Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 207
marzo 1994


Rivista Anarchica Online

Noi non ci saremo
di S. Vaccaro / C. Oliva / F. Ranci / E. Albeggiani

Quattro interventi sulle prossime elezioni politiche

Salvo Vaccaro: non possiamo permetterci il lusso
Ogni volta che come cittadini di questa repubblica veniamo chiamati alle urne, a noi anarchici balza prepotentemente alla vista l'impotenza politica di una nostra strategia che sappia rendere visibili le nostre idee e incisive le nostre pratiche sugli equilibri politici e nei processi sociali.
Questo è, a mio modo di vedere, il reale problema di un movimento anarchico che, dalla rivoluzione spagnola in poi, non ha più saputo maturare un progetto utopico graduato, credibile, affidabile, ed una coerente critica della politica che faccia accendere la scintilla della sollevazione sincronica tra tempo presente, illibertario ma vincolante perché è l'unico nel quale viviamo, ed il tempo rivoluzionario dell'utopia anarchica (qualunque poi sia la forma storica che tale evento di congiunzione di processi simultanei si darà).
Questo enorme fascio di problemi, a ogni scadenza delle tornate elettorali, viene riassunto sotto lo slogan «oltre l'assenteismo», che tuttavia lascia l'amaro in bocca, pur essendo «politically correct». Pertanto, alcuni rimettono in discussione la pratica astensionista anarchica nelle elezioni politiche. Gli argomenti non sono sottovalutabili: l'astensione è una pratica tattica, non una strategia dogmatica, il suffragio universale è stato una conquista, e così via. Peccato che, nonostante nascano per sgretolare una supposta incrostazione ideologica (pur avvertibile in certa ripetitività sloganistica di parte della militanza anarchica, ma non solo), tali argomentazioni siano altrettanto ideologiche, nel senso che trascurano negligentemente funzioni simboliche e oggettive delle elezioni politiche.
Queste costituiscono un rito di rinnovamento dell'affezione sociale del cittadino alla sfera di governo, che rinsalda il legame d'obbedienza tra individuo ed istituzioni eteronome. Specialmente oggi con il nuovo sistema maggioritario uninominale, lo spettacolo elettorale si astrae ancor di più da programmi concreti per rarefarsi su personaggi accattivanti e telegenici. Democrazia faccia-a-faccia, ci dicono, anche se si volta la faccia sia che la si scelga in positivo per come si presenta, sia che la si scelga in negativo per evitare che vinca un'altra.
Ad ogni modo, l'impegno politico dei cittadini riconquistati alla retorica politica dalle riforme istituzionali propugnate dal «nuovo che avanza» è surrogato emotivamente davanti al video in cui appaiono e scompaiono i vari leaders che simulano una competizione più o meno urlata, scomposta, sguaiata, volgare, rissosa, giocandosela su fattori esclusivamente di resa televisiva: parlare bene, muoversi a proprio agio, sedurre la telecamera, argomentare efficacemente diventano requisiti di «onestà e competenza» a governare. Ahinoi!
Ancor di più di prima, contenuti, effetti concreti delle politiche espresse per le quali si dovrebbe scegliere con il voto, sono marginali, eclissati, poiché parlarne non costituisce una tecnica di cattura di consenso elettorale. Anzi. Tant'è che altrove, anche i comuni cittadini non anarchici se ne sono accorti, facendo calare la linea dell'affezione e della partecipazione al rito elettorale a livelli per noi italiani impensabili. Se poi la non partecipazione alla messinscena miliardaria si trasformi in apatia, qualunquismo o in impegno extra-istituzionale, o addirittura anti-istituzionale, è un altro ordine di ragionamento da approfondire proprio sulla scia degli effetti di un sistema simile al nostro ed alla misura di capacità d'autogoverno dei cittadini stessi.
Comunque, sul piano simbolico, il rito elettorale non interessa minimamente noi anarchici, che non possiamo permetterci il lusso di smarrire, con gli altri, chiarezza e estraneità dichiarata al sistema di dominio (almeno parzialmente, certo, ma non è un buon motivo per rinunciare pure al minimo di non complicità che possiamo avere), per lasciarci ingannare da effetti illusori di rappresentanza e di incisività sulle nostre condizioni future. I poteri reali sono sottratti dalla trasparenza espressa dai riti elettorali, opacizzando dati e scelte decisive per l'esistenza della collettività.
Ma il rito elettorale in questione ha altresì una funzione effettiva ben diversa dai tempi in cui si lottava per l'introduzione del suffragio universale che dava voce politica a chi non aveva dignità di esistenza come soggetto politico (da discutere la modalità che funge da disciplinamento). Oggi il sistema elettorale è il canale di selezione del ceto politico dominante. A questo punto, meglio rivendicare il sorteggio delle cariche elettive, sulla falsariga della polis ateniese, piuttosto che partecipare assurdamente , da anarchici gregari, alla lotteria funzionale alla scrematura degli aspiranti concorrenti all'ingresso nei luoghi del potere legale istituzionale (che sia reale o meno, poco importa, per il concorrente sempre di potere si tratta, e di benefici di ceto e personali).
Scegliere i nostri padroni politici mi sembra un bel suicidio per chi propugna quotidianamente l'autoorganizzazione, l'autonomia individuale e collettiva, la riassunzione di responsabilità senza deleghe, la capacità di pensare, agire e progettare collettivamente senza il giogo di una sfera separata di controllo sociale, per giunta investita di poteri e legittimata dal basso.
Rompere l'incantesimo e motivarlo palesemente è il minimo che ci compete da anarchici. È anche insufficiente, e occorre fare altro parallelamente, il che non è facile. Ma da questo a introiettare dubbi e confusioni altrui, ce ne corre. Essere cittadini anarchici è una tensione contraddittoria: come cittadini subiamo una pressione integratrice al sistema, che talvolta risulta opportuna e propizia per non farci emarginare e espellere dalla società (non dal sistema politico-istituzionale a cui non apparteniamo), facendoci unire solidalmente ad altri cittadini uguali a noi nelle reciproche differenze (penso a eventi repressivi, eccezionali, o a campagne contro i razzisti, i guerrafondai, ecc.); d'altro canto, essere anarchici preserva una identità singolare e plurale estranea ed esterna ad ogni sede ove si condensano relazioni di potere.
I riti elettorali sono eventi in cui far prevalere le ragioni specifiche della tensione anarchica verso l'emancipazione da simulacri di libertà obbligatoria.

Carlo Oliva: ma chi ce lo fa fare
Gli anarchici, com'è noto, non votano, anche se da un po' di tempo a questa parte ad ogni appuntamento elettorale o referendario qualcuno di loro si chiede se, per questa volta, non sia il caso di fare un'eccezione. Non votano per scelta ideologica e perché attraverso questa autolimitazione non troppo penosa cercano di preservare quanto resta (e francamente non è molto) della propria identità storica; sono tentati di votare perché l'occasione elettorale, nella società eterogestita in cui ci tocca di vivere, appare sempre di più come l'unica istanza di partecipazione possibile alla lotta politica. Una cultura ormai avvezza a vivere il confronto politico quasi esclusivamente sotto la specie del dibattito televisivo non può certo credere al valore autonomo delle lotte di massa.
In compenso, cresce il numero di quanti anarchici non sono, o non sono ancora riusciti a decidere se lo sono davvero, che a ogni elezione si chiedono, con simpatico parallelismo, se non farebbero meglio, per questa volta, a rimanere a casa. Anche se il tema non è di quelli che appassionano analisti e commentatori (usi a considerare il non voto come un fenomeno negativo per definizione, o, al massimo, a vedervi il portato di una «protesta» affatto generica) anche questa dialettica esprime uno dei possibili rapporti tra cittadini e istituzioni.
Ma se per non votare ci sono sempre dei buoni motivi, oltre a quelli ideologici, nessuno negherà che in questo marzo 1994, in Italia, ce ne siano di ottimi. La legge elettorale, innanzi tutto. È una legge truffa se mai ve ne fu una, e non tanto perché adotta, in parte, il sistema maggioritario, che pure continuiamo a considerare essenzialmente iniquo, quanto perché è stata studiata con lo scopo preciso di traghettare nel nuovo parlamento, a scorno degli elettori, quanti più esponenti possibili della nomenclatura vigente. Ad altro, infatti, non serve la presenza di una «quota proporzionale» su lista bloccata, per non dire del meccanismo dello «scorporo» (che, per incomprensibile che sia alla coscienza dell'elettore medio, alla fin fine fa sì che il voto espresso in sede uninominale a favore di un candidato sia utilizzato in sede proporzionale per eleggerne un altro), e di una serie di norme, apparentemente di minor importanza, studiate per conservare, o aumentare, i poteri di quella partitocrazia che, in teoria, si è dichiarato di voler abolire. In effetti, all'elettore è stata tolta la possibilità di esprimere una sua preferenza individuale, sottoponendogli una serie di candidature fisse, del genere «prendere o lasciare», ma potendosi, al contrario, presentare i candidati in tre distinti collegi ciascuno, più una lista proporzionale, le loro organizzazioni potranno continuare a gestire gli accessi in Parlamento attraverso il gioco consueto delle opzioni e delle rinunce. E naturalmente, con tutto il can can che si è fatto, e tutte le parole che sono volate sulla dimensione epocale del rinnovamento di personale politico in corso, gli schieramenti tra cui l'elettorato si trova a dover scegliere, anche se non sono più l'espressione di partiti in senso stretto, ma di «poli», «tavoli», coalizioni, rassemblements o quant'altro, contengono comunque una quantità di riciclati e di morti viventi tale da far invidia ai primi film di Romero.
E pazienza. Una nuova classe dirigente non si improvvisa e ogni legge elettorale contiene dei meccanismi di pre-orientamento dell'elettorato, nel senso, ovviamente, degli interessi di chi l'ha fatta approvare. Ora, è vero che di solito si dà per scontato che nel sistema democratico sia insita una specie di potenzialità sua propria, di scommessa, quasi, quella di poterne far funzionare le norme, almeno in parte, indipendentemente dagli interessi che vi stanno alla base, ma in questo caso la scommessa sarebbe davvero azzardata. Il fatto è che la storia stessa dell'Italia repubblicana sembra escludere una vera possibilità di modificare la politica e la composizione della classe dirigente attraverso i comportamenti elettorali. E non perché, come si afferma di solito, questi comportamenti siano stati tetragoni al rinnovamento. Basta prendere in considerazione i flussi elettorali verificatisi dal dopoguerra a oggi e applicarvi i parametri normalmente in uso per i confronti del genere nelle democrazie di tipo occidentale sedicente avanzato, per scoprire che i nostri concittadini, poveretti, hanno sempre fatto del loro meglio per rinnovare quanto pensavano di poter rinnovare. Da quando hanno respinto la prima «legge truffa», nel 1953, a quando hanno approvato la seconda, quarant'anni dopo, hanno sempre votato in nome di un cambiamento del ceto e della politica di governo. E non lo hanno mai ottenuto. I trend elettorali sono stati diversi e contrastanti fra loro, da quello orientato a destra della fine degli anni '60 al suo capovolgimento nel decennio successivo, con gli effimeri, spettacolari trionfi del PCI di Berlinguer, per non dire della breve e contradditoria stagione craxiana degli anni '80, ma non hanno mai intaccato la natura e la composizione di una classe politica di tipo fermamente consociativo, che ha sempre saputo tenere ben distinto il momento dell'acquisizione del consenso da quello della rappresentazione degli interessi di chi quel consenso ha espresso, ed è sempre stata ben decisa a non accettare altri strumenti di ricambio che quello della cooptazione.
C'è altro. Ci siamo accorti tutti di come, nell'ultimo decennio, sia stata forzosamente attribuita una speciale valenza «innovativa» all'istituto del referendum, non senza qualche violenza al dettato costituzionale, per quel che conta. Ma ci siamo accorti anche che per quanto i cittadini si siano entusiasticamente serviti del referendum (salvo un paio di eccezioni) per esprimere le proprie velleità di opposizione, le vittorie referendarie non sono mai servite a scalfire le posizioni di chi stava al potere. Anzi, il trionfo dei «sì» all'ultima tornata, quella dell'aprile '93, letto all'unanimità e celebrato dai media come una sorta di ribellione generale allo status quo, è stato cinicamente utilizzato per giustificare le misure subito adottate per preservarlo. Non per niente i due trionfatori di quella battaglia, l'ambiguo Segni e il non più ambiguo Pannella, sono rapidamente passati dal ruolo di grandi innovatori a quello di garanti per eccellenza della continuità.
Da questo punto di vista, oggi il non voto può disporre, per così dire, di una motivazione aggiuntiva: esprime la consapevolezza di un ennesimo inganno perpetrato ai nostri danni e il rifiuto di sottostarvi. Un rifiuto che non si configura tanto come un problema personale, di negazione individuale di un sistema che, tanto, senza l'individuo va avanti benissimo: una crescita di massa del non voto, quale ragionevolmente si può prevedere in questa occasione e si è d'altronde puntualmente verificata nei test più recenti (le provinciali di Catania, per esempio), non potrà non rappresentare un messaggio inequivocabile per tutta l'opinione pubblica. Perché poi, in definitiva, le motivazioni che, al contrario, spingerebbero al voto si riducono all'ipotesi di portare al governo una sinistra, pardon, un «polo progressista» espresso da forze che nel modello consociativo sono tutte solidamente radicate, o nell'esigenza, vagamente ricattatoria, di fermare una destra cui nessuno potrebbe sbarrare comunque la via del potere, perché ci è solidamente installata da sempre.
Meglio davvero starsene a casa, o ricorrere a piacere, essendo - se non mi sbaglio - mancato un accordo preventivo, ad una delle altre possibili modalità di non voto. Personalmente, confesso che tra l'astensionismo tout court, l'annullamento della scheda e il voto in bianco, nutro una certa (colpevole?) predilezione per quest'ultimo, che permette di non farsi confondere con gli indifferenti e i pasticcioni, non comporta, almeno in regime uninominale, effetti deleteri sui quorum e non dà a chi di dovere alcuna opportunità di schedarti, vantaggi che mi sembrano nel complesso superiori all'inconveniente rappresentato dalla possibile presenza di scrutatori poco scrupolosi e lesti di matita. Ma non credo che valga la pena di accapigliarsi in proposito. Quello che conta, in definitiva, è non votare.
Un gesto simbolico? Beh, sì, un gesto simbolico, come tutti quelli cui si affidano le nostre residue possibilità di comunicare. Un gesto che naturalmente non chiude il discorso di una possibile partecipazione dell'area libertaria alla lotta politica. Ma, forse, lo apre.

Francesco Ranci: quando il padrone chiama
Silvio Berlusconi, in arte il Cavaliere di Arcore (o, più semplicemente «Il Cavaliere» - l'appellattivo di «Sua Emittenza», invece, dovrebbe ormai cadere in disuso), dando vita ad un movimento politico denominato «Forza Italia!», vorrebbe - secondo i noti videomessaggi - anzitutto, «creare nuovi posti di lavoro» (ma è legittimo chiedersi «in Fininvest?», ndr.), e in secondo luogo, «rilanciare l'economia» (forse nel senso che secondo lui dovremmo preoccuparci tutti un po' di più del nostro portafoglio, «grazie del consiglio, me lo diceva sempre il mio papà», ndr.).
Insomma, Berlusconi vorrebbe un nuovo «miracolo italiano», come se non stessimo ancora pagando le conseguenze, sia del penultimo «i favolosi anni '60», chissà perché finiti con l'altrettanto favoloso «'68», e con le varie «crisi del petrolio» -, e sia dell'ultimo «miracolino» degli anni «'80», finito con la Lega Nord al potere e con una guerra nel Golfo Arabo; anni '80 che vengono oggi, ingloriosamente, riclassificati come «anni di Tangentopoli» dagli stessi mass media che allora, invece, brindavano alla «Milano da bere», allo «yuppismo», etc.
È facile capire cosa si intenda, nel Berlusconi-pensiero-linguaggio, per «miracolo»: nulla a che vedere con il più o meno regolarmente ciclico scioglimento di quello che rimane del sangue di San Gennaro, nulla a che vedere con le apparenti ferite da crocifissione che sarebbero misteriosamente comparse sul corpo di Padre Pio da Pietralcina. Si tratta di un altro genere di miracolo, invece, ed è il sogno di tutti coloro che oggi dichiarano che voterebbero per «Forza Italia» (secondo i sondaggi, «scientifici» o caserecci, sembra che costituiscano ormai uno dei principali partiti italiani).
È il sogno che il capitalismo vende da almeno un secolo. Il sogno di salire qualche gradino della scala sociale: comandare, fare un po' di soldi «facilmente», comprarsi presunti gioielli della scienza-tecnica, portarsi nel letto una ragazza brasiliana, mandare la moglie alle Maldive, i figli all'Università, i nonni in Svizzera, etc...
Berlusconi tende la mano, «dai, venite sù! Qui con me, anzi, ecco, state lì, dài Forza Italia!». Generosamente si sporge, e, forse, rischia di cadere giù anche lui - ma è un rischio calcolato, non per niente dirige la Fininvest, anzi, «dirigeva», perché ora ne rimane «solo» il proprietario.
Egli propugna il sogno di non avere problemi «economici», di non dover sacrificare tutte le nostre energie al mantenimento di una sussistenza che, secondo lui, non ci soddisferebbe mai del tutto (per esempio, prendiamo l'Associazione Calcio Milan, che sotto la sua Presidenza ha indiscutibilmente migliorato la qualità dello spettacolo che produce, fino a raggiungere il successo sportivo in tutte le principali competizioni mondiali di quello sport, ebbene, vinto tutto quello che c'era da vincere, anche Berlusconi si mette a fare la statistica delle vittorie in rapporto alle competizioni disputate nel corso degli anni, dando ad intendere che non sarà mai contento finché non avrà una squadra che vince sempre tutto, e, se questo dovesse riuscirgli, ecco entrare in scena il record, sempre migliorabile, ma via via sempre meno umano, sempre meno apprezzabile - che dire del famoso «guinness dei primati»? Non lascia forse perplessi il più delle volte?). In conclusione, quello berlusconiano è il sogno, perenne, di un nuovo plusvalore, di un «qualcosa di più concreto» (la pelliccia per mia moglie! Una nuova pelliccia per mia moglie? La vacanza indimenticabile! Un'altra vacanza indimenticabile? La macchina nuova! etc. etc.).
Non abbiamo paura di questo sogno: lo conosciamo bene - sappiamo che ogni «miracolo economico» è un bagno di lacrime e sangue per i lavoratori (già per il fatto che tutti diventiamo, appunto, «lavoratori», vale a dire una merce che per chi la acquista vale meno delle altre) -; ma, purtroppo, sappiamo anche che ci sono sogni ben più pericolosi per il prossimo del sognatore (ad esempio, la conversione o lo sterminio degli «infedeli» o degli «eretici», la soppressione delle «razze inferiori», la Grande Macedonia...).
E tuttavia, non ci mettiamo affatto nei panni del propugnatore di «Forza Italia!». Infatti, a parte il fatto che una scelta di soggetto collettivo non è mai indolore, («Deutchland, deutchland, über alles», «Vive la France!», «Arriba España!», «Ban-zai!»...), non ne condividiamo l'ideologia di fondo: il rapporto fra persone, all'interno di un soggetto collettivo, per noi, regola quello fra persone e merci - e la politica riguarda il primo rapporto, anzitutto.
Berlusconi, invece, ragiona e si comporta da Padrone; evidentemente, tale egli vuole rimanere - e così, Servo vuole rimanere chi lo vota. Forse, insieme, faranno strada, o forse no: il loro futuro dipende solo dalle forze che sapranno mettere «in campo»; e, ovviamente, dalle forze contro cui combatteranno.

Edoardo Albeggiani (insegnante Cobas di Palermo): abbiamo fatto il tifo per gli indiani
«HO UN CUORE CHE BATTE A SINISTRA», ma cosa resta da fare a quanti come Jean Pierre Barrault hanno un cuore che batte da quelle parti?
Ci è stato tolto tutto.
Non ci sono più i «fascisti», né i «comunisti»: dall'una e dall'altra parte si aggirano figure acherontee che hanno le sembianze pallide di Fini, di ritorno dalla sua gita «pacificatrice» alle Fosse Ardeatine o la procace volgarità della nipotina di Mussolini, l'incorporea presenza dell'irresoluto Occhetto, del secchione D'Alema, per non parlare della confusionaria scolaresca di «Rifondazione».
Confessiamo di aver molto sofferto per la sparizione della vecchia Democrazia Cristiana, che aveva il grande merito di raccogliere buona parte dei farabutti della politica: almeno sapevamo dove stavano e potevamo tenerli d'occhio. Ma adesso?
Sparsi come sono in mille opportuni rigagnoli, ci faranno fare una fatica improba e, probabilmente, i nostri indicatori resteranno la voce petulante della Jervolino, la dentiera holliwoodiana di Berlusconi, i nei di Martinazzoli e il collettino alla marinara di Mariotto Segni.
Ma a preoccuparci di più sono gli elementi spuri, quelli che vorrebbero stare al centro, ma in realtà si collocano a destra, come Rossi, o quelli che non sanno dove vogliono stare, come Orlando, e che un bizzarro paradosso bunueliano proietta incomprensibilmente a sinistra. Non riusciamo a trovare, in questo panorama desolato, nessuno che susciti un brandello di passione, sia pur negativa. Pur non essendo mai stati affetti dal «mal di delega», perfino a livello condominiale, ci ritroviamo, a quasi quarant'anni, nel ruolo degli astensionisti coatti e il nostro vissuto libertario si ribella, come da prassi, anche a questa imposizione di fatto. Vita dura, del resto, a Palermo, per chi non si è unito festante alla grande kermesse orlandina: è già tanto se ex compagni di lotte non ci cacciano dai loro salotti quando diciamo che no, noi non abbiamo votato per Orlando, «naturalmente» alle ultime amministrative. Non ci buttano fuori, ma restano a guardarci un po' sconcertati, come se fossimo dei mutanti un po' disgustosi, o i nipotini di Totò Riina, noi i loro «ex-amici».
Ma per gente come noi, da sempre afflitta da un inguaribile allergia per il carro del vincitore, è fisiologicamente impossibile avvicinarsi a una «rete» che raduna transfughi di varie provenienze, conditi da un numero di gesuiti un po' troppo alto per la nostra capacità di tolleranza di anticlericali.
Avremmo forse considerato «progressista» un polo che non avesse fatto proprie le istanze più retrive e reazionarie del momento, pur di andare al governo, annientando il patrimonio ideale, di tradizioni e di lotte degli ultimi cinquant'anni. Il senso del nostro astensionismo è tutto qua: non è una bandiera di cui andare fieri, ma l'ennesima espropriazione che subiamo. È un po' come la nostra storia di appassionati di cinema western: da bambini fremevamo in attesa che «arrivassero i nostri», poi, abbiamo fatto il tifo per gli indiani. Stavolta però, nella notte dei risultati elettorali, non ci saranno «buoni» per cui tifare, né «cattivi» da detestare: andrà già bene se non ci sarà il massacro di Fort Apache.
Quanto a noi, il nostro «pessimismo della ragione» ci sussurra da un bel pezzo che finiremo in una riserva.
Augh!