Rivista Anarchica Online
Dalle Ande al Leoncavallo
a cura di Cristina Valenti
L'originale esperienza del Teatro de los Andes, dalla Bolivia all'Europa
Il Teatro de Los Andes nasce nell'agosto 1991 in Bolivia. A fondarlo sono due
attori argentini formatisi
all'interno di importanti esperienze europee. César Brie ha fatto parte della Comuna Baires milanese
e ha
lavorato nei centri sociali Santa Marta e Leoncavallo prima di entrare nell'Odin Teatret e fondare con Iben Nagel
Rasmussen il gruppo Farfa. Naira Gonzalez, figlia di un burattinaio girovago, è entrata nell'Odin Teatret
nel
1987 ed è stata fra gli interpreti di Talabot (1988) dove rappresentava il personaggio della
Renna Totem, un po'
incarnazione sciamanica delle «forze segrete della vita», un po' sfida fiabesca al mondo della scienza e degli
adulti. Nello stesso spettacolo César era Antonin Artaud e ricostruiva la conferenza Il teatro e
la peste con la
quale il più visionario e profetico attore e teorico del teatro contemporaneo sfidò e
scandalizzò il mondo
accademico della Sorbona. Usciti dall'Odin Teatret nel 1989, César e Naira hanno cominciato a
lavorare al progetto del Teatro de Los
Andes. I due spettacoli che hanno realizzato in seguito, Il mare in tasca e Romeo e Giulietta,
e le relative
tournées europee hanno costituito la base economica dell'iniziativa. La prima sede del Teatro de
Los Andes in Bolivia è Cochabamba, dalla quale si trasferiscono ben presto a
Sucre, l'antica capitale, attualmente una città piccola alla quale si accede attraverso strade sterrate. La
prima
Lettera dalla Bolivia, nel gennaio 1992, racconta dei gravi problemi che affliggono quello che
è uno dei paesi
più poveri dell'America del Sud: il razzismo interno che oppone bianchi, indiani e meticci, il
narcotraffico, la
prostituzione, la speculazione edilizia, la povertà della vita culturale, il totale scollamento fra un teatro
che
scimmiotta la tradizione occidentale e una forza culturale sommersa che si rivela piuttosto «in feste e rituali,
nel carnevale, nella "feria di alcitas", nel sincretismo religioso, nei villaggi, nei costumi favolosi». Ma la lettera
parla anche di «tanta ricchezza,umana, tante immagini vibranti, violente, surreali. Tanta natura arida eppure
piena di bellezza». La situazione non offriva strade da seguire: occorreva inventarne una del tutto nuova,
fuori dai teatri («questi
elefanti bianchi senza pubblico e senso») dove la cultura tradizionale delle comunità indiane era ignorata
o
«estetizzata» (le danze locali rifatte con la tecnica del balletto, ad esempio), e occorreva rivolgersi al pubblico
dei senza teatro: contadini, giovani delle comunità indiane, lavoratori. Si trattava di «creare un ponte
fra la
tecnica teatrale» già posseduta dai fondatori del Teatro de Los Andes «e le fonti culturali di questo
paese che
si esprimono attraverso la sua musica, le feste, i rituali». Per far questo occorrevano una sede, un gruppo
più
allargato e interetnico con cui costruire nuovi spettacoli, e un mezzo per farli girare. Nel dicembre del '92
un'altra lettera dalla Bolivia aggiornava sui progressi in tal senso: «Abbiamo costruito una sede nostra, a 15
kilometri dalla città di Sucre e vicina ad un piccolo paese, Yotala. Una casa in campagna abbandonata
da
vent'anni che abbiamo comperato, ricostruito e adattato alle esigenze del teatro: c'è una sala di 18 metri
per
dieci, 4 toilettes, un ufficio, sette stanze da letto, una biblioteca, una gigantesca cucina, una vecchia cappella
che col tempo riusciremo a sistemare e che oggi è falegnameria. Due ettari e mezzo di terra che
coltiviamo, con
pozzo d'acqua, alberi da frutta, viti, eucaliptus ed alberi locali. In questa sede prepariamo i nostri spettacoli,
organizziamo incontri con altri artisti, seminari, ospitiamo chi ci visita sia per lavorare che per riposare. Da qui
partiamo per portare il nostro lavoro in tutta la Bolivia: nei teatri, università, comunità, piazze,
quartieri
marginali, piccoli paesi. Abbiamo acquistato una grandissima jeep dove carichiamo scene, strumenti musicali,
maschere ed attori, e viaggiamo su e giù per le Ande, in strade dissestate, di terra, polvere o fango,
costeggiando
abissi o circondati da foreste e altopiani, guadando fiumi, cercando di dare senso al nostro lavoro, portando
teatro, burattini e canzoni in ogni angolo, e cercando di vivere di questo». Il
gruppo è diventato intanto di otto persone: a César e Naira si sono uniti gli italiani Maria Teresa
Dal Pero (che
lavorava nel gruppo teatrale Koreja di Lecce), Filippo Plancher e Paolo Nalli, lo spagnolo Emilio Martinez
(anche lui proveniente dal Koreja) e i boliviani Lucas Achirico e Gonzalo Callejas. E il loro repertorio
comprende due spettacoli: Colòn, una satira sulla scoperta dell'America basata sul testo
di Altan, e Il mare, uno
spettacolo di strada con canzoni, strumenti musicali, giochi, scene teatrali, sul tema della perdita del mare da
parte della Bolivia in seguito alla Guerra del Pacifico, basato su testi di poeti spagnoli, boliviani e cileni; e
comprende inoltre un concerto vocale, Canzoni dal mondo, che presenta una quarantina di canti
provenienti da
molti paesi. Con questi spettacoli il Teatro de Los Andes ha fatto l'estate scorsa una lunga tournée
in Europa che si è
conclusa significativamente lo scorso mese di settembre con una rappresentazione di Colòn
al centro sociale
Leoncavallo di Milano (dove César aveva lavorato agli inizi della sua attività) davanti a un
pubblico di tremila
giovani impegnati a difendere l'esistenza di questo spazio in pericolo. In Bolivia non esiste teatro
professionale e non ci sono sovvenzioni di nessun tipo per le attività culturali. La
costruzione del teatro ha impegnato tutte le risorse di partenza del gruppo che, per continuare a lavorare in
Bolivia, deve guadagnare con le tournées all'estero. La poetica del grottesco, di cui parla
César nello scritto che pubblichiamo, rappresenta certamente un mezzo
efficace per superare frontiere geografiche e culturali, accostando in modo non gerarchico tradizioni e forme
di spettacolo dalle radici lontane. E nella sua lettura più politica consente all'artista di prendere
posizione con fermezza, ma attraverso un insieme
di registri comunicativi che funzionano in maniera «anti-autoritaria, anti-tradizionale, anti-pretenziosa».
César
scrive che è questa l'essenza del teatro popolare, e cita un grande viaggiatore del teatro, Peter Brook,
che a suo
tempo abbandonò la certezza del pubblico e la consacrazione del successo per portare il suo gruppo
internazionale verso l'ignoto dell'Africa priva di teatro, dove occorreva ridefinire ogni gesto e ogni tratto
culturale e non era possibile dare nulla per scontato. E dove, reciprocamente, l'esperienza della cultura straniera
la si attraversa in forme non addomesticate né folclorizzate. In questi termini Gordon Craig
parlò delle maschere
della commedia dell'arte, scoprendo la presenza simultanea di comico e tragico, divertimento e orrore in
immagini popolari ma non «semplici», che le sopravvivenze dialettali o carnevalesche hanno reso in seguito
monodimensionali. Craig immagina di abbandonare il teatro tragico e di assistere per strada all'arrivo delle
maschere. La gente guarda e ride. Eppure pare di scorgere, in quelle «strane figure che si dimenano e
gesticolano» i volti contratti, il dolore e la pena delle rappresentazioni tragiche. Ma non è possibile:
avvicinandosi, si vede che le maschere ridono continuamente. Eppure, quello che hanno trasmesso è
la «visione
dolorosa» della miseria e dell'agonia, che si ridesta come in un sogno. «Questi sono i nuovi attori, noi i nuovi
spettatori - concludeva Craig - atterriti e sghignazzanti; il nostro teatro la strada». Colòn
è uno spettacolo molto divertente, pieno di musica e canzoni, maschere e costumi colorati,
sorprese e
trovate di ogni tipo, che ridicolizza ma fa ridere amaro. Della compresenza di cui è portatore il
grottesco rivela la chiave più politica: un Colombo cialtrone, vittima di
un Edipo vagamente sadomaso, educato all'onanismo in un collegio gesuita, a capo di una ciurma scalcagnata,
salpa nel 1492 dal porto di Genova non cercando «né pepe né smeraldi: cerca se stesso e sa che,
se si troverà,
di quel rozzo se stesso non saprà che farsene. Perciò non ha fretta». Un'impresa che non
ha niente di grande, appoggiata senza consapevolezza da una regina devota quanto porcella,
che riuscirà a «portare il vaiolo e la scabbia in regioni finora selvagge». L'incontro coi selvaggi,
immagine di
pura e gioiosa naturalità di fronte alla meschinità e alla laidezza dei conquistatori; il crocifisso
è annaffiato di
sangue. Sono immagini nitide, complicate dalla loro compresenza: «per quanto l'incontro sia stato tragico
e brutale -
si legge nel programma di sala - creò anche nuovi usi, costumi e musiche. Una nuova cultura. Nella
nostra
opera, a un certo punto sono gli scopritori a vestirsi come gli indigeni per poterli ingannare. E' un'ironia doppia.
Da un lato è certo che Cortès e gli altri conquistatori si adattarono agli usi e costumi dei
popoli che incontrarono
per poterli sottomettere. D'altra parte ancora oggi le autorità che di tanto in tanto partecipano a feste
o eventi
tradizionali finiscono sempre con un poncho addosso e un sorriso forzato sulle labbra». La
cultura dei popoli assorbe ed elabora anche gli eventi più tragici della loro storia. Le maschere e le
danze,
i costumi e le musiche sono gli strumenti di tale elaborazione, e le strutture rituali e festive ne restituiscono
sintesi complesse. Colòn usa la tecnica teatrale del grottesco per scrutare la zona d'ombra
di tale complessità,
«il fondo oscuro» della memoria dal quale la risata rimbalza stridula.
Cristina Valenti
Appunti sul «teatro grottesco» Quando
cerchiamo di cambiare qualcosa del nostro teatro, la prima domanda che ci poniamo è: per chi
lavoriamo? Vogliamo cambiare il pubblico? O, forse, vogliamo cambiare di pubblico? Il
teatro che vediamo nelle sale [in Bolivia] è per lo più occidentale, con modelli estetici identici
a quelli di tanti
paesi latino-americani ed europei. Non c'è nulla di male in questo. Vediamo un teatro fatto per noi, per
latino-americani emigranti o discendenti da emigranti, con specifici problemi di identità e sradicamento
culturale.
Sappiamo che questo teatro e questo pubblico è una parte del paese. Esiste, però, un pubblico
che non assiste
al teatro. Che non ne ha interesse e non ne ha bisogno. Lavoratori, studenti, contadini, meticci: quelli la cui
collocazione sociale ha cancellato l'impronta delle origini. Il nostro teatro ha bisogno di questo pubblico
per non languire e morire in eventi mondani, in un
autofesteggiamento miope e suicida. Abbiamo bisogno di creare legami dinamici, di un doppio senso, di
un dare e ricevere autentici con questo
settore del paese. La cultura tradizionale, le feste, gli eventi religiosi, il sincretismo che 500 anni di
incontro e scontro hanno
provocato, sono oggi una forma culturale viva e con un grandissimo senso in questo paese. L'uomo di teatro
non può non dare ascolto a questi eventi, non può essere cieco in mezzo a tanti colori,
né
sciocco in mezzo a tanta metafora e poesia. Dobbiamo alimentarci di tutto questo per creare un nuovo teatro.
In caso contrario continueremo in una triste ed innocua decadenza. Spariremo dalla mappa senza che nessuno
se ne accorga. Non si tratta di fare folclore, né teatro populista. Si tratta di interrogarci da un
punto di vista formale: interrogarci sui mezzi artistici che usiamo e sul modo in
cui li usiamo. I nostri attori devono saper parlare, cantare, ballare, usare il corpo. Devono saper usare le
mani: essere artigiani,
tecnici, facchini, scenografi. Il nostro teatro deve essere popolato di musica dal vivo. I musicisti devono essere
anche attori e gli attori essere musicisti. È penoso che in questo paese, dove la musica è
presente in ogni evento, con bande, gruppi, virtuosi, dove non
esiste chi non sappia suonare almeno una zampogna, ci incontriamo con un teatro sordo, che sostituisce la
musica dal vivo con registratori e cassette. Si tratta anche di interrogarci su quello che vogliamo dire: in
un modo totalizzante, rischioso e sincero.
Vogliamo por fine ai festeggiamenti, alla logica mondana cui si assiste a teatro. Il nostro teatro deve
dividere, provocare, scandalizzare. Nessun grande evento, nella storia del teatro mondiale,
ha ottenuto il consenso di tutti. Al contrario: lì dove è sorto un disaccordo, dove il pubblico si
è diviso, dove
è sorto un dibattito animato, proprio lì è sempre sorto un teatro nuovo. La nuova
azione che ci proponiamo è quella di allontanarci dai palazzi, andare a seminar teatro fra tutti i
pubblici: Università, villaggi, piazze, comunità ed anche teatri. Andare ad imparare e far
conoscere il nostro lavoro in posti poco adeguati, lì dove temiamo di non essere
compresi. Vedremo quanti pregiudizi cadranno, quanto è più semplice di quello che crediamo
comunicare con
gli altri, quante verità erano solo verità di un ambiente rarefatto e piccolo. Dobbiamo saper
rischiare anni della nostra vita in una attività che sembra un gioco, ma che è tanto seria quanto
la vita. Dobbiamo imparare senza copiare, trasmettere tecniche e conoscenze affinché diversi
gruppi sociali possano
esprimersi o, almeno, incontrarsi ed interrogarsi per mezzo di una forma artistica. Dobbiamo imparare
senza confusione, discriminando ciò che è fertile da ciò che è arido, senza
pretendere di
essere quello che non siamo, senza usare le nostre radici o identità come un pretesto o uno scudo che
impedisca
alle altre espressioni culturali di permearci ed influenzarci. Per questa ragione il nostro gruppo è
un miscuglio culturale ed etnico: perché differenti culture si incontrino
e dialoghino attraverso il lavoro teatrale. Fra noi e con gli altri. Il nostro ultimo lavoro,
Colòn, ha suscitato reazioni diverse: entusiasmo, applausi ma anche fastidio.
Colòn è un'opera grottesca. Per creare un «movimento» è
necessario saper scuotere e sgretolare ciò che è immobile e che può diventare un
ostacolo. Il genere «grottesco» deve disturbare chi tende a porre l'arte teatrale sopra un altare
e con lettere maiuscole. Il grottesco cammina, in equilibrio, fra il volgare e il sublime. Crea fra di essi una
tensione costante e tesse, in
questo modo, il contrappunto necessario in un'opera d'arte. Un'opera grottesca si alimenta di «humour» e
di risa, a patto che non siano risate da bordello, vuote e grasse,
ma che generino riflessioni e dubbi. Deve far discutere e pensare dopo essere esistita. Il grottesco è
crudo, è fatto di parole pesanti. E' l'agitarsi sfrenato di una spada in un campo di battaglia: ferisce
un po' da ogni parte. Secondo Peter Brook, è sempre il teatro popolare che salva la sorte del giorno.
Attraverso i secoli e le mode,
con il suo stile fatto di un'apparente mancanza di stile, con il suo aspetto grottesco, sporco, osceno,
spregiudicato, assume un ruolo socialmente liberatorio, perché per sua essenza è anti-autoritario,
anti-tradizionale, anti-pomposo, anti-pretenzioso. Noi ci proponiamo di commuovere, tagliando
però la testa alla commozione attraverso il riso. E ci proponiamo
una risata che rimbalzi come un'eco fino al fondo di una cisterna, perché lo spettatore possa scorgere,
nel fondo
oscuro, il suo volto deformato. E la sua memoria possa interrogarlo.
César Brie
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