Rivista Anarchica Online
Alle radici dell'antisemitismo
di Pietro Adamo
«Per i cristiani l'antigiudaismo è una componente fondamentale e
costitutiva della propria ideologia, uno dei
pilastri dell'edificio della chiesa, [che] continuerà a restare fondamentale [nei secoli] non solo per il
clero, ma
anche per tutte le altre classi che diverranno protagoniste nella storia della cristianità». Cesare
Mannucci, nel
suo L'odio antico. L'antisemitismo cristiano e le sue radici (Mondadori, Milano
1993, pp. XV+310), si inserisce
nel dibattito sui rapporti tra cristianesimo ed ebraismo senza alcun particolare riguardo per la cultura cattolica
italiana, né tanto meno per la chiesa di Roma, pronunciandosi molto chiaramente su un argomento che
altri
intellettuali laici hanno in genere affrontato in toni sommessi, con cautela e moderazione. Secondo Mannucci
il cristianesimo è stato il principale vettore dell'antisemitismo nella vicenda che ha portato alla
modernità; le
altre componenti di quel viscerale odio antiebraico che sembra ricomparire puntualmente nei momenti di crisi
e nei periodi di instabilità in Occidente (e non solo in Occidente) - razzismo, xenofobia, ricerca del
«capro
espiatorio» - sono solo epifenomeni di atteggiamenti e opinioni radicati nel nucleo centrale dello stesso pensiero
cristiano. Come è ovvio, l'accusa è pesantissima; se una tesi di questo genere fosse accettata,
lo stesso nazismo,
nonostante la sua marcata natura paganeggiante, si configurerebbe come un responsabile soltanto indiretto
dell'olocausto. Alcuni cattolici hanno già replicato, indignati da tanta inusuale «iattanza», come se la
chiesa
romana, oltre ad aver sanzionato con la propria autorità ogni genere di massacro compiuto dalle
autorità
politico-statuali più disparate, non avesse mostrato nel corso dei secoli una spiccata propensione a
risolvere i
problemi della dissidenza con le forche, i roghi, ecc., ricorrendo a volte a ciò che sembra, in chiave
religiosa,
la prima formulazione della teoria della «pulizia etnica» (ne sanno qualcosa albigesi, valdesi, musulmani, ecc.).
Del resto, basti dare un'occhiata alla recente Veritatis Splendor, questa abbagliante
«verità» non è per nulla
diversa, nei suoi costituenti essenziali e nella sua pretesa di totale assolutezza, da quella propugnata da
Innocenzo III, che inaugurò il suo pontificato plaudendo l'esecuzione di settemila eretici albigesi, tra
cui vecchi,
donne e bambini (Béziers, 1209), oppure da quella del grande massacratore di banditi Sisto V, acerrimo
difensore della proprietà, che nel giorno della sua investitura dichiarò, in modo assai poco
evangelico, («finché
io vivo, ogni delinquente morirà». Il pregio maggiore di L'odio antico sta nel rifiuto di
ogni prospettiva di
carattere immediatamente teologico; Mannucci chiarisce da subito di riconoscersi nella scuola della «critica
della religione» che, sin dall'epoca dei lumi, ha sostanzialmente equiparato le religioni storiche a costruzioni
ideologiche; lo stesso anarchismo ha contribuito non poco allo sviluppo di questa tendenza (si pensi alle
considerazioni di un Proudhon, o di un Bakunin, sul ruolo del cristianesimo in Occidente). Il nodo dei rapporti
tra ebraismo e cristianesimo non va quindi sciolto sul piano della teologia, ma su quello più
propriamente
storico; lo sviluppo delle tendenze antiebraiche nel pensiero cristiano risale a una serie di
circostanze precise
e a una serie di concreti bisogni delle prime comunità cristiane. Riassumiamo le tesi di Mannucci: la
vicenda
di Gesù va inserita nel quadro più generale della società ebraica del periodo;
Gesù fu probabilmente uno dei capi
dell'opposizione antiromana, che usò con consapevolezza politica la retorica profetica e millenaristica
delle
scritture ebraiche; in questa prospettiva egli era pienamente all'interno della tradizione. Fu Paolo di Tarso
- ebreo greco della diaspora e cittadino romano - a inventare un nuovo monoteismo (in
contrasto con gli stessi seguaci di Gesù a Gerusalemme), spiritualizzando e universalizzando il
messaggio del
nazareno, staccandolo dalle concrete radici israelitiche (etiche, politiche e religiose) e affidandosi nella sostanza
a quelle religioni misteriche di stampo ellenistico che mostravano marcati tratti mistici. Il progetto di Paolo
mirava all'accettazione del «cristianesimo» nelle comunità di lingua greca e latina (in cui cominciavano
ad
entrare anche alcuni «gentili») e contemporaneamente all'accettazione del nuovo culto da parte dei padroni
romani. In questa prospettiva il distacco dall'ebraismo diveniva necessario per due ordini di motivi, che
possiamo definire (semplificando) teologici e politici. Per quel che riguarda
i primi, era necessario universalizzare il messaggio di Gesù, troppo legato al contesto della
Palestina occupata dai romani e alla tradizione scritturale ebraica. Paolo costruisce quindi una teologia della
salvezza basata sulla crocefissione, esoterizzandone i contenuti, trasformandola in un avvenimento che
trascende la storia stessa e si realizza nel mondo del sovrannaturale. In concreto, si passa da Gesù al
Cristo, dal
profeta della salvezza del popolo ebraico al profeta della salvezza universale. Inoltre, il messaggio sociale e
politico di Gesù viene stravolto dal ricorso al misticismo ellenistico e affogato nella speranza
dell'aldilà
ultraterreno; il suo attivismo antiromano - che rispecchia le concezioni etiche forti tipiche
dell'ebraismo, diviene
passiva accettazione dello status quo. Lo sviluppo di un'ideologia specificamente antiebraica
è però un evento
successivo. L'avvenimento decisivo è la rivolta palestinese del 66 d.C., che si concluse nel 70 in un
bagno di
sangue producendo una decisa accelerazione del fenomeno della diaspora. Le comunità cristiane nei
territori
romani sono ormai formate da una maggioranza di non-ebrei; per loro, dice Mannucci, diviene fondamentale
«il problema di distinguersi dai giudei offrendo di se stessi l'immagine più rassicurante possibile» (p.
79). Non
si tratta solo di rinnegare ogni possibile connessione ebraica, ma di mostrare la propria fedeltà
indiscussa a
Roma. Tocca a Marco, sulle orme di Paolo, trovare la via d'uscita in una nuova versione della vicenda nel suo
«vangelo»: Gesù ha ripudiato in ogni modo l'ebraismo, la comunità israelitica lo ha sempre
osteggiato, i romani
sono meno colpevoli di quel che sembra. In definitiva - sono stati gli ebrei a ucciderlo, perché avevano
capito
che il «Salvatore» aveva creato una nuova religione che avrebbe sostituito lo stesso ebraismo.
All'accusa di
«deicidio» fa da pendant la denigrazione programmatica di molti aspetti della cultura e del modo
di vita degli
israeliti; gli altri vangeli seguiranno da presso questo modello e gli ebrei, da destinatari del messaggio di
Gesù,
si trasformano in poco tempo nei suoi principali nemici e soprattutto nei suoi assassini. Mannucci descrive
l'assestamento ideologico di questa elaborazione nei secoli successivi, che fu usata dalle élites
e dalle classi
dominanti per i loro propri fini, producendo i tipici meccanismi d'esclusione degli ebrei dalla vita sociale: le
leggi restrittive dell'attività lavorativa, i ghetti, le accuse rituali, le conversioni forzate, i massacri, ecc.
Nonostante L'odio antico si fermi agli albori dell'epoca moderna la tesi è chiara: gli
elementi generalmente
associati all'antisemitismo si ritrovano in toto nell'immaginario cristiano, che costituisce, per
così dire, il fondo
intellettuale da cui hanno pescato tutti gli antisemitismi successivi (ammesso, naturalmente che siano realmente
distinguibili dalla matrice primaria, le scritture evangeliche). La stessa sinistra ha le sue responsabilità.
Alcuni
dei cattolici «indignati» dalle tesi di Mannucci (Franco Cardini e Vittorio Messori, per esempio), propongono
l'illuminismo come colpevole alternativo. L'ipotesi è francamente risibile; e tuttavia l'antisemitismo,
nei suoi
tratti più irrazionali, compare in alcuni dei riferimenti storici del pensiero progressista. Gli anarchici
non hanno
bisogno di cercare occasioni di riflessione fuori da casa propria; tornando ai due «classici» che ho citato sopra,
le tirate antiebraiche di Bakunin, di stampo slavofilo ortodosso, sono ben note; e che dire di Proudhon: «L'ebreo
è il nemico della razza umana. Questa razza deve essere rimandata in Asia, o sterminata»! Vale la pena
proporre
due considerazioni. Quanta parte ha la persistenza di un certo tipo di immaginario cristiano ultrareazionario
nelle elaborazioni di quegli stessi intellettuali che accettano la prospettiva a-tea della religione come costrutto
intellettuale? Pensiamo ancora a Proudhon, che ha proposto una feroce interpretazione del cristianesimo come
baluardo della proprietà e dello status quo e come principale supporto intellettuale
dell'asservimento sociale e
politico dell'uomo; il suo antisemitismo e, non dimentichiamolo, le sue peculiari idee sui (non-)diritti della
donna, non sono forse un segno della sopravvivenza di valori, concetti ed esperienze tipicamente cristiani?
L'antifemminismo proudhoniano sembra una commistione tra la Genesi («la persona completa
è l'uomo. La
femmina è meno dell'uomo») e le lettere di Paolo («tutto ciò che una donna deve sapere
è come cucire le nostre
camice e cuocerci una bistecca»). In secondo luogo, a tutt'oggi la sinistra non pare aver superato del tutto la
tentazione antisemita. Quante volte, e insisto: quante volte vi è capitato di leggere
commenti su Israele o tirate antisioniste che
mostravano, in qualche punto, in qualche momento, per quanto inconsapevole, una certa tendenza a scivolare
nell'antiebraismo totale? Un libro come L'odio antico sembrerebbe un utile contributo per
il riconoscimento dei residui dell'ideologia
cristiana più conservatrice e tradizionalista ancora presenti nello stesso immaginario della sinistra.
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