevano consigliare
a desistere dai loro propositi "nel loro stesso interesse". Dopo il breve scontro a fuoco con le forze
dell'ordine, i fascisti si trovarono a dover affrontare l'assalto
armato da parte degli Arditi del Popolo che, organizzati dall'anarchico Ugo Boccardi detto "Ramella",
dettero per primi il benvenuto ai fascisti. Ma non furono i soli, poiché sopraggiunsero presto
gli
arsenalotti, cioè quei lavoratori che ogni mattina prendevano il treno da Sarzana a La Spezia
per recarsi
a lavorare là all'arsenale. Quel treno quotidiano, infatti, quella mattina non era partito, nell'attesa
del
previsto attacco squadrista; l'intera popolazione partecipò alla sollevazione contro le camicie
nere, che
subito ebbero dei morti e furono costrette a cercar scampo nelle campagne circostanti. Ma anche qui
non
trovarono sorte migliore, chè anzi i contadini (anch'essi perlopiù anarchici, e comunque
decisamente
antifascisti) collaborarono con gli Arditi del Popolo alla cattura degli aggressori, molti dei quali furono
uccisi. Si parlò allora di circa venti fascisti uccisi, e così afferma anche la storiografia
ufficiale, ma da
testimonianze pervenuteci da compagni che erano attivamente presenti risulta che furono molti di
più. Ad ogni modo resta la realtà della grande vittoria popolare di Sarzana, che, con
la collaborazione degli
Arditi del Popolo prontamente giunti dai centri circostanti, segnò un duro colpo alla violenta
protervia
fascista. Basti pensare che la rabbia per la disfatta subita in Lunigiana portò i fascisti a vendicarsi
contro
i "sovversivi" anche lontano da quei posti, nel vano tentativo di dimenticare la lezione di Sarzana. La
via
indicata quel 21 luglio dal popolo sarzanese, e confermata dalle altre violente resistenze popolari allo
squadrismo fascista (Parma, Civitavecchia, ecc.), era quella giusta per battere sul nascere la reazione
padronale. Pochi giorni dopo, però, firmando il Patto di Conciliazione con i fascisti su scala
nazionale, i socialisti
contribuiranno a disarmare il popolo, lasciandolo inerme vittima dello squadrismo fascista. La stessa
responsabilità toccherà ai comunisti, da pochi mesi costituitisi in partito, che
preferiranno ritirare i propri
militanti dagli Arditi del Popolo pur di non collaborare con gli anarchici.
Imola
Violenze fasciste e forte resistenza popolare - Gli anarchici in prima fila
Il 1920 segna la riorganizzazione definitiva degli anarchici imolesi che
danno vita a due folti gruppi: il
gruppo giovanile anarchico e l'U.S.I. In tutto i giovani che si impegnavano attivamente erano una
ottantina: organizzavano dibattiti,
conferenze, comizi e cercavano di realizzare una stretta unità con i giovani
socialisti. L'attività sindacale era diretta soprattutto verso quelle categorie come i muratori,
gli infermieri, gli
imbhianchini, i barbieri, i metallurgici ed i camerieri che non erano seguiti dalla c.d.l. (aderente alla CGL)
impegnata com'era nell'agitazione agraria e quindi nell'organizzazione delle categorie agricole. La
preparazione rivoluzionaria degli anarchici cresceva ogni giorno, per cui non si trovarono sprovvisti
di fronte al fascismo. Infatti il 28 ottobre 1920 Dino Grandi, allora giovane avvocato di Nordano
(comune vicino a Imola),
poi uno dei più grandi gerarchi fascisti, subisce un attentato: gli vengono sparati contro quattro
colpi
di rivoltella che, (purtroppo) non lo colpiscono. Si attribuisce il fatto agli anarchici e i socialisti
declinano
le loro responsabilità. In effetti gli autori dell'attentato risultano essere veramente anarchici che,
nel
momento in cui il fascismo nascente si appoggia a giovani studenti infiammati di patriottismo e di spirito
reazionario e di odio verso il socialismo, hanno intuito in Grandi un possibile futuro nemico. Il 1920
si conclude con il tentativo, da parte dei fascisti di crearsi le premesse per poter penetrare in
Imola, ma fino al giugno del 1921 i fascisti a Imola non hanno voce in capitolo. Gli anarchici
partecipano, con i giovani socialisti, che poi passeranno in massa al P.C. d'I., alla
formazione delle "guardie rosse" a cui è affidato il compito di difendere Imola dalle squadracce
provenienti da Bologna. I fascisti infatti avevano già "assoggettato" Castel S. Pietro e si
servivano di
questo comune come base per le incursioni nei paesi vicini e soprattutto per distruggere il mito di "Imola
rossa" e della combattività degli imolesi, dovuta alla cinquantennale propaganda anarchica e
socialista
e al grande prestigio che aveva avuto Andrea Costa. I fascisti bolognesi fanno vari tentativi fin dal
novembre, sempre sconsigliati però dalla autorità locale e dagli stessi capi socialisti
perché l'eccezionale
livello di mobilitazione del popolo avrebbe provocato una "carneficina". Ma il 14 dicembre una colonna
di fascisti in camion tenta di venire a Imola. Il servizio di informazione scatta immediatamente e tutta
la popolazione armata, chiamata dal campanone comunale che suona a stormo, scende in piazza. Le
cinque squadre di "guardie rosse" si dispongono nei punti strategici della città e gli anarchici
collocano
due mitragliatrici all'ingresso di Imola, sulla Via Emilia, in modo da prendere i fascisti in un fuoco
incrociato. Anche questa volta i fascisti non vengono, pare che Romeo Galli, socialista, telefonasse al
Sindaco di Ozzano per pregarlo di dissuaderli. Ma i fascisti avevano intuito quale era il mezzo
più
efficace per entrare a Imola: lasciare che una snervante attesa fiaccasse la difesa degli
imolesi. Così, con l'appoggio dei popolari, fanno le loro prime apparizioni fino a lanciare
un attacco in grande
stile. Il 10 aprile, durante una processione organizzata dal Partito Popolare, arrivano i fascisti
provenienti
da Castel S. Pietro: l'esercito e i carabinieri occupano il centro per difendere dal popolo gli squadristi.
Il 28 maggio i fascisti danno l'assalto al Circolo ritrovo socialista, naturalmente di sera. Un gruppo di
essi, nascosto nell'ombra dei giardini pubblici, si prepara ad attaccare con pugnali, bombe a mano e
rivoltelle. Mentre parte di essi entrano nel circolo, altri, fuori, sparano all'impazzata per impedire alla
gente di accorrere. Il bilancio dell'assalto è di sette feriti e la distruzione di parte delle
suppellettili, registri ecc., poste nei
locali in cui aveva sede anche la redazione del settimanale socialista "La lotta" e la sezione socialista.
La reazione comincia a prendere piede apertamente anche ad Imola, i capi socialisti fuggono a S.
Marino
e torneranno solo a settembre, a bufera momentaneamente passata. Così la reazione armata
fascista colpisce le avanguardie mentre la massa è disorientata e impaurita. Il 26 giugno i
fascisti con Dino Grandi, Gino Baroncini ecc. inaugurano il gagliardetto di combattimento
sotto gli occhi soddisfatti della gretta borghesia locale. I fascisti locali, figure squallide, in alcuni casi
addirittura malati di mente, trovano appoggio negli agrari
che li esaltano, li ubriacano con soldi e vino, e lo stretto collegamento col gruppo già forte del
fascismo
bolognese li fa sentire improvvisamente padroni della piazza quando in 100 contro 1, protetti dalla
polizia, si scagliano contro le avanguardie rivoluzionarie. I primi ad essere colpiti sono gli anarchici, poi
i socialisti ed infine la reazione si abbatte su tutto il proletariato. Il 10 luglio vi sono i fatti della
Birreria Passetti in cui, fallito il tentativo di alcuni fascisti di uccidere
l'anarchico Primo Bassi (1892-1972), si costruisce una montatura per accusarlo della morte del rag.
Gardi, estraneo ai fatti e rimasto ucciso nella sparatoria. Racconta Primo Bassi: "Il 10 luglio 1921
una squadra di fascisti Imolesi iniziava le prime azioni di
violenza indiscriminata. Alle ore 10 di sera, incontrato un muratore - tal Campori - lo colpirono con
randellate al capo sino a che, sanguinante, potè rifugiarsi nella birreria Passetti, in quel momento
affollata
di clienti. Fu allora che notai un giovincello che, battendomi un giunco sulla spalla, mi invitava ad uscire.
Accondiscesi, ma dopo pochi passi nell'ampio cortile fui circondato dalla squadra che pretese
perquisirmi
e quando, palpate le tasche, furono persuasi fossi inerme, iniziarono la bastonatura. Con una spinta mi
aprii il passo verso l'uscita e, guadagnando l'uscita sotto le percosse, fui raggiunto da una randellata allo
zigomo sinistro che per poco non mi abbattè al suolo. Voltandomi di scatto fu allora - solo
allora - che
l'istinto di conservazione prevalse in me. Il fascista Casella mi era quasi addosso con l'arma in pugno ed
io - già estratta la pistola dalla cintura dei pantaloni - gli sparai contro colpendolo ad una gamba.
Sparai
ancora in aria un colpo e mentre attorno era tutto una sparatoria fuggii per via Aldovrandi per
consegnarmi ai carabinieri sopraggiunti, ferito da una pallottola di rimbalzo. Accompagnato in caserma
prima ed all'ospedale poi, fui tempestato di pugni sino a che un infermiere, il socialista Maiolani, non
intervenne a redarguirli. Intanto all'interno della birreria un cittadino - voluto poi fascista - era stato
colpito dal basso all'alto da un colpo di rivoltella, decedendo. I fascisti si impadronirono di quel morto
ed iniziarono una violenta reazione contro uomini e cose". La stessa sera numerose squadre di
fascisti percorrono le vie della città, sparando all'impazzata con lo
scopo di impaurire. Poi assalgono la sede dell'Unione Sindacale, distruggendo sistematicamente
tutto ciò che trovano:
devastano gli uffici delle leghe, la redazione del giornale anarchico Sorgiamo, il circolo
ritrovo, la ricca
biblioteca. Tutto ciò che non si può dare alle fiamme nel piazzale sottostante è
reso completamente
inservibile. Il lunedì continua per le vie di Imola la caccia al sovversivo. Viene arrestato il
maestro anarchico Ciro Beltrami per aver sparato all'ex repubblicano Mansueto
Cantoni, diventato segretario del fascio locale. Viene picchiato selvaggiamente coi calci di moschetto
alla schiena, tanto da morire nel 1941 a Bruxelles in seguito alla tubercolosi, provocata dalle botte
fasciste. Anche il responsabile de "Il Momento", giornale della Federazione Prov. Comunista
Bolognese e organo
della c.d.l. di Imola, Romeo Romei viene aggredito e, ferito gravemente al petto con un colpo di
rivoltella, lasciato per terra moribondo; Ugo Masrati, bracciante agricolo anarchico, mentre è
tranquillamente addetto in un'aia come paglierino ai lavori di trebbiatura, viene assassinato dai
fascisti. Alla tipografia Galeati, pena l'incendio, si impedisce di stampare il periodico anarchico
Sorgiamo. Si
vieta alle edicole di vendere giornali "sovversivi", come Umanità Nova e
Ordine Nuovo. Ma il
movimento anarchico non è ancora definitivamente abbattuto, bisogna quindi ancora colpirlo,
ancora
assassinare. La sera del 21 luglio '21, cinque fascisti si recano in un'osteria alle "Case Gallettino"
con lo scopo ben
preciso di colpire un altro anarchico che si era sempre distinto per il suo coraggio, Vincenzo Zanelli,
detto Banega, muratore, anarchico. Arrestato per i moti del caro-vita del luglio 1919, era stato di nuovo
arrestato nel 1921 senza una imputazione precisa e rilasciato dopo 20 giorni. Da allora non era
più stato
lasciato in pace dai fascisti. Raggiunto con altri due anarchici - Farina e Tarozzi - dai fascisti, viene
colpito ma, mentre gli altri due anarchici disarmati fuggono, egli a terra si difende e uccide il suo
aggressore, il fascista Nanni, di professione ladro. Ormai quasi tutti gli anarchici imolesi più in
vista sono
eliminati. L'uccisione del giovane fascista Andrea Tabanelli serve da pretesto per manovre contro
gli anarchici:
caduta la prima accusa contro l'anarchico Diego Guadagnini, viene accusato il cugino Enrico Guadagnini
e i fascisti fanno altre rappresaglie: compiono un altro assalto alla sede dell'U.S.I. e ammazzano a
randellate in testa Raffaele Virgulti, mutilato di guerra anarchico. Il movimento è
così decimato: messi in condizioni di non nuocere i compagni migliori come Diego
Guadagnini e Primo Bassi (condannato a 20 anni nonostante che la perizia balistica avesse dimostrato
che il proiettile che uccise Gardi non apparteneva all'arma di Bassi), uccisi tanti dei migliori come Leo
Branconcini, Vincenzo Zanelli, Raffaele Virgulti, carcerati o confinati tantissimi altri come Tarozzi,
Baroncini, Farina, Errani, i fratelli Tinti, Tonini ecc. il movimento anarchico imolese darà il suo
contributo alla lotta di liberazione in Italia nel 44-45 e, precedentemente, in Spagna nel 1936.
Biografie bolognesi
a cura del Centro "Malatesta"
Le vicende degli anarchici Imolesi dal '20 al '45 sembrano ricalcate su un
unico modello: lotta contro il
fascismo in Italia, esilio, rivoluzione spagnola, Francia, deportazione in Italia, confino e, dopo l'8
settembre, Resistenza partigiana. Pur in un piccolo centro come Imola gli anarchici che, con
variazioni, passarono attraverso questa
"trafila" sono tanti che non possiamo riportarne le biografie intere. Basti quella d'uno di loro per
esemplificarle tutte. Vindice Rabitti, nato nel 1902, impiegato. "Ardito del Popolo",
partecipò a vari conflitti contro gli
squadristi. Subì processi, condanne (ad 1 anno e 3 mesi il 25-7-1922; ad 11 mesi nel luglio del
1923) e
carcere. Fu ferito dai fascisti in seguito ad un attentato. Espatriò in Francia nel 1923.
Rientrò in Italia
nella primavera del 1924. Partecipò a nuovi scontri con i fascisti e riparò
successivamente in Francia.
Fu arrestato per presunto attentato alla Società delle Nazioni. Nel 1932 raggiunse l'Algeria ove
continuò
l'attività antifascista. Arruolatosi per la Spagna il 23-7-1936, fu tra gli organizzatori della
colonna italiana
"Ascaso" della quale divenne delegato politico. Combattè sui fronti di Monte Pelato, di Huesca,
di
Almudevar e, poi, nel Carrascal di Huesca nell'aprile 1937. Ritornò in Francia, nell'aprile 1938,
ove
continuò l'attività antifascista. Fu arrestato a Bardonecchia nel marzo 1940.
Successivamente venne
rinchiuso al confino di Ventotene per due anni. Partecipò alla lotta di liberazione nell'Imolese
e in
Romagna. Simili, come s'è detto, le vicende di molti altri compagni imolesi: Carlo Alvisi,
muratore; Gino Balestri,
muratore; Giuseppe Tinti, muratore; Gelindo Zanasi, muratore; Gaetano Trigari, fabbro (arrestato per
attività partigiana nel settembre del '43 venne deportato dapprima a Dachau e poi a Mathausen);
Eutilio
Vignoli, commesso; Natalino Matteucci, muratore; Umberto Panzacchi, pavimentatore (morto nel '41
a Parigi, a seguito di malattia contratta durante la guerra in Spagna); Armando Malaguti, barbiere; Ugo
Guadagnini, muratore; Bruno Gualandi, edile (caduto sul fronte di Huesca nell'ottobre '36); Luigi
Grimaldi, bracciante; Lorenzo Giusti, ferroviere; Francesco Gasperini, operaio; Mario Girotti, operaio
(ferito e reso "inabile" nella battaglia di Monte Pelato); Attilio Balzamini, ferroviere (ferito a Monte
Pelato e morto all'ospedale di Barcellona nel giugno del '38); Raffaele Catti, operaio (ferito a Huesca);
Cesare Forni, artigiano; Ferruccio Tantini, muratore; Tosca Tantini (sorella di Ferruccio,
partecipò ai
combattimenti di Huesca e Almudevar).
Pisa
Come tutte le province circostanti, quella di Pisa fu particolarmente presa
di mira dai fascisti, che ben
ne conoscevano le tradizioni di lotte operaie e contadine. Gli anarchici erano numerosi sia in
città sia in
quasi tutti i centri piccoli e grandi del circondario; a Pisa si stampava "L'Avvenire Anarchico", che era
conosciuto e diffuso in molte regioni italiane, ed inoltre vi era una attiva Camera del Lavoro sindacalista
(cioè, aderente all'Unione Sindacale). I fascisti locali, pur divisi da gravi contrasti interni,
svolsero, qui come altrove, la medesima opera di
provocazione e di eliminazione fisica dei "sovversivi", finanziati e guidati da alcuni noti capitalisti della
zona. Fra gli atti criminali delle squadracce pisane basti ricordare la scorreria compiuta nella zona
di Cascina
(Pisa) il 22 luglio 1921, all'indomani cioè della disfatta subita dai loro camerati a Sarzana: per
solidarietà
con Amerigo Dumini e gli altri squadristi messi in rotta dalla popolazione della Lunigiana, infatti,
pretendevano che tutte le famiglie esponessero la bandiera a lutto. Di ritorno dalla loro scorreria,
le squadre fasciste si fermarono nella trattoria dell'anarchico Luigi
Benvenuti, provocarono i presenti ed infine li aggredirono; nella furibonda lotta che ne seguì
perirono
sia i due capi degli squadristi, sia il compagno Benvenuti. Impressionati dalla reazione dei presenti i
fascisti se ne andarono e tornarono la notte dello stesso giorno a bordo di un camion loro fornito - come
al solito - dai carabinieri. Dopo aver fra gli altri assassinato il figlio di un antifascista, trafiggendolo con
quattro pugnalate e scagliandolo poi in un torrente, si diressero verso la casa del Benvenuti, che
devastarono ed incendiarono, costringendo i due giovanissimi figli (orfani) del compagno Benvenuti a
gettarsi dalla finestra. Grande eco ebbe anche l'assassinio dell'anarchico Comasco Comaschi,
maestro d'arte e capo-officina
ebanista della Scuola d'Arte di Cascina (Pisa), il cui pensiero politico risentiva parimenti
dell'insegnamento umanitario di Leone Tolstoi e della propaganda anarchica di Pietro Gori. I fascisti non
gli potevano perdonare la sua difesa degli allievi di un corso della Scuola d'Arte, che loro volevano
aderissero forzatamente al loro partito. La morte, decretata dalle camicie nere locali, arrivò al
Comaschi
sotto forma di quattro pallottole che lo colpirono alle spalle nei pressi del Canale Emissario. Gli assassini
furono identificati ed arrestati, ma vennero naturalmente assolti dalla magistratura con la formula
significativa del "non luogo a procedere". Ricordiamo infine l'assassinio dell'anarchico Ugo Rindi,
tipografo e segretario della sezione pisana della
Federazione Italiana del Libro: prelevato a casa sua la notte dell'8 aprile 1924 da alcuni fascisti travestiti
da poliziotti, fu assassinato a pugnalate appena fuori casa, ed il suo corpo orrendamente mutilato.
Reggio Emilia
La presenza anarchica nella lotta antifascista a Reggio Emilia fu costituita
essenzialmente dall'azione di
alcuni singoli compagni; ciò è comprensibile se si considera l'assoluta prevalenza del
socialismo
riformista, che aveva in Camillo Prampolini un leader nazionale, oltre che locale. Fin dal primo
anteguerra gli anarchici, seppur poco numerosi, fecero sentire la loro voce antimilitarista,
anche se solo durante il "biennio rosso" (1919-20) si costituì il primo gruppo specificamente
libertario,
il gruppo "Spartaco", cui aderirono intellettuali di diversa estrazione (fra cui Camillo Berneri e
l'avvocato
Nobili) e molti militanti operai (fra cui Torquato Gobbi, Fortunato Sartori ed alcuni dipendenti delle
Officine Reggiane): la loro presenza sia con attività propagandistica sia in campo
anarco-sindacalista fu
molto efficace e attirò su di loro le pesanti attenzioni del nascente squadrismo fascista, che si
reggeva
soprattutto grazie ai finanziamenti dei grossi agrari della provincia reggiana. Per rendere il clima
instaurato dalle camicie nere in città, riportiamo dal quotidiano liberal-fascista Il
giornale di Reggio del 25-3-21 la seguente cronaca cittadina: "L'incidente più grave di
ieri (24 marzo,
giorno successivo all'attentato del Diana a Milano) fu provocato da un noto anarchico locale, certo
Torquato Gobbi, faccendiere assai attivo.... Questo Gobbi, dunque, ieri mentre già si era diffuso
il
raccapriccio per l'infame orrenda carneficina del Teatro Diana, a Milano, si aggirava ostentatamente
intorno ai nuclei di fascisti che nel centro si venivano riunendo, commentando l'avvenimento. Ad un
certo momento, interpellato da un fascista sulle ragioni del suo aggirarsi, rispose evasivamente e quindi,
invitato ad andarsene, rispose, quasi con dileggio e per canzonatura, che non poteva allontanarsi
rapidamente perché aveva male ai piedi. Il suo contegno aumentò l'irritazione del
fascista, che aggiunse
"E allora, se vuol star qui, gridi Viva l'Italia!". L'anarchico, che evidentemente era in vena di attaccar
brighe, o in cerca di facile martirio, rispose allora gridando "Viva l'Anarchia!". Com'era da immaginarsi
fu picchiato abbastanza energicamente... e ne avrà per alcuni giorni". A Cavriago (Reggio
E.) in occasione del I maggio 1921 ebbero luogo violenti scontri fra socialisti ed
anarchici da una parte e fascisti dall'altra: il bilancio fu di due anarchici morti (Primo Francescotti e
Andrea Barrilli) ed alcuni feriti. Anche in quell'occasione i fascisti erano calati dalle zone circostanti, e
pare che a pretesto dell'aggressione fascista fosse addotto il motivo che un compagno portava un nastro
rosso-nero all'occhiello. Un altro importante episodio di persecuzione contro gli anarchici ebbe
luogo nel febbraio del 1923,
allorché venne inventato un "complotto sovversivo", procedendo quindi a numerosi arresti, sia
fra i
comunisti sia fra gli anarchici (tra i quali Gobbi e Nobili). Anche questo colpo contribuì a
spingere molti
compagni sulle vie dell'esilio. Alcuni anarchici reggiani parteciparono alla rivoluzione spagnola
combattendo sul fronte antifascista,
e fra loro ricordiamo innanzitutto Camillo Berneri (vedi A 16 - "Un intellettuale anarchico"), e poi
Mario
Corghi, Lebo Piagnoli ed Emilio Zambonini. Quest'ultimo, dopo l'8 settembre 1943, tornò
nel reggiano, dove fu tra i promotori delle bande partigiane
della zona appenninica di Villa Minozzo. Catturato insieme al gruppo di don Pasquino Borghi,
Zambonini venne fucilato al poligono di tiro di Reggio il 29 gennaio 1944; prima di morire
lanciò un
grido: "Viva l'Anarchia!".
Brescia
di I. G.
A Brescia, città industriale con forte sezione U.S.I. (ricordiamo
che gli operai della fabbrica di fiammiferi
- ora non c'è più - erano iscritti quasi tutti all'U.S.I. ed avevano costantemente una
funzione pilota per
le maestranze degli altri stabilimenti) e folto gruppo di "Arditi del Popolo", il fascismo trovò
pane per
i suoi denti. Se fu dura la lotta ancor più dura fu la vendetta fascista e numerosi anarchici
subirono persecuzioni,
galera, confino, esilio. Fra essi ricordiamo Ettore Benometti, Angelo Alberti, Mario Conti (assassinato
dai fascisti), Leandro Sorio (che scontò 16 anni di galera per complicità nel fallito
attentato a Mussolini
di Lucetti), Ernesto Bonomini (che a Parigi uccise nel '24 il gerarca fascista Bonservizi). Alla
resistenza alcuni anarchici parteciparono nelle brigate G.L. e Garibaldi, altri individualmente.
Ricordiamo Bortolo Ballarini di Bienno, la cui casetta di montagna a quota 2000, due volte bruciata dai
nazifascisti, fu usata come base da una brigata mista G.L.-Garibaldi, ed Ettore Benometti, la cui bottega
di calzolaio era centro di ritrovo clandestino bresciano e di collegamento e smistamento di partigiani,
nonostante la stretta sorveglianza e le varie perquisizioni domiciliari cui era sottoposto.
Angelo Damonti Nato a Brescia nel 1886, A. D.
entrò giovanissimo nelle file del movimento anarchico milanese. Nel
1920 era a fianco di Errico Malatesta e della redazione del quotidiano Umanità
Nova. Da allora fino
al 1926 assunse insieme ai compagni Meniconi e Mantovani l'incarico del Comitato Pro Vittime
Politiche; durante quel periodo fu continuamente in viaggio per l'Italia a contattare i compagni
detenuti, a cercare i migliori avvocati, a raccogliere fondi, a litigare con direttori carcerari e con
poliziotti per far pervenire gli aiuti ai compagni detenuti. Per questa sua infaticabile attività
subì
numerosissimi fermi ed arresti da parte della polizia e persecuzioni da parte dei fascisti. Costretto ad
emigrare in Francia continuò l'attività politica con gli altri compagni italiani esiliati a
Parigi, finché,
espulso dalla Francia, riparò in Belgio (1934). Rientrato in Francia poco prima dell'inizio
dell'ultima
guerra, entrò nei ranghi dei "Franchi tiratori partigiani francesi" contro gli invasori nazisti;
divenne
uomo di fiducia del sindacato generale delle industrie elettriche (aderente alla C.G.T. clandestina), che
effettuava lavori lungo la linea ferroviaria. Con questa copertura potè continuare la sua
attività
antifascista, nascondendo in un treno speciale, destinato alla manutenzione, tutti quei lavoratori che
si rifiutavano di essere convogliati in Germania ed indirizzandoli invece verso le formazioni partigiane.
Per i suoi meriti ed il suo valore fu nominato generale del
Maquis francese. |
La strage di Torino
Il 18 dicembre 1922 Torino fu teatro di tremende violenze fasciste, che
ancor oggi sono ricordate come
"la strage di Torino". Molti operai furono aggrediti nelle loro case, bastonati di fronte ai loro familiari,
altri furono caricati sui camion e crivellati di colpi in riva al Po, nei prati della Barriera di Nizza, sulle
strade della collina. Fra gli undici "sovversivi" trucidati dalle camicie nere ricordiamo l'anarchico
Pietro Ferrero, che era stato
due anni prima uno dei promotori e degli organizzatori dell'occupazione delle fabbriche a Torino nella
sua qualità di segretario della FIOM torinese. Colpito selvaggiamente dagli squadristi fascisti,
Ferrero
fu legato per i piedi ad un camion e trascinato a lungo per i viali di Torino; il suo corpo ormai
irriconoscibile fu abbandonato in un viale non molto distante dalla Camera del Lavoro. Miglior
fortuna ebbe l'anarchico Probo Mari, attivista dell'U.S.I. torinese, portato in riva al Po dai fascisti
che gli legarono le mani dietro alla schiena e lo gettarono nel fiume. Mari riuscì però
a raggiungere la
riva ed a farsi ricoverare in ospedale.
Castelbolognese
Fin dai primi mesi del 1921 la Romagna fu utilizzata dalle camicie nere
come base di partenza per
imprese squadriste nelle zone circostanti; ma per lungo tempo non potè essere una base sicura
per i
fascisti, che ebbero da fare i conti con la tradizione di lotta che caratterizzava le popolazioni romagnole
fin dai tempi della Prima Internazionale. Repubblicani, socialisti ed anarchici costituivano tre grandi
forze
popolari che, seppur divise da polemiche estremamente vivaci, contribuivano a tener desto lo scontro
sociale. A Castelbolognese furono soprattutto i giovani anarchici del gruppo locale a rispondere alle
provocazioni fasciste, portate sia da camerati provenienti da altre città (soprattutto Bologna)
sia dai
pochi fascistelli locali. Quando, per esempio, gli anarchici attaccarono sulla via Emilia due grandi
bandiere rosso-nere con la scritta "Viva la Comune", subito i fascisti locali informarono quelli bolognesi
che arrivarono nel pomeriggio vestiti con le solite camicie nere, teschio sul petto e pugnali ai fianchi.
Ma
non fu loro possibile strappare le bandiere perché il coraggio dei giovani compagni li costrinse
ad una
precipitosa fuga via da Castelbolognese; purtroppo, comunque, quel 18 marzo del '21 fu l'ultimo in cui
fu possibile festeggiare l'anniversario della Comune. Ma non fu certo l'ultimo episodio di lotta
antifascista, chè anzi per conquistare Castelbolognese le
camicie nere dovettero di fatto attendere che i compagni più attivi fossero messi nella
condizione di non
poter più svolgere alcuna forma di attività politica. Nei mesi successivi si
intensificarono le provocazioni fasciste, che venivano compiute di preferenza
durante la notte; vennero bastonati molti notori nazifascisti, e la violenta furia delle camicie nere non
risparmiò neppure un fattore agricolo fascista, che salutò i camerati picchiatori, ma fu
ugualmente da
loro pestato perché aveva dimenticato a casa tessera e distintivo, e si ritrovò con un
braccio rotto. Se furono soprattutto i giovani anarchici (Nello Garavini, Antonio Patuelli e tanti
altri) a combattere
attivamente contro i fascisti, non bisogna dimenticare il contributo dato dai compagni più
anziani, alcuni
dei quali ricordavano bene i tempi da loro vissuti della Prima Internazionale. Il più anziano degli
anarchici di Castelbolognese era allora Raffaele Cavallazzi: subì più di cento arresti!
Sempre in prima
fila nelle lotte contro la polizia, veniva da questa perseguitato ed arrestato con qualsiasi pretesto, tanto
che l'urlo del delegato di P.S. "Arrestate Cavallazzi!" era diventato proverbiale; dopo qualche giorno,
comunque, doveva essere rilasciato e riprendeva così il suo posto di lotta continuando la
diffusione della
stampa anarchica. In occasione del 18 marzo, del I maggio e di altre ricorrenze di avvenimenti
rivoluzionari esponeva alla finestra due bandiere a brandelli, rosso-nere: sosteneva che erano ancora
più
gloriose, perché gli strappi erano dovuti a ferite di guerra. Quando i fascisti gli ebbero tagliato
per
spregio un pezzo di barba, Cavallazzi ebbe cura di lasciare sempre "dissestata" la barba, in modo da
poter ripetere mostrandola: "Tutti devono vedere e sapere come quei manigoldi dei fascisti maltrattano
i vecchi". Per questo suo atteggiamento ribelle, ereditato dai genitori anch'essi anarchici (i familiari si
chiamavano Ribelle, Arnaldo e Anarchina), Cavallazzi era odiato e scansato dai reazionari e dai bigotti
del paese, ma nemmeno le persecuzioni poliziesche lo poterono piegare, tanto che ancor oggi lo
ricordiamo come il simbolo della resistenza opposta dagli anarchici di Castelbolognese alle violenze
fasciste.
Piombino
a cura della F. A. Piombinese
Anarchici ed anarcosindacalisti vendono cara la pelle
Nei primi mesi del 1921, quando già in tutta la Toscana si
è scatenata l'offensiva fascista, Piombino non
conosce ancora la violenza squadrista e ancora per più di un anno resisterà al cerchio
nero che la stringe. A differenza di altri luoghi, a Piombino il fascismo nasce all'ombra delle
ciminiere con il denaro dei
"dirigenti" dell'ILVA e della Magona, le due fabbriche siderurgiche più importanti della
città, occupate
nel '20 dagli operai armati. Questi due colossi industriali non forniscono solo i finanziamenti, ma anche
i gregari per le azioni teppistiche trasformando in squadracce nere le guardie dei due stabilimenti, gente
abituata da sempre all'odio antioperaio. Tuttavia questi primi fenomeni dell'ondata fascista non trovano
lo spazio per ingrandirsi e attecchire perché circoscritti da una classe lavoratrice estremamente
combattiva e rivoluzionaria, fortemente influenzata sia dagli anarchici, sia dagli anarco-sindacalisti della
locale Camera del Lavoro federata all'U.S.I. Per avere un'idea di questa influenza basta guardare
i risultati delle elezioni politiche del '19, con 3483
schede bianche contro 1487 voti socialisti, su un totale di 6098 votanti ed alla composizione delle
Commissioni Interne dell'ILVA e della Magona con 15 delegati anarco-sindacalisti dell'U.S.I. contro
i
cinque delegati socialisti e comunisti della FIOM. È così che alla fatidica "marcia
su Roma" dell'ottobre del '22, il fascismo Piombinese non arriva
nemmeno a cento teppisti. Prima del '22 i fascisti locali non osano tenere i loro raduni nella città;
anzi
ogni volta che lo squadrismo pisano, senese o fiorentino compiva qualche "impresa" essi dovevano
subire l'ira degli anarchici e degli Arditi del Popolo. Il lento affermarsi del fascismo a Piombino in
certa misura è da attribuirsi anche all'azione sprovveduta
della CGL e del Partito Socialista che, assieme agli esponenti dei vari partiti, degli industriali e dei fasci
di combattimento, forma un Comitato Cittadino per pacificare la città e risolvere la crisi
dell'industria
siderurgica che minacciava di chiudere, licenziando tutte le maestranze. Questo riconoscimento
ufficiale delle forze socialiste verso il nascente fascismo è l'equivalente locale
della stessa politica che a livello nazionale porterà al Patto di Pacificazione fra fascisti e
socialisti. Sarà
proprio il Comitato Cittadino che, purgato dagli elementi socialisti, prenderà in mano
l'amministrazione
di Piombino dopo la conquista della città. Ovviamente a questo Comitato Cittadino sia gli
anarchici che la Camera del Lavoro federata all'U.S.I.
rifiutano di partecipare, ribadendo che non è possibile (...) sia con i fasci di combattimento, ma
che anzi
è dovere rivoluzionario scendere nelle piazze e combattere per soffocare la violenza
fascista. Furono infatti proprio gli anarchici e gli anarco-sindacalisti i maggiori sostenitori e attivisti
degli Arditi
del Popolo. Per iniziativa del deputato socialista Giuseppe Mingrino si era costituito a Piombino il 144°
battaglione degli Arditi del Popolo, cui aderivano gli anarchici e l'ala comunista del Partito Socialista,
che dopo poco esce dal partito per formare il Partito Comunista. Presto però i comunisti
usciranno da
queste formazioni operaie di difesa ed anzi una circolare dell'esecutivo del P.C. diffida tutti i militanti
dall'entrare negli Arditi o anche solo di avere contatti con loro. Dopo questa defezione, gli Arditi del
Popolo a Piombino saranno costituiti quasi esclusivamente da elementi anarchici e anarco-sindacalisti
e saranno loro a sostenere le lotte dure e spesso sanguinose che impediranno fino alla metà del
'22 ai
fascisti di entrare a Piombino. L'attentato al socialista Mingrino, il 19 luglio 1921, fa scattare per
la prima volta gli Arditi. Essi
attaccano il "covo" dei fascisti piombinesi, ma lo trovano deserto, quindi casa per casa e nei luoghi di
lavoro catturano i fascisti e costringono un loro capo, il direttore del Cantiere navale, a firmare un atto
di sottomissione. Le Guardie Regie corse in aiuto dei fascisti vengono sopraffatte e
disarmate. Solo dopo alcuni giorni la reazione degli Arditi termina e le forze dell'ordine riescono
a riprendere il
controllo della città. Intanto il 2 agosto socialisti e fascisti firmano a Roma il Patto di
Pacificazione. Gli Arditi affiggono a
Piombino un manifesto: "Non vi può essere nessuna possibilità di pace, in questo
momento, tra il
proletariato piombinese e i suoi sfruttatori... gli Arditi del Popolo resteranno vigili ed armati contro gli
sgherri neri". Il 3 settembre l'anarchico Giuseppe Morelli sorpreso ad affiggere manifesti contro il
Patto di
Pacificazione reagisce con la pistola alle guardie regie ed ai fascisti, rimanendo ucciso nel
conflitto. Durante la notte, prevedendo la reazione degli anarchici, la Polizia irrompe nelle abitazioni
e nei luoghi
di lavoro (durante i turni notturni) arrestando oltre 200 compagni. Privati gli Arditi e gli anarchici dei
loro militanti politici e sindacali più attivi, i fascisti capirono che quello era il momento per
sferrare il loro
attacco. Prima incendiarono la sezione socialista, poi la Camera Confederale e la tipografia "la Fiamma",
e quindi si diressero verso la Camera del Lavoro sindacale, ma si scontrarono con una pattuglia di
giovani anarchici, fra cui: Landi, Lunghi, Venturini, Marchionneschi, Panzavolta, Franci, Messena e
Lucarelli. Giungevano nel frattempo gruppi di operai e la polizia fu costretta ad arrestare i fascisti per
salvarli dalla sana ira popolare. Racconta Armando Borghi "Una conferenza la tenni a Piombino,
presente il deputato comunista
Misiano. I fascisti lo avevano scacciato dal Parlamento, minacciandolo di morte, e lui si era rifugiato
sotto la protezione degli anarchici, nella cittadina toscana, tenuta ancora dai nostri alla fine del
1921". I fascisti tentarono la conquista di Piombino il 25 aprile del '22, ma giunti alla periferia della
città,
trovarono gli anarchici e gli Arditi che rapidamente misero in fuga le camicie nere. Frattanto, dopo
la riapertura degli stabilimenti siderurgici, manovrando abilmente con le assunzioni
discriminate per rendere più debole la compattezza operaia (Piombino anche allora era una
città-fabbrica)
le direzioni aziendali preparavano il colpo definitivo, essendosi anche assicurata la totale collaborazione
del Comitato Cittadino. Un'altra vittima fu il giovane anarchico Landi Landino (21 maggio 1922),
che i fascisti tenevano presente
come il principale artefice delle loro "ritirate". Il 12 giugno (dopo un incidente appositamente creato
dove rimaneva ucciso uno studente fascista e per
i funerali del quale giunsero in città i fascisti di tutta la zona) gli squadristi e le guardie regie
inviate da
Pisa a "ristabilire l'ordine" si impadronivano della città. Dapprima occupano il Comune e
la Pretura, poi i fascisti assaltano e distruggono le sedi del Partito
Socialista e della CGL per tutta la notte e tutto il giorno dopo, con centinaia di assalti, le squadracce
tentano la conquista della Camera Sindacale dell'U.S.I. e della tipografia del giornale anarchico "Il
martello", sempre respinti. Solo dopo un giorno e mezzo di combattimento, fascisti e guardie legge
riescono a piegare anche gli anarchici. Il fascismo era passato anche a Piombino ed i compagni
più in vista trovarono scampo nell'espatrio; altri
dovettero subire persecuzioni e angherie durante tutto il regime fascista. Prendiamo ad esempio le
vicende di due compagni: Egidio Fossi e Adriano Vanni. Egidio Fossi, condannato nel '20 dalle
Assise di Pisa a 12 anni e 6 mesi, 2 anni dei quali trascorsi in
segregazione a Portolongone, gli altri in varie galere. Venne liberato per amnistia nel mese di ottobre
1925, fu poi perseguitato ripetutamente, ammonito e minacciato dai fascisti, finché
espatriò
clandestinamente in Francia. Anche all'estero non sfuggì alla persecuzione e cominciò
così la vita
randagia del fuoriuscito, braccato anche dalla polizia francese. Alla notizia che in Spagna il popolo era
insorto contro il tentativo nazi-fascista, non mise tempo in mezzo e raggiunse nell'agosto 1936 la
colonna italiana Francisco Ascaso, partecipando a tutte le azioni sul fronte Aragonese di Huesca,
rimanendo a combattere in Spagna fino al marzo del 1939; fu poi internato nel campo di concentramento
di Gurs e mandato nelle compagnie di lavoro. Nel 1940 fu fatto prigioniero dai tedeschi, venne quindi
tradotto in Italia e assegnato al confino di Ventotene per 5 anni. Fu liberato nel settembre 1943;
potè
rientrare a Piombino nel 1945, dove riprese il suo posto nelle file anarchiche e come operaio
all'Italsider. Adriano Vanni, condannato insieme a Egidio Fossi e scarcerato nello stesso periodo
fu subito bastonato
a sangue dai fascisti; dovette riparare all'estero, ma anche qui ebbe vita difficile. Rientrato in Italia dopo
qualche anno, cominciarono di nuovo le persecuzioni del regime e le bastonature dei delinquenti in
camicia nera. Partecipò attivamente alla sommossa della popolazione contro i nazi-fascisti del
10
settembre 1943. La lotta partigiana lo vide fra i più validi animatori della resistenza e assieme
ad altri
libertari operò in formazioni che agivano nelle zone all'interno della Maremma; fece parte anche
del
nucleo periferico del CLN. A liberazione avvenuta, nonostante si ritrovasse faccia a faccia con molti dei
suoi aguzzini del ventennio, ebbe la forza morale della non vendetta. Altri compagni dovettero
prendere la via del fuoriuscitismo da Piombino, come Franci Dario, Bacconi,
(dirigente della U.S.I.), Agnarelli Smeraldo, e altri ancora. A Torino si trasferirono compagni come
Guerrieri Settimo, Baroni Ilio (caduto nelle formazioni GAP), Bellini e Cafiero. I compagni che
riuscirono a rimanere a Piombino non rimasero immuni da ammonizioni e minacce e, quando venivano
personalità del regime, erano prelevati dalle loro abitazioni e tenuti in carcere per 3 o 4
giorni.
L'anarchico Emilio Marzani, di San Benedetto. Fece parte alla fine della
prima guerra mondiale del
gruppo "I Nichilisti", che operava nel mantovano. Fra le azioni di questo gruppo ricordiamo l'assalto
del deposito militare effettuato alla fine del '19, con la partecipazione della popolazione di San
Benedetto. Nel 1920 fu accusato dell'omicidio di due fascisti e nel '21 del ferimento di due carabinieri.
Costretto alla clandestinità, fu scoperto dai carabinieri, che presero d'assalto il suo rifugio e che
lo
ferirono mentre nuovamente riusciva a scappare. Rifugiatosi in Spagna e poi in Francia ebbe modo
di conoscere le galere straniere. Nel 1942 fu arrestato dai tedeschi e destinato a morire in un lager:
lo salvarono... i fascisti nostrani che ne ottennero l'estradizione e lo confinarono nell'isola di
Ventotene. Tornato nel mantovano dopo l'8 settembre 1943, non partecipò alla lotta armata
della
resistenza perché, dice, convinto che inutile era ormai lottare contro i nazifascisti già
sbaragliati dagli
eserciti alleati. |
Trieste ed Istria
di Clara
Ecco un quadro non completo, anche se documentato, del contributo
degli anarchici giuliani
all'opposizione al fascismo. Nel '19 i fascisti triestini avevano l'abitudine di radunarsi al Caffè
degli Specchi. Erano circa una trentina
e reclutavano i loro componenti più attivi nelle spedizioni punitive fra il sottoproletariato,
offrendo come
remunerazione denaro e cocaina. L'elemento trainante di questa banda di camicie nere era Giunta
che, dopo il suo fallimento come
avvocato a Firenze, si era installato a Trieste dove aveva assunto la carica di segretario del fascio. Da
questo primo gradino poi continuò la sua brillante carriera di gerarca (ed è morto pochi
anni fa, di morte
naturale!). Sotto il suo incitamento nel 1920 venne bruciato l'Hotel Balkan (Narodni Dom) sede
delle
organizzazioni slovene. Seguirono poi l'incendio de "Il Lavoratore", organo dei comunisti locali, e
quello
della Camera del Lavoro. In quest'ultima occasione il proletariato triestino rispose con l'incendio
del cantiere San Marco, la più
grande industria della città, al quale partecipò anche la compagna anarchica Maria
Simonetti. Assieme
ad altri quindici operai, subì un processo che si concluse con l'assoluzione di tutti e fu un ottimo
contributo alla propaganda antifascista. L'attività del Gruppo Anarchico Germinal era
ripresa a Trieste subito dopo la fine della prima guerra
mondiale. Essa si concretizzava soprattutto in due settori. Uno era la propaganda (attraverso
conferenze,
dibattiti e per mezzo del giornale "Germinal") e l'altro l'anarcosindacalismo. I compagni, essendo tutti
lavoratori, partecipavano alle assemblee delle leghe, dove venivano discussi i più importanti
problemi
sindacali. Spesso in tali occasioni essi avevano una funzione determinante, godevano dell'appoggio di
molti simpatizzanti e spingevano alla radicalizzazione delle lotte attraverso l'uso dello sciopero
generale. Ben presto però, accanto a queste due attività se ne affiancò
un'altra, cioè l'azione diretta contro gli
squadristi e l'insorgere del fascismo. Una delle prime conseguenze fu l'ordine della polizia di
sgomberare dalla loro sede per motivi di ordine
pubblico, avendo questa più volte attirato l'attenzione delle squadre, con terrore degli
inquilini. Ma se la chiusura del circolo limitò l'attività culturale, la propaganda e
l'agitazione continuavano sul
luogo di lavoro. Il compagno Volpin apparteneva al Consiglio Direttivo dei fornai, Cartafina a quello
dei poligrafici, Frausin di Muggia e Radich di Monfalcone a quello dei metallurgici, Umberto Tommasini
a quello dei metallurgici edili. I compagni, sfrattati, dovettero perciò limitare i loro incontri
e si trovarono al Caffè "Union", una
cooperativa socialista. Ben presto il ritrovo venne individuato. I fascisti nell'agosto del 1922 tentarono
di eliminarli in blocco tirando due bombe nel caffè. Ma le bombe non esplosero. Intervenne la
polizia che
chiuse il locale per rappresaglia per la durata di un mese. Ormai la vita per gli oppositori del fascismo
fu resa impossibile. Gli anarchici, in particolare, vennero braccati ovunque. Una situazione non
migliore c'era anche a Monfalcone dove gli anarchici erano attivissimi soprattutto
nel cantiere. Nel marzo 1919 il compagno Frausin fu aggredito dai fascisti. Creduto morto lo
abbandonarono in terra; ricoverato all'ospedale di Monfalcone, i fascisti, accortisi dell'errore, tentarono
di raprirlo per completare l'opera omicida, ma non vi riuscirono e il compagno fu trasferito a Trieste per
sicurezza. A Muggia, comune di Trieste, una squadra fascista nel 1920 tentò di invadere
la casa del compagno
Koenig, ma fu respinta a colpi di fucile da caccia. Sempre nel 1920, i fascisti tentarono in gran
numero di invadere la Casa del Popolo di Trieste. Il
compagno Pietro Cociancig, assieme ad altri, prese parte alla difesa e gli assalitori dovettero fuggire
anche questa volta. Cociancich di Monfalcone si occupava tra l'altro di racimolare armi per la difesa,
armi che poi venivano smistate in vari nascondigli in tutta la città. In tal modo si aveva in ogni
occasione
dei piccoli arsenali vicini che permettevano di agire con estrema rapidità. Nel luglio 1921
ad esempio tre anarchici, un comunista e un repubblicano gettarono alcune bombe su
una squadra di fascisti di ritorno da una spedizione punitiva nel quartiere popolare di San Giacomo.
Ventotto fascisti feriti. Nessuno venne riconosciuto né fermato. Queste però erano
iniziative individuali
e, come gruppo, i compagni si dedicavano a rendere più dura l'opposizione di massa durante
gli scioperi
generali. Essi si ribellavano contro i crumiri e contro i commercianti che, nonostante la proclamazione
della agitazione, continuavano a tenere aperto. Nonostante l'opposizione armata e di massa, il
fascismo riuscì ben presto a controllare Trieste. L'ultima
azione organizzata fu quella dello sciopero di agosto, che però non riuscì: i negozi
rimasero aperti, ci
furono sporadici episodi di lotta ma nulla di decisivo. Da allora non ci furono più né
cortei né proteste
perché la gente aveva ormai timore di affrontare il fascismo in campo aperto. Nelle fabbriche
si reagì più a lungo per mezzo di scioperi interni, che pur avendo carattere economico
erano a sfondo antifascista. Gli ultimi scioperi a Trieste, prima della promulgazione delle leggi
eccezionali, vennero effettuati nella
Fabbrica Macchine Sant'Andrea nel marzo 1926. Nella fabbrica esisteva un'efficiente Commissione
Interna il cui segretario era l'anarchico Mario Del Bel che venne, per la sua attività, sospeso dal
lavoro.
Gli operai fecero tre giorni di sciopero di protesta e il Del Bel fu riammesso al lavoro. Si
può dire che gli anarchici giuliani reagirono con tutte le loro forze al fascismo. Dopo i
comunisti,
ebbero il maggior numero di incarcerati, confinati, esiliati, e se si fanno le dovute proporzioni numeriche
furono i più colpiti. Non mancavano nemmeno azioni di affermazione di principio, come
affissioni di
manifesti in occasione del I Maggio ed esposizione di bandiere per la ricorrenza della rivoluzione
russa. Nel 1926, in occasione dell'anniversario della marcia su Roma, venne attuato un ulteriore
fermo di
polizia, per motivi di pubblica sicurezza. Vennero arrestati dodici fra socialisti, comunisti e repubblicani
e tre anarchici (Umberto Tommasini, Cartafina e Negri). Nel frattempo, in seguito all'attentato di
Zamboni a Mussolini, entrarono in vigore le leggi eccezionali e Gunsher e Umberto Tommasini furono
tra i primi anarchici confinati. Venne inflitta l'ammonizione a Rodolfo Defilippi, Giovanni Riboli, Nina
Montanari, Mery Pahor, Lucia Minor. Per sopravvivere, ad essi e ad altri anarchici non restava che la
via dell'esilio. L'esilio non significò abbandono della lotta; anzi uno dei motivi per cui i
compagni lasciarono l'Italia fu
proprio l'impossibilità, per gli anarchici notori, di continuare la battaglia contro il fascismo in
"patria". Ad esempio, l'anarchico giuliano Cociancich lanciò una bomba ad Anbagne
(Marsiglia) contro la
cosiddetta Casa degli Italiani, noto covo di fascisti e di spioni. Arrestato, fu condannato a cinque anni;
uscito di galera andò in Spagna a combattere il fascismo. Tornato a Bruxelles, fu arrestato ed
estradato
in Italia. Morì nel '44, nel carcere di Castelfranco Emilia, durante un bombardamento
aereo. La maggior parte degli anarchici triestini e giuliani esuli partecipò alla rivoluzione
spagnola, nella
formazione italiana della colonna Ascaso (C.N.T.-F.A.I.). Vi presero parte: Luigi Krizaj di Pola, caduto
ad Almudevar nel dicembre del 1936; Giuseppe Pesel di Rovigno, caduto a Carascal (Huesca), nell'aprile
1937; Rodolfo Gunsher di Trieste, morto nel maggio 1938 all'ospedale di Barcellona a seguito di una
malattia contratta al fronte; Egidio Bernardini di Trieste, ferito a Carascal nell'aprile 1937; ed inoltre
Nicola Turcinovich di Rovigno e Umberto Tommasini, Antonio Mesghez, Guglielmo Scheffer, Lina
Simonetti Alpinolo Bucciarelli e Lucia Minor di Trieste. Molti compagni, sparsi per l'Europa dopo
la guerra di Spagna, vennero estradati in Italia e si ritrovarono
al confino. Nel '43 si ritrovarono a Ventotene Tommasini, Bucciarelli, la Minor, Turcinovich e Giovanni
Bidoli; inoltre si trovarono alle Tremiti Gabriella Zetko e Ludovico Blokar. A Trieste c'era frattanto
stata un'altra vittima del fascismo, il compagno Vittorio Puffich. Nel '38 i
rilevatori dell'ACEGAT addetti all'acqua erano in agitazione, Puffich venne individuato come promotore
e licenziato. Impossibilitato a trovare altro lavoro e a mantenere la moglie e le due figlie malate, si tolse
la vita. C'erano però nella Venezia Giulia i primi sintomi di ripresa. Non si crearono
formazioni partigiane
anarchiche indipendenti, ma dei compagni liberati dal confino nel 1943, alcuni rimpatriati e quelli che
erano rimasti a Trieste, collaborarono alle formazioni comuniste. Il compagno Bidoli teneva il
collegamento con le stesse. Nel 1944 venne arrestato e portato in Germania nei campi di
concentramento
e non tornò più. Dai lager tedeschi non tornò più nemmeno il compagno
Carlo Benussi. Il compagno
Defilippi, che era grafico, procurava timbri per compilare documenti. Le case di molti altri erano punti
di riferimento per la raccolta di viveri, indumenti e armi, e di rifugio per partigiani in pericolo. Il
compagno Turcinovich, lasciato il confino alla caduta del fascismo, rientrò a Rovigno, suo paese
natale
e partecipò con le formazioni partigiane slovene alla cacciata dei tedeschi. In seguito ad un
feroce
rastrellamento dovette fuggire a Genova, dove collaborò a gruppi di combattimento locali.
Finita la
guerra rientrò a Rovigno e lì venne riconosciuto dagli Jugoslavi quale militante
antifascista attivo, ma
ben presto entrò in dissidio con i bolscevichi. Un amico d'infanzia, che faceva parte della guardia
popolare, lo avvertì che era in pericolo e lo consigliò di andarsene. Turcinovich
perciò, suo malgrado,
ritornò nella città ligure. Nel maggio '45 a Trieste cominciarono a ritornare gli
ultimi confinati, mentre era ancora in atto
l'occupazione slava. Tornarono Tommasini, torna Bruch dal confino in Calabria e si ricostituisce il
Gruppo Germinal. Il primo lavoro fu di chiarificazione e si parlò soprattutto della
Spagna. Molti
compagni, che fino a quel momento avevano collaborato coi comunisti, abbandonarono tale
collegamento e furono attivi solo nel gruppo. Con l'occupazione americana riprese il lavoro di
propaganda con l'uscita quindicinale del "Germinal", con conferenze nelle varie località
confinanti, ma
soprattutto con l'attività sul luogo di produzione. Nei sindacati unici, Volpin riprese il suo
lavoro fra i
panettieri, Cartafina nei cantieri e Umberto Tommasini, come metallurgico, ottenne 1100 voti per
presentarsi come delegato al Congresso sindacale europeo, che si tenne a Trieste nel 1947.
Ravenna
di P. O.
Tutti gli anarchici di Ravenna furono in ogni momento in prima fila nella
lotta contro il fascismo. Durante la resistenza vi furono numerosi anarchici nella 28a
Brigata Garibaldi. Fra i più attivi ricordiamo: Bartolazzi Primo, membro del CLN Prov.,
Merli Ulisse del C. di Liberazione, Bosi Digione, Melandri
Giovanni coi figli, Francia, Minghelli, Gatta, Minardi, Zauli, Stinchi, Guberti, Rambaldi,
Galvani. Ricordiamo in modo particolare, a mò d'esempio, nella storia dell'antifascismo
anarchico ravennate,
Bartolini, Orselli, Spadoni, Rossi. Guglielmo Bartolini, fin dalla prima giovinezza attivo militante
anarchico, condannato a morte per
sabotaggio durante la guerra '15-'18 (la pena commutata in ergastolo), uscì dal carcere dopo
l'8
settembre 1943; ritornato a Ravenna, partecipò alla Resistenza e fu tra i più attivi.
Catturato durante un
rastrellamento in montagna dai nazi-fascisti, di nuovo condannato a morte, riuscì con uno
stratagemma
e con l'aiuto di compagni, ad evadere e continuò la sua attività di partigiano fino alla
Liberazione. Pasquale Orselli, il più giovane dei compagni del ravennate, di famiglia
anarchica, fin dalla più tenera età
conobbe le angherie fasciste. Durante la liberazione le case degli Orselli furono rifugio dei G.A.P. che
operavano nella zona. Pasquale Orselli si distinse in varie azioni di combattimento e fu al comando della
prima pattuglia partigiana che entrò in Ravenna. Angelo Spadoni, generoso, forte come un
toro, era un operaio agricolo, privo di cultura ma
intelligentissimo. Stimato da tutti per la sua generosità ed intelligenza, fu arrestato diverse volte
durante
il fosco ventennio e scontò 3 anni di prigione a Volterra per aver picchiato dei fascisti che
volevano dare
dell'olio di ricino a dei vecchi operai. Ludovico Rossi, uno dei primi antifascisti di Ravenna
(comunista) dovette, con la moglie ed un figlio
in tenera età, emigrare in Francia, dove divenne e si mantenne anarchico fino alla morte.
Volontario fra
i primi in Spagna, assieme alla moglie ed al figlio e malgrado una deformazione fisica, fu un invalido e
stimato combattente. Dopo la sconfitta si rifugiò in Francia, dove fu messo in campo di
concentramento;
tuttavia evase, si ricongiunse con la famiglia, e con documenti falsi rimase in Francia fino alla
liberazione.
La Carnia
di Tullio Toniutti
In Carnia, fin dal primo sorgere del fascismo negli anni 1920-22, ci fu
resistenza da parte di tutti i
movimenti politici di sinistra contro le squadre d'azione. Il comune più combattivo fu quello
di Prato Carnico e a lungo i fascisti non osarono penetrare all'interno
della Val Pesarina. Quando ad esempio cercarono di bruciare la Casa del Popolo (sede di tutte le
associazioni, partiti popolari e del Gruppo Anarchico) si scontrarono con l'opposizione armata di tutti
gli antifascisti, in prima linea i compagni anarchici, tanto che alla fine dovettero rinunciare, constatando
che la loro spedizione "costava" troppo. A causa dell'accanita lotta antifascista il comune di Prato
Carnico fu denominato dalla questura di Udine il "Comune Rosso". Nel luglio 1933 morì
a Parigi un anarchico. La sua compagna lo fece portare al suo paese natio, cioè a
Pesaris, frazione di Prato Carnico. Quando arrivò la salma i compagni anarchici e antifascisti
organizzarono un corteo funebre con la fanfare in testa. La mesta cerimonia, svolta in forma civile, ebbe
il grande concorso di tutto il popolo e assunse il carattere di dimostrazione antifascista. Il giorno dopo
gli sgherri procedettero all'arresto di tre anarchici e di due comunisti che, tradotti alle carceri di Udine,
furono poi processati. Gli anarchici vennero condannati a cinque anni di confino; un comunista venne
condannato anche lui a cinque anni e l'altro ad un anno da scontarsi tutti all'isola di Ponza. Degli
anarchici, Guido Cimador, avendo la cittadinanza statunitense, sotto la pressione delle autorità
americane
fu rilasciato dopo due mesi. Italo Cristofali e Luigi D'Agaro invece scontarono tutta la pena. Anzi il
compagno D'Agaro poco dopo fu raggiunto al confino dalla moglie e da due figli in tenera età,
uno dei
quali morì a Ponza. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, ben pochi compagni erano
rimasti in Carnia, a causa della
forte emigrazione, soprattutto verso le due Americhe, e dell'opera di vent'anni di dittatura fascista.
Ciononostante, alla caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, i pochi rimasti si organizzarono per la lotta
armata contro il nazifascismo. Sin dall'8 settembre si costituirono dei piccoli reparti locali e si diede
ospitalità ai soldati della Divisione
Julia che, per evitare la deportazione in Germania e per sottrarsi al reclutamento, salivano le montagne
armati. I molti anarchici di Pradumblis approfittarono del momento di disorganizzazione generale per
recuperare le armi delle caserme, dislocate nelle zone alpine, e per nasconderle. Guidava le operazioni
l'operaio anarchico Cristofali Italo (detto Aso). Subito dopo l'8 settembre 1943 i partigiani dell'Alta
Carnia si misero in contatto con gli antifascisti
friulani per i primi rifornimenti di armi automatiche e per tutti i problemi logistici. In seguito a questi
primi collegamenti dell'inverno '43-'44, ai primi di aprile si poté dare l'assalto ad una e poi a tutte
le
stazioni e caserme dei Carabinieri e della Guardia di Finanza dell'Alta Carnia e delle zone limitrofe
dell'Alto Cadore. Lo scopo era di rifornire di armi, divise, materiale radiotelegrafico tutti compagni che
man mano aderivano al fronte di Liberazione armata che lentamente si andava estendendo in tutta la
regione. Gli anarchici ed i simpatizzanti, non potendo formare bande autonome, dato l'esiguo
numero, si
inserirono nei quadri della Divisione Garibaldi-Friuli in cui diedero prova di grande combattività.
Gli
anarchici ebbero anche posti di responsabilità. Va ricordato Petris di Pradumblis che ebbe il
compito di
fornire tutto il vettovagliamento alla Brigata Carnica, facente parte della Divisione
Garibaldi-Friuli. Fra i primi, anzi il primissimo fra gli organizzatori fu proprio il nostro compagno
Aso che, sia come
combattente sia come comandante, collaborò al disarmo di tutte le caserme dell'Alta Carnia e
Cadore
e che morì nell'espugnare la caserma della gendarmeria tedesca Sappada nel luglio 1944,
assaltata per
vendicare un compagno garibaldino ucciso in modo atroce. Le informazioni passate da un venduto ai
tedeschi davano la gendarmeria per semincustodita. Invece un reticolato alto un metro e mezzo
circondava l'edificio e tutte le finestre erano murate ed in esse vi erano solo piccole feritoie. Aso, che
guidava l'azione al comando di una quarantina di garibaldini, riuscì ad aprire un varco nel
reticolato e
si lanciò verso la porta, sotto il fuoco tedesco. Raggiuntala, spaccò il vetro con la canna
del mitra ma
in quel momento fu raggiunto da una scarica di pistol-machine e cadde morto. Fu
anche con il contributo dei nostri compagni che si costituì la Zona Libera in Carnia che
durò dal luglio
all'ottobre 1944. In questo territorio liberato, la vita di 80.000 persone era organizzata in forme simili
all'autogoverno, e alle necessità dello scontro armato provvedeva direttamente la popolazione.
In ogni
vallata si formarono dei comitati di liberazione per risolvere i problemi locali, mentre il "potere" centrale
dava solo indicazioni sulle questioni generali. Finita la guerra, purtroppo i nostri sacrifici e le nostre
speranze restarono deluse a causa della faziosità
di tutte le correnti in lotta e particolarmente del PCI.
Pistoia
Gli anarchici e i militanti del Partito Comunista Libertario (nato a cavallo
fra il '39 e il '40) costituirono
a Pistoia le prime formazioni partigiane, che dettero inizio alla lotta armata contro il nazifascismo. Tra
queste, la formazione che, con la morte del suo comandante il 29-7-1944, prenderà il nome di
"Silvano
Fedi". Gli anarchici avevano a Pistoia un retroterra storico di esperienze e di lotte. Durante il
biennio rosso
1919-20 il movimento, superata la tradizionale base artigianale, investe nuovi strati sociali. La Unione
Sindacale Italiana è presente un po' ovunque ed è particolarmente forte fra i lavoratori
del legno e i
tipografi. La sua incisività va oltre la sua forza reale: essa costituisce un punto di riferimento
per tutto
l'arco rivoluzionario, ha una funzione di stimolo e di catalizzatore all'interno del movimento operaio che
molte volte mette in crisi l'egemonia della CGL. Su una linea di azione diretta si trova anche il Sindacato
Ferrovieri, il cui segretario è l'anarchico Egisto Gori, segretario anche della locale U.S.I. Il
7 luglio 1920, i ferrovieri pistoiesi si rifiutano di far partire un vagone diretto in Polonia, per
solidarietà
con la Russia dei Soviet. Dove è presente una forte componente anarcosindacalista, la lotta si
radicalizza.
Durante la prima fase della lotta, che vedeva gli operai di tutta Italia impegnati nell'ostruzionismo, il
prefetto di Firenze, Crivellaro, informa il Ministro degli Interni con un telegramma delle ore 19,40 del
25 agosto che a Pistoia: "gli operai che fanno capo all'U.S.I. hanno talmente ridotto la produzione che
industriali hanno dichiarato che ove perdurasse stato di cose sarebbero costretti ridurre paghe
base". Anche a Pistoia le violenze fasciste colpiscono duramente il proletariato e le sue
organizzazioni. Con
l'avvento del fascismo molti militanti vengono duramente colpiti con la galera e con il confino. Una
testimonianza efficace di tale clima ci è fornita dal figlio dell'anarchico Egisto Gori: "...
inaspettatamente
il babbo, gli zii, li venivano a prendere e poi per mesi si stava ad aspettare... il babbo fu il primo
ferroviere del dipartimento di Firenze ad essere licenziato per motivi politici nel giugno del '22... il 21
luglio '22 passò un camion in via Curtatone e Montanara, videro mio zio che lavorava da
falegname, lo
scambiarono per mio padre e lo ammazzarono...". Il movimento è costretto a un lavoro
sotterraneo di propaganda e di contatti. È un lavoro che darà i suoi
frutti nel 1936 quando un gruppo di giovani studenti e operai entrerà nel movimento anarchico.
Nel
giugno dello stesso anno, 3 compagni partono per la Spagna in appoggio alla rivoluzione, ma vengono
fermati alla frontiera italo-francese nei pressi di Clavier (Torino). Il 27 febbraio 1937 i compagni
Archimede Peruzzi e Enzo Gozzoli vengono condannati a 5 anni di confino. Il 25 gennaio 1940,
4 giovani anarchici, fra i quali Silvano Fedi, compaiono davanti al Tribunale Speciale
per appartenenza ad "associazione antinazionale e propaganda". Gli imputati vengono assolti per
insufficienza di prove, ma il movimento subisce un nuovo giro di vite. L'agitazione e la propaganda
lasciano ora il posto alla preparazione della lotta armata. Le prime formazioni che a Pistoia
passarono alla lotta armata (1943) furono costituite da militanti
anarchici e dal Partito Comunista Libertario. La Resistenza pistoiese interessa la XI Zona, comandante
Manrico Ducceschi (Pippo) e la XII Zona, comandante Silvano Fedi. In entrambe le Zone la
presenza anarchica e libertaria è preponderante. Nel luglio-agosto 1943 a Piuvica,
nella piana di Pistoia, gli anarchici che operano con Silvano Fedi non si limitano alla lotta armata, e si
preoccupano di organizzare la popolazione per superare i disagi del momento. Convincono i contadini
a battere il grano che essi avrebbero lasciato marcire per mancanza di mercato, impiantano un forno
dove
lavorano fissi due uomini e il pane viene distribuito gratuitamente alla popolazione del luogo, alla quale
si sono aggiunti gli sfollati di Montagnana e di Momigno. In seguito alla efficace organizzazione,
le formazioni anarchiche libertarie aiutano le formazioni di
diverso colore politico con rifornimenti di formaggio, riso, zucchero, farina, scarpe e sigarette, e
vengono date anche 30.000 lire al C.L.N. locale per l'acquisto di un ciclostile. Inoltre la formazione
"Silvano Fedi", il cui comandante fu delegato del gruppo anarchico di Pistoia nelle
riunioni tenute con i compagni fiorentini, sostenne il giornale Umanità-Nova,
stampato clandestinamente
a Firenze, con 5.000 lire settimanali. Fu la prima formazione partigiana, guidata dall'anarchico
Artese Benesperi, a entrare militarmente a
Pistoia. Alle cinque di mattina la bandiera rosso e nera degli anarchici sventola in cima al campanile in
piazza del Duomo: alle 10 è sostituita dal tricolore, simbolo dell'ordine repubblicano tuttora
vigente,
codice Rocco, Concordato e sfruttamento compresi.
Silvano Fedi. Giovane compagno, animatore della Resistenza
nel pistoiese, Fedi portò a termine con
gli altri partigiani alcune imprese estremamente rischiose. Ricordiamo tre attacchi alla fortezza di
Pistoia: il primo con il furto di circa 10.000 colpi di mitraglia (17-10-43), il secondo con un nuovo
furto di bombe, caricatori e due casse di munizioni (20-10-43), ed un nuovo definitivo attacco,
superando questa volta la vigilanza della guardia tedesca molto numerosa (1-6-44). Il 26 giugno dello
stesso anno vari partigiani simularono la traduzione in carcere di Fedi e di un altro compagno. Quando
i falsi poliziotti ed i due nostri compagni (ammanettati per l'occasione) furono all'interno del carcere,
si fecero consegnare con la violenza le chiavi di tutte le celle e misero in libertà tutti i carcerati,
fornendo di moschetto quelli che intendevano raggiungere le formazioni partigiane. Il compagno Fedi
fu ucciso il mese successivo in uno scontro a fuoco con una pattuglia tedesca. |
Milano
Milano, che prima dell'avvento del fascismo era stato uno dei centri
più attivi del movimento anarchico
italiano, fu nuovamente centro di lotta e propaganda durante la Resistenza. Nel 1944 uscirono nel
capoluogo lombardo vari giornali anarchici clandestini fra i quali ricordiamo
L'adunata dei libertari, L'azione libertaria, e, dal primo dicembre, Il comunista
libertario (organo della
Federazione Comunista Libertaria Lombarda). Figura di particolare spicco per la sua lunga militanza
nel movimento (che risaliva ai primi anni del
secolo) fu quella di Pietro Bruzzi; studioso ed abile polemista, efficace propagandista rivoluzionario,
Bruzzi era stato in Russia nel '21, quindi in esilio a Parigi dove diresse il Comitato Pro Vittime Politiche.
Durante la rivoluzione spagnola del '36 militò nelle Brigate anarchiche dando prova di grande
coraggio;
ritornato in Francia fu deportato in Italia e confinato per 5 anni nell'isola di Ponza. Alla caduta del
fascismo fu trattenuto nel campo di concentramento di Renicci d'Anghiari (Arezzo) per volontà
della
dittatura militare di Badoglio. Fuggito insieme con altri anarchici, riprese le fila della lotta clandestina
guidando una formazione partigiana anarchica operante nel milanese e curando la redazione e la
diffusione de L'adunata dei libertari. Catturato su delazione di una spia fascista, pur
essendo stato
torturato per cinque giorni con tale violenza da averne il volto sfigurato, non rivelò nessuna
informazione
ai nazifascisti, che quindi lo fucilarono: prima di morire ebbe ancora la forza di gridare: "Viva
l'anarchia!". Dopo la sua morte gli anarchici milanesi costituirono le formazioni "Errico Malatesta"
e "Pietro Bruzzi"
che avevano la loro sede nello stabilimento Carlo Erba. Il 25 aprile 1945 le brigate anarchiche
disarmarono una colonna tedesca in fuga, e fecero cadere in possesso del popolo insorto tutta la zona
industriale senza pericolo di sabotaggi né di nuove violenze. Nel popolare quartiere di Porta
Ticinese gli anarchici furono gli animatori della lotta e qui prima che
altrove nella città l'intero quartiere fu in mano agli insorti. Con una serie di abili e
coraggiose manovre, le brigate anarchiche giunsero a controllare le arterie che
conducevano a Porta Sempione e a Porta Garibaldi, occuparono la caserma Mussolini e protessero la
centrale elettrica. Inoltre espugnarono molti fortilizi fascisti, e perfino la stazione della Radio fu
occupata
dalle brigate della formazione Malatesta in cooperazione con altre brigate.
Piacenza: Emilio Canzi
Nato nel 1893, Emilio Canzi combattè sin dall'inizio contro il
fascismo militando negli Arditi del Popolo.
Costretto all'esilio in Francia, accorse in Spagna all'inizio della rivoluzione. Combattè nelle file
della
Divisione Ascaso e quale ufficiale, successivamente, nella Divisione Garibaldi. Tornato in Francia fu
arrestato nel 1940 dalla polizia nazista, chiuso nel carcere della "Santé" a Parigi, e quindi
trasportato in
Germania e rinchiuso nel campo di concentramento di rigore di Hinget. Restituito all'Italia venne
confinato a Ventotene e, dopo l'8 settembre 1943, assegnato al campo di Renicci D'Anghiari. Fu
successivamente l'organizzatore delle prime bande armate nel piacentino, fu fatto prigioniero dai fascisti
e scambiato con ostaggi. Ripreso il suo posto di lotta fra i partigiani, per il suo valore divenne
comandante di ben tre divisioni e 22 brigate (oltre diecimila uomini!). Partecipò nel contempo
all'attività
clandestina di riorganizzazione del movimento anarchico fino alla sua morte (17-11-'45) avvenuta in
seguito alle gravi lesioni riportate in uno "strano" incidente motociclistico. Come altre volte in
quell'epoca, fu infatti un autocarro alleato ad affiancarglisi e ad investirlo: e proprio il fatto che una
simile
meccanica dell'incidente sia stata riscontrata in incidenti stradali mortali per altri anarchici ha sempre
lasciato aperto il dubbio di un premeditato assassinio da parte dello Stato e degli "alleati".
Lucca
Premettendo che nessuna formazione partigiana anarchica ha operato
nella zona di Lucca, possiamo solo
mettere in rilievo l'impegno militante rivoluzionario di alcuni compagni che tanto hanno fatto durante
la lotta partigiana a Lucca. Luigi Velani, militante anarchico, di professione avvocato (morto nel
1973); nella primavera del 1944
svolse importanti incarichi informativi a Lucca per conto delle forze della resistenza. Quando fu
scoperto, si sottrasse all'arresto e raggiunse i compagni sui monti nella zona della Val di Serchio. Fu
aiutante maggiore della XI Zona, in cui agivano anche molti partigiani anarchici. Questa formazione
partigiana composta da 1000 compagni, a capo della quale si trovarono il famoso
"Pippo" ed il compagno anarchico Luigi Velani ebbe tra le sue fila 300 caduti e fece prigionieri 8000
nazi-fascisti. Emanuele Diena, militante anarchico di professione prima elettricista nelle ferrovie e
dopo impiegato,
fu arrestato a Taranto nel 1943 durante il lavoro in ferrovia e fu mandato al confine a Pisticci (provincia
di Matera). A Milano durante la Liberazione fece parte della guardia rossa come comandante
responsabile della Tramvia Municipale a Porta Vittoria. Ferruccio Arrighi, militante anarchico, di
professione rappresentante (morto nel 1956), e Vittorio
Giovannetti, militante anarchico, di professione scultore in legno (morto nel 1968) svolgevano
importanti
attività di coordinamento all'interno della città per mettere in contatto gli antifascisti con
le formazioni
partigiane che operavano nella Garfagnana (monti nella vicinanza di Lucca). Tutti questi compagni
hanno aderito durante la Liberazione ai comitati cittadini antifascisti.
Torino: un episodio
Il 24 aprile 1945 il compagno Ruju, partigiano della 23a
Divisione autonoma "Sergio De Vitis", fu inviato
ad Avignana per organizzare la resistenza e la difesa di alcuni stabilimenti industriali. Giunto sul
posto, mentre cercava di contattare alcuni giovani antifascisti si imbattè in una pattuglia
tedesca e riuscì ad approfittare di un attimo di (...) nazisti e condurli a Giaveno (dove
già si trovavano
alcuni tedeschi catturati). Quando tornò ad Avignana gli si fece incontro il parroco che lo
implorò di
restituire i tre prigionieri perché altrimenti la città sarebbe stata distrutta alle due del
pomeriggio di quella
stessa giornata. Recatosi subito al comando tedesco accompagnato da due pubblici funzionari, il
compagno Ruju ebbe
modo di parlare con il comandante; questi lo pregò di rendere i tre soldati catturati
perché, altrimenti,
sarebbe stato costretto ad ordinare la distruzione della città secondo gli ordini ricevuti dalla
5a divisione
Alpina. Il nostro compagno gli fece notare che 10.000 partigiani circondavano il centro e che allo
scadere di 30 minuti sarebbero passati all'attacco; non solo, ma gli eventuali tedeschi superstiti sarebbero
stati considerati criminali di guerra e quindi passati per le armi. Tutto ciò era un "bluff", ed
i 10.000 partigiani esistevano solo nella mente di Ruju. Ma il comandante
gli credette e si arrese con i 500 uomini del suo presidio, consegnando tutte le armi ai partigiani. Per
questo episodio lo stato "democratico" volle decorare Ruju di una croce al valor militare, ma il
nostro compagno rifiutò l'inutile decorazione come fecero altri partigiani anarchici per
testimoniare
nuovamente la loro fede anarchica.
Carrara
La resistenza anarchica nel centro apuano tradizionalmente libertario
Fin dal suo sorgere, il movimento operaio locale era stato fortemente
influenzato dal socialismo
libertario, a tal punto che Carrara divenne fin dai primi anni del secolo un importante centro di
propaganda anarchica. Furono soprattutto le lotte anarcosindacaliste dei lavoratori delle cave - che
organizzati dall'anarchico
Alberto Meschi ottennero per primi in Italia le sei ore e mezza di lavoro - ad indicare ai lavoratori la
validità dell'attività politica degli anarchici: e così Carrara fu sempre in prima
linea nelle lotte di popolo
contro il militarismo, contro la tracotanza padronale, contro la repressione di stato e quindi oppose fin
dall'inizio decisa resistenza al fascismo. L'intera provincia del carrarino, con quelle vicine di La Spezia,
Pisa e Livorno, fu uno degli epicentri del terrorismo squadrista. Basti ricordare la sparatoria contro un
gruppo di anarchici da parte di una squadraccia fascista appoggiata dai carabinieri, a Carrara (giugno
1921). E poi lo sciopero generale nella stessa città in risposta all'aggressione fascista contro il
compagno
Alberto Meschi, allora segretario della Camera del Lavoro (18 ottobre 1921), ed il ferimento, sempre
da parte delle camicie nere, dell'anarchico Bonnelli a Berizzano (Carrara). Tanti simili episodi costellano
l'opposizione antifascista dei lavoratori della zona, che sempre portarono il loro aiuto anche agli altri
centri vicini assaliti dai fascisti, come durante i fatti di Sarzana, in seguito ai quali una cinquantina di
anarchici furono processati sotto l'imputazione di "associazione a delinquere" (19 gennaio
1922). Durante il ventennio della dittatura fascista l'opposizione popolare al fascismo si mantenne
viva, anche
se non vi furono episodi clamorosi a testimoniarla (a parte il fallito attentato al duce degli anarchici
carrarini Lucetti e Vatteroni, di cui parliamo in altra parte.
la formazione "Lucetti"
Quando, all'indomani dell'8 settembre 1943, seppero che i tedeschi stavano disarmando i soldati
italiani
nella caserma "Dogali" di Carrara, molti anarchici (fra cui Del Papa, Galeotti, Pelliccia, ecc.) si recarono
sul posto e riuscirono ad impossessarsi di molte armi, formando squadre di partigiani. La
partecipazione degli anarchici alla Resistenza propriamente detta assunse proporzioni determinanti
nel carrarino, più che in qualsiasi altra zona d'Italia. Non si trattò infatti né della
presenza di singole
individualità né fu caratterizzata dall'adesione degli anarchici a formazioni partigiane non
anarchiche, in
maniera disorganica. Fu veramente un fenomeno di massa, che coinvolse la grande maggioranza della
popolazione è che vide in prima fila sempre formazioni anarchiche. Dal settembre 1943 i
compagni stesero una valida rete di contatti che comprendeva anche Sarzana ed
altri centri, ed il primo rastrellamento operato dai carabinieri e dalla milizia fu appunto attuato contro
i primi tentativi organizzati di resistenza anarchica. Ma l'azione repressiva non sortì l'effetto
sperato,
poiché il movimento di resistenza era saldamente radicato; furono compiuti alcuni arresti fra gli
anarchici, dopo meno di due mesi, comunque fu rapito il figlio del direttore delle carceri di Massa, ed
in cambio della sua liberazione fu ottenuta la scarcerazione dei compagni arrestati. Ricostituita la
sua piena organicità, il movimento anarchico si sviluppò ulteriormente sia in
città sia nei
piccoli centri, prendendo contatti con gli altri raggruppamenti antifascisti. La formazione anarchica
"Gino Lucetti" si trovò ad operare nella stessa zona di altre formazioni; si stabilì di
costituire un
comando unificato della Brigata Apuana, pur lasciando autonomia alle singole componenti politiche
(anarchici, comunisti, ecc.). Questa decisione fu conseguente alla necessità, fortemente sentita,
di
coordinare tecnicamente le operazioni belliche contro i nazifascisti, che - con il progressivo stabilizzarsi
della Linea Gotica - si erano fatti ancora più numerosi e più spietati nel reprimere il
movimento
partigiano. In generale i rapporti fra la "Lucetti" e le altre formazioni erano buoni, anche se la recente
traumatizzante esperienza della guerra di Spagna spingeva ad una grande diffidenza nei confronti dei
comunisti, ed in particolare della loro formazione "Giacomo Ulivi".
l'episodio di Casette
Quanto questa diffidenza non fosse infondata lo dimostra l'episodio di Casette, finora assolutamente
inedito, e sconosciuto al di fuori della cerchia di coloro che vi parteciparono. Si avvicinava l'inverno del
'44, e la situazione era veramente difficile sia a causa della crescente repressione nazifascista sia per il
mancato arrivo degli aiuti alleati. In compenso Radio Londra continuava a trasmettere inviti ai partigiani
a tornarsene a casa, per trascorrervi l'inverno. Ma le vendette nazifasciste attendevano chi fosse tornato
a casa dai monti e dalle valli, per cui i partigiani preferirono restare alla macchia, preparandosi alla
prossima primavera. Fu stabilito di cercare di superare la linea Gotica attraverso i monti, e di cercare
di
riparare a Lucca, città tenuta dagli alleati. In un'unica colonna si trovarono a marciare
partigiani della "Lucetti" e quelli comunisti della formazione
"Giacomo Ulivi", con i rispettivi comandanti Ugo Mazzucchelli (che ci ha narrato questo episodio di
casette) e Guglielmo Brucellaria. Quando giunsero nei pressi di un ponte che, vicino al paesino di
Casette, congiunge due vallate, i comandanti comunisti chiesero con insistenza agli anarchici di prendere
la testa della colonna, e di passare per primi sul ponte. Era notte fonda, e quando Ugo Mazzucchelli per
primo si accinse a traversare il ponte, il cupo silenzio dell'oscurità fu rotto dal crepitare infernale
di una
mitraglia, che, posta in una casa-matta antistante il ponte, poteva fortunatamente colpire solo una parte
del ponte. Così il nostro compagno, ed altri anarchici, poterono mettersi in salvo,
contrariamente a quelle che
certamente erano le speranze dei comunisti. La loro precedente insistenza fece subito sorgere gravissimi
interrogativi fra gli anarchici, che stesero un duro rapporto al comando unificato della Brigata Apuana:
questi interrogativi ebbero una precisa risposta quando si venne a sapere con certezza che i dirigenti
comunisti sapevano con anticipo della presenza di una mitraglia in quella casa-matta, ma sul tutto venne
subito steso il silenzio più assoluto, con la solita giustificazione della necessità
dell'unità (sic!)
antifascista.
la difesa di Carrara
Oltre alla "Lucetti", operarono nel carrarino la formazione anarchica "Michele Schirru", parallela
alla
"Lucetti", la divisione "Garibaldi Lunense", formata soprattutto da anarchici e la formazione "Elio
Wockievic", il cui vice-comandante, l'anarchico Giovanni Mariga, fu talmente valoroso da vedersi
concessa la medaglia d'oro al valor militare, che naturalmente rifiutò per restare coerente alle
idee
anarchiche. Sia sulle Apuane sia nella pianura costiera operarono costantemente numerosi
raggruppamenti anarchici,
che ovunque si trovarono ad affrontare la criminale repressione nazifascista. Il carrarino fu infatti
teatro di alcune delle stragi più efferate commesse dai tedeschi e dai loro servi
repubblichini: basti pensare alla distruzione delle popolazioni del paesino di Sant'Anna di Stazzena (560
morti, 12 agosto 1944), di Vinca (173 morti, 24 agosto 1944) e di San Terenzo Monti (163 morti, 19
agosto 1944). E l'elenco non finisce certo qui. In questa tragica realtà di guerra, distruzioni e
rappresaglie, gli anarchici del carrarino ebbero il grande merito di organizzare e di difendere la vita della
popolazione nella città di Carrara. Soprattutto i compagni si incaricarono di assicurare il
regolare flusso
degli approvvigionamenti, e di far funzionare l'Ospedale, continuando nel contempo la lotta armata
contro il nemico. Indispensabili erano i fondi, ed il loro reperimento resta una delle pagine
più belle scritte dagli anarchici
carrarini. Il metodo adottato fu quello di convocare i ricchi possidenti, e di obbligarli a versare ingenti
somme ai partigiani, sotto la minaccia delle armi e dietro regolare... ricevuta di versamento! Di questa
anzi venivano stilate tre copie, una per il versatore, una per il Comitato di Liberazione Nazionale
(C.L.N.) ed una per il compagno Ugo Mazzucchelli, comandante della "Lucetti", presso la cui sede
avvenivano queste convocazioni. Così fu possibile aiutare le famiglie più bisognose,
finanziare le formazioni partigiane e l'Ospedale,
rinsaldando quella forte unità fra popolo e partigiani anarchici, che resta la lezione più
importante della
resistenza anarchica nel carrarino.
Genova
di A. B.
Fra gli anarchici più attivi nella resistenza ligure ricordiamo
Marcello Bianconi (membro del C.L.N. di
Pontedecimo), Emilio Grassini (combattente nella formazione anarchica "Malatesta", Emilio Caviglia,
Adelmo Sardini, Giuseppe Pasticcio, Antonio Pittaluga. Quest'ultimo morì a Genova il 24 aprile
1945,
durante le ultime fasi della lotta per la liberazione della città. Quel giorno Pittaluga, già
distintosi in
numerose azioni armate, si imbattè nelle preponderanti forze tedesche asserragliate nell'albergo
"Eden",
ed all'invito ad arrendersi rispose con il lancio di una bomba a mano, prima di cadere ucciso sotto i colpi
dei nazi-fascisti.
Anarchici ammazzati dai nazifascisti durante la
resistenza
Questo elenco, che riprendiamo dal periodico libertario "L'Impulso" (15 aprile 1955) è, come
avvertono
i curatori, assolutamente incompleto. Esso non comprende i nomi di numerosi compagni dei quali non
sono riusciti a raccogliere dati sufficienti. Non comprende altresì i nomi di tanti compagni caduti
nella
mischia talvolta senza lasciare una traccia.
Nel Veneto
ALFREDO MUNARI, già volontario in Spagna, partigiano sull'Altipiano dei 7 Comuni,
ucciso a Valgallania
il 5 settembre 1944. GIOVANNI DOMASCHI, attivo militante anarchico e antifascista,
condannato a 15 anni di reclusione durante
il fascismo, poi confinato, nel 1943 partecipa alla fondazione del C.L.N. di Verona. Arrestato e torturato
dalle SS fu successivamente fucilato.
A Trieste
GIOVANNI BIDOLI, già perseguitato e confinato, militante della resistenza triestina,
arrestato dai tedeschi,
deportato in Germania, morì in campo di concentramento. CARLO BENUSSI, originario
di Zara, perseguitato, esule, arrestato a Trieste dai tedeschi, deportato, morì
in campo di concentramento.
In Piemonte
SPARTACO ERMINI, attivo elemento di una formazione partigiana, cadde nelle Langhe.
GIACINTO REPOSSI, di Torino, militante della resistenza, deportato in Germania ed ucciso a
Mathausen. GIULIO GUERRINI, comandante di formazioni partigiane in Val Pellice, preso
prigioniero nel corso di un
combattimento, deportato in Germania, morì a Leitmeritz, in Cecoslovacchia nel maggio
1945. DARIO CAGNO, già confinato, arrestato per complicità nell'esecuzione del
seniore Giardina, venne fucilato
nel cortile della Caserma Monte Grappa il 22 dicembre 1943. ILIO BARONI, militante attivo della
resistenza torinese, cadde nel corso dei combattimenti per la liberazione
di Torino.
A Milano
PIETRO BRUZZI, vecchio militante, più volte esule in Francia, Russia, Germania, Spagna;
confinato,
redattore di pubblicazioni clandestine anarchiche, fu arrestato, torturato e fucilato dai tedeschi nel
1944.
A Roma
GIOVANNI GALLINELLA, già confinato, tornato a Roma dopo la caduta del fascismo,
fece parte di una banda
partigiana libertaria; arrestato, fu deportato a Mathausen dove morì. ALBERTO DI
GIACOMO, già confinato, arrestato nel febbraio 1944 per la sua attività partigiana;
deportato
in Germania morì a Mathausen. LELLO LOTTI, perseguitato politico, fece parte di una
banda partigiana libertaria; arrestato, deportato in
Germania, morì a Mathausen. GIULIO RONCACCI, militante della resistenza romana,
operante con le squadre del Partito d'Azione, ucciso
alle Fosse Ardeatine. ALDO ELOISI, partigiano, catturato durante un conflitto a fuoco, torturato
alla Pensione Jaccarino, quindi
fucilato alle Fosse Ardeatine. UMBERTO SCATTONI, partigiano, catturato da poliziotti italiani
al servizio dei tedeschi, condotto a Via
Tasso, quindi fucilato alle Fosse Ardeatine. RIZIERO FANTINI, già esule nel Nord e nel
Sud-America, collaboratore di periodici nostri, operò in
formazioni partigiane del Partito Comunista. Arrestato, torturato nella propria casa, quindi incarcerato
con i propri figli. Fucilato a Forte Bravetta il 31 dicembre 1943.
Nelle Marche
ALFONSO PETTINARI, prima elemento attivo della Resistenza a Roma, poi commissario politico
di una
formazione partigiana nelle Marche, cadde nella zona di Macerata il 14 luglio 1944.
CRISTOFANO GIORGIANI, militante della Resistenza, arrestato per la sua attività, fucilato
insieme a suo figlio
diciottenne a Fermignano (Pesaro) il 2 agosto 1944.
In Toscana
GINO MANETTI, perseguitato ed esule, arrestato a Firenze nel 1943, venne fucilato per
rappresaglia al
Poligono di Tiro delle Cascine. ORESTE RISTORI, vecchio militante, incarcerato a Firenze nel
1943, venne fucilato per rappresaglia al
Poligono di Tiro delle Cascine. RENATO MACCHIARINI, carrarese, esule e combattente in
Spagna, deportato dai tedeschi in Italia dopo
l'occupazione della Francia, confinato, viene paracadutato dagli alleati in Toscana: fatto prigioniero dai
tedeschi ad Altopascio, è deportato in Germania ed ivi soppresso in un campo di
concentramento. SILVANO FEDI, comandante partigiano nel pistoiese, cadde in un'imboscata nel
luglio 1944.
In Romagna
FABIO MELANDRI, di Ravenna, già redattore del giornale anarchico "L'Aurora", fucilato
dai tedeschi
insieme alla figlia, a Villa dell'Albero nel novembre 1943. FILIPPO PERNISA, militante di
Massalombarda, venne ucciso da elementi di una "brigata nera" sulla
pubblica via il 24 ottobre 1943.
In Emilia
ATTILIO DIOLAITI, di Bologna, fucilato il 1 aprile 1944 alla Certosa insieme ad altri
compagni. EMILIO ZAMBONINI, perseguitato ed esule, già volontario in Spagna,
fucilato al Poligono di Reggio Emilia
il 29 gennaio 1944.
In Liguria
RENATO OLIVIERI, dopo aver scontato molti anni di carcere e di confino, prese parte alla lotta
partigiana
in Lunigiana; fatto prigioniero durante uno scontro, venne torturato e fucilato a La Spezia.
ANTONIO PITTALUGA, attivo partigiano nella zona di Genova-Nervi, cadde il 24 aprile 1945,
nell'assalto
all'Albergo Eden dove si trovavano asserragliate forze tedesche. UMBERTO RASPI, originario
di Volterra, già combattente in Spagna, comandante delle Squadre d'Azione
anarchiche nella zona Genova-Arenzano, arrestato e deportato in Germania, fucilato a Buchenwald il
4 aprile 1945. MARIO COLANDRO, arrestato dalle SS tedesche e deportato in Germania nel
gennaio del 1944, fucilato a
Dachau il 22 marzo 1945. EMANUELE CAUSA, membro delle Squadre d'Azione della
Federazione Comunista Libertaria, militante
attivo nel periodo della cospirazione a Genova-Sestri, fucilato dalle Brigate Nere a Portofino nell'agosto
1944 e gettato a mare. DOMENICO DI PALO, arrestato e fucilato dalle Brigate Nere a Portofino
nell'agosto 1944. BRUNO RASPINO, originario di Govone d'Asti, componente delle formazioni
della Federazione Comunista
Libertaria a Sestri, arrestato e fucilato dalle Brigate Nere a Portofino il 29 agosto 1944. Aveva diciotto
anni. CIPRIANO TURCO, arrestato il 20 luglio 1944 e deportato in Germania dove morì
due mesi dopo. MARIO BISIO, membro delle squadre d'azione. Arrestato nel 1944 e fucilato in
un forte di Genova. CARLO RAVAZZANI, membro dei GAP. Arrestato nell'ottobre 1944, venne
fucilato nel successivo dicembre
a Portofino. EMANUELE SCIUTTO, membro dei GAP dal gennaio 1944. Arrestato nel novembre
e fucilato a Portofino
nel dicembre dello stesso anno. RINALDO PONTE, membro dei GAP per tutto il periodo
cospirativo; cadde il 25 aprile 1945, assieme al
comunista Raffaele Pieragostini. CATANI GIACOMO, nato il 24 dicembre 1923. Membro delle
Squadre d'Azione. Disperso. Non si è più
avuta alcuna notizia di lui. PARODI ATTILIO, nato il 15 ottobre 1889, cadde in combattimento
in Val Bronda (Cuneo) il 19-4-1945. DACCOMI MARIO, nato il 2 novembre 1924. Caduto in
combattimento a Rocchetta (Modena) l'11 agosto
1944. STANCHI DARIO, nato il 21 agosto 1923. Membro della FCL e partigiano. Arrestato e
fucilato il 17 marzo
1944 a Ceva (Cuneo). NATALINO CAPECCHI arrestato nell'agosto 1944 e trasferito alla Casa
dello Studente di Genova, in seguito
deportato in Germania dove morì. ERNESTO ROCCA, membro dei GAP, arrestato una
prima volta e poi rilasciato, arrestato nuovamente
nell'agosto 1944 e deportato in Germania nel campo di Flossemburg dove morì. Walter
Stanchi, fece parte di una formazione partigiana, cadde in combattimento a Pian Casotto nel
1944. PIETRO BIGATTI, arrestato nell'agosto 1944 dalle SS tedesche, deportato in Germania
dove morì nel
dicembre 1944. OTELLO GAMBELLI, arrestato dalla polizia fascista e fucilato a Portofino, nel
1945.
Dopo il '45
La lotta degli anarchici italiani al fascismo non si è fermata al '45.
È continuata, soprattutto in termini di
solidarietà internazionale rivoluzionaria con i compagni spagnoli. Il nostro breve ed incompleto
panorama
storico però si vuole fermare alla cosiddetta liberazione. Citiamo solo tre episodi del
dopoguerra. L'8 novembre del 1949, tre giovani anarchici, Busico, De Lucchi e Mancuso,
irrompono armati nel consolato
spagnolo a Genova; riuniscono il personale presente in anticamera, con le mani alzate, poi espongono
una
bandiera anarchica al balcone e danno fuoco all'archivio. Processati nel giugno e nel novembre del '50,
si
trasformano da accusati in accusatori del fascismo iberico, riuscendo ad avere pene relativamente lievi
(da
due a tre anni, condonati). Il 30 agosto del 1957, a Barcellona, il giovane anarchico carrarino
Goliardo Fiaschi viene arrestato assieme
al compagno spagnolo Luis Vicente. Essi con Josè Facerias trucidato dagli sbirri quello stesso
giorno, fanno
parte di un commando italo-spagnolo di "guerriglieri urbani". Condannato
a vent'anni, sconterà solo una parte
della pena in Spagna, perché nel '65 viene estradato in Italia, dove nel frattempo è stato
condannato dalla
"giustizia" italiana a tredici anni e sette mesi per una rapina che il commando
avrebbe compiuto a Casale
Monferrato nel '57 per finanziare l'azione antifranchista.. È ancora in carcere, a Lecce. Nel
settembre del 1962, quattro giovani anarchici, Amedeo Bertolo, Gianfranco Pedron, Luigi Gerli, e
Aimone
Fornaciari, con l'aiuto di tre giovani socialisti rapiscono il vice console spagnolo di Milano e chiedono,
per la
sua liberazione, la revoca della condanna a morte inflitta a Barcellona pochi giorni prima al giovane
anarchico
Jorge Conil Valls. La condanna a morte viene revocata e dopo tre giorni di prigionia il vice console
viene
liberato. Tutta la vicenda ed il successivo processo a Bertolo e compagni (conclusosi con pene lievi)
è una
grande occasione di propaganda antifranchista e libertaria.
Hanno collaborato alla redazione di questo numero speciale dedicato agli anarchici contro il
fascismo molti compagni, gruppi e federazioni:
Antonio Ruju (Torino)
Ivan Guerrini (Brescia)
Clara Germani (Trieste)
Gino Ganese e Vincenzo Toccafondo (Genova)
Federazione Anarchica Spezzina
Mario Marenghi (Piacenza)
Michele Reggio (Reggio Emilia)
Pio Turroni (Cesena)
Giampiero Landi e Nello Garavini (Castelbolognese)
Piero Orselli (Ravenna)
Centro Studi Sociali "Malatesta" (Imola)
Gino Cerrito (Firenze)
Sergio Ravenna (Carrara)
Alfredo e Ugo Mazzucchelli (Carrara)
Renzo Vanni (Pisa)
Organizzazione Anarchica Lucchese
Gruppo "Azione Anarchica" di Pistoia
Federazione Anarchica di Livorno
Federazione Anarchica di Piombino
Renzo Zuccherini (Perugia)
Remo Franchini (Ancona)
Giuseppe Galzerano (Casalsavino Scalo - SA)
Giuseppe Sallustro (Torre del Greco)
Achille Maccioni (Romana - SS)
Pietro Montaresi (Bruxelles)
|