Rivista Anarchica Online
Noi non ci saremo
di S. Vaccaro / C. Oliva / F. Ranci / E. Albeggiani
Quattro interventi sulle prossime elezioni politiche
Salvo Vaccaro: non possiamo permetterci il
lusso Ogni volta che come cittadini di questa repubblica veniamo chiamati alle urne,
a noi anarchici balza
prepotentemente alla vista l'impotenza politica di una nostra strategia che sappia rendere visibili le nostre idee
e incisive le nostre pratiche sugli equilibri politici e nei processi sociali. Questo è, a mio modo di
vedere, il reale problema di un movimento anarchico che, dalla rivoluzione spagnola
in poi, non ha più saputo maturare un progetto utopico graduato, credibile, affidabile, ed una coerente
critica
della politica che faccia accendere la scintilla della sollevazione sincronica tra tempo presente, illibertario ma
vincolante perché è l'unico nel quale viviamo, ed il tempo rivoluzionario dell'utopia anarchica
(qualunque poi
sia la forma storica che tale evento di congiunzione di processi simultanei si darà). Questo enorme
fascio di problemi, a ogni scadenza delle tornate elettorali, viene riassunto sotto lo slogan «oltre
l'assenteismo», che tuttavia lascia l'amaro in bocca, pur essendo «politically correct». Pertanto, alcuni rimettono
in discussione la pratica astensionista anarchica nelle elezioni politiche. Gli argomenti non sono sottovalutabili:
l'astensione è una pratica tattica, non una strategia dogmatica, il suffragio universale è stato una
conquista, e
così via. Peccato che, nonostante nascano per sgretolare una supposta incrostazione ideologica (pur
avvertibile
in certa ripetitività sloganistica di parte della militanza anarchica, ma non solo), tali argomentazioni
siano
altrettanto ideologiche, nel senso che trascurano negligentemente funzioni simboliche e oggettive delle elezioni
politiche. Queste costituiscono un rito di rinnovamento dell'affezione sociale del cittadino alla sfera di
governo, che
rinsalda il legame d'obbedienza tra individuo ed istituzioni eteronome. Specialmente oggi con il nuovo sistema
maggioritario uninominale, lo spettacolo elettorale si astrae ancor di più da programmi concreti per
rarefarsi
su personaggi accattivanti e telegenici. Democrazia faccia-a-faccia, ci dicono, anche se si volta la faccia sia che
la si scelga in positivo per come si presenta, sia che la si scelga in negativo per evitare che vinca un'altra. Ad
ogni modo, l'impegno politico dei cittadini riconquistati alla retorica politica dalle riforme istituzionali
propugnate dal «nuovo che avanza» è surrogato emotivamente davanti al video in cui appaiono e
scompaiono
i vari leaders che simulano una competizione più o meno urlata, scomposta, sguaiata, volgare, rissosa,
giocandosela su fattori esclusivamente di resa televisiva: parlare bene, muoversi a proprio agio, sedurre la
telecamera, argomentare efficacemente diventano requisiti di «onestà e competenza» a governare.
Ahinoi! Ancor di più di prima, contenuti, effetti concreti delle politiche espresse per le quali si
dovrebbe scegliere con
il voto, sono marginali, eclissati, poiché parlarne non costituisce una tecnica di cattura di consenso
elettorale.
Anzi. Tant'è che altrove, anche i comuni cittadini non anarchici se ne sono accorti, facendo calare la
linea
dell'affezione e della partecipazione al rito elettorale a livelli per noi italiani impensabili. Se poi la non
partecipazione alla messinscena miliardaria si trasformi in apatia, qualunquismo o in impegno
extra-istituzionale, o addirittura anti-istituzionale, è un altro ordine di ragionamento da approfondire
proprio
sulla scia degli effetti di un sistema simile al nostro ed alla misura di capacità d'autogoverno dei
cittadini stessi. Comunque, sul piano simbolico, il rito elettorale non interessa minimamente noi anarchici,
che non possiamo
permetterci il lusso di smarrire, con gli altri, chiarezza e estraneità dichiarata al sistema di dominio
(almeno
parzialmente, certo, ma non è un buon motivo per rinunciare pure al minimo di non complicità
che possiamo
avere), per lasciarci ingannare da effetti illusori di rappresentanza e di incisività sulle nostre condizioni
future.
I poteri reali sono sottratti dalla trasparenza espressa dai riti elettorali, opacizzando dati e scelte decisive per
l'esistenza della collettività. Ma il rito elettorale in questione ha altresì una funzione
effettiva ben diversa dai tempi in cui si lottava per
l'introduzione del suffragio universale che dava voce politica a chi non aveva dignità di esistenza come
soggetto
politico (da discutere la modalità che funge da disciplinamento). Oggi il sistema elettorale è
il canale di
selezione del ceto politico dominante. A questo punto, meglio rivendicare il sorteggio delle cariche elettive,
sulla falsariga della polis ateniese, piuttosto che partecipare assurdamente , da anarchici gregari, alla lotteria
funzionale alla scrematura degli aspiranti concorrenti all'ingresso nei luoghi del potere legale istituzionale (che
sia reale o meno, poco importa, per il concorrente sempre di potere si tratta, e di benefici di ceto e
personali). Scegliere i nostri padroni politici mi sembra un bel suicidio per chi propugna quotidianamente
l'autoorganizzazione, l'autonomia individuale e collettiva, la riassunzione di responsabilità senza
deleghe, la
capacità di pensare, agire e progettare collettivamente senza il giogo di una sfera separata di controllo
sociale,
per giunta investita di poteri e legittimata dal basso. Rompere l'incantesimo e motivarlo palesemente
è il minimo che ci compete da anarchici. È anche insufficiente,
e occorre fare altro parallelamente, il che non è facile. Ma da questo a introiettare dubbi e confusioni
altrui, ce
ne corre. Essere cittadini anarchici è una tensione contraddittoria: come cittadini subiamo una pressione
integratrice al sistema, che talvolta risulta opportuna e propizia per non farci emarginare e espellere dalla
società
(non dal sistema politico-istituzionale a cui non apparteniamo), facendoci unire solidalmente ad altri cittadini
uguali a noi nelle reciproche differenze (penso a eventi repressivi, eccezionali, o a campagne contro i razzisti,
i guerrafondai, ecc.); d'altro canto, essere anarchici preserva una identità singolare e plurale estranea
ed esterna
ad ogni sede ove si condensano relazioni di potere. I riti elettorali sono eventi in cui far prevalere le ragioni
specifiche della tensione anarchica verso
l'emancipazione da simulacri di libertà obbligatoria.
Carlo Oliva: ma chi ce lo fa fare Gli anarchici,
com'è noto, non votano, anche se da un po' di tempo a questa parte ad ogni appuntamento
elettorale o referendario qualcuno di loro si chiede se, per questa volta, non sia il caso di fare un'eccezione. Non
votano per scelta ideologica e perché attraverso questa autolimitazione non troppo penosa cercano di
preservare
quanto resta (e francamente non è molto) della propria identità storica; sono tentati di votare
perché l'occasione
elettorale, nella società eterogestita in cui ci tocca di vivere, appare sempre di più come l'unica
istanza di
partecipazione possibile alla lotta politica. Una cultura ormai avvezza a vivere il confronto politico quasi
esclusivamente sotto la specie del dibattito televisivo non può certo credere al valore autonomo delle
lotte di
massa. In compenso, cresce il numero di quanti anarchici non sono, o non sono ancora riusciti a decidere
se lo sono
davvero, che a ogni elezione si chiedono, con simpatico parallelismo, se non farebbero meglio, per questa volta,
a rimanere a casa. Anche se il tema non è di quelli che appassionano analisti e commentatori (usi a
considerare
il non voto come un fenomeno negativo per definizione, o, al massimo, a vedervi il portato di una «protesta»
affatto generica) anche questa dialettica esprime uno dei possibili rapporti tra cittadini e istituzioni. Ma se
per non votare ci sono sempre dei buoni motivi, oltre a quelli ideologici, nessuno negherà che in questo
marzo 1994, in Italia, ce ne siano di ottimi. La legge elettorale, innanzi tutto. È una legge truffa se mai
ve ne
fu una, e non tanto perché adotta, in parte, il sistema maggioritario, che pure continuiamo a considerare
essenzialmente iniquo, quanto perché è stata studiata con lo scopo preciso di traghettare nel
nuovo parlamento,
a scorno degli elettori, quanti più esponenti possibili della nomenclatura vigente. Ad altro, infatti, non
serve la
presenza di una «quota proporzionale» su lista bloccata, per non dire del meccanismo dello «scorporo» (che,
per incomprensibile che sia alla coscienza dell'elettore medio, alla fin fine fa sì che il voto espresso in
sede
uninominale a favore di un candidato sia utilizzato in sede proporzionale per eleggerne un altro), e di una serie
di norme, apparentemente di minor importanza, studiate per conservare, o aumentare, i poteri di quella
partitocrazia che, in teoria, si è dichiarato di voler abolire. In effetti, all'elettore è stata tolta la
possibilità di
esprimere una sua preferenza individuale, sottoponendogli una serie di candidature fisse, del genere «prendere
o lasciare», ma potendosi, al contrario, presentare i candidati in tre distinti collegi ciascuno, più una lista
proporzionale, le loro organizzazioni potranno continuare a gestire gli accessi in Parlamento attraverso il gioco
consueto delle opzioni e delle rinunce. E naturalmente, con tutto il can can che si è fatto, e tutte le parole
che
sono volate sulla dimensione epocale del rinnovamento di personale politico in corso, gli schieramenti tra cui
l'elettorato si trova a dover scegliere, anche se non sono più l'espressione di partiti in senso stretto, ma
di
«poli», «tavoli», coalizioni, rassemblements o quant'altro, contengono comunque una
quantità di riciclati e di
morti viventi tale da far invidia ai primi film di Romero. E pazienza. Una nuova classe dirigente non si
improvvisa e ogni legge elettorale contiene dei meccanismi di
pre-orientamento dell'elettorato, nel senso, ovviamente, degli interessi di chi l'ha fatta approvare. Ora, è
vero
che di solito si dà per scontato che nel sistema democratico sia insita una specie di potenzialità
sua propria, di
scommessa, quasi, quella di poterne far funzionare le norme, almeno in parte, indipendentemente dagli interessi
che vi stanno alla base, ma in questo caso la scommessa sarebbe davvero azzardata. Il fatto è che la
storia stessa
dell'Italia repubblicana sembra escludere una vera possibilità di modificare la politica e la composizione
della
classe dirigente attraverso i comportamenti elettorali. E non perché, come si afferma di solito, questi
comportamenti siano stati tetragoni al rinnovamento. Basta prendere in considerazione i flussi elettorali
verificatisi dal dopoguerra a oggi e applicarvi i parametri normalmente in uso per i confronti del genere nelle
democrazie di tipo occidentale sedicente avanzato, per scoprire che i nostri concittadini, poveretti, hanno sempre
fatto del loro meglio per rinnovare quanto pensavano di poter rinnovare. Da quando hanno respinto la prima
«legge truffa», nel 1953, a quando hanno approvato la seconda, quarant'anni dopo, hanno sempre votato in
nome di un cambiamento del ceto e della politica di governo. E non lo hanno mai ottenuto. I trend elettorali sono
stati diversi e contrastanti fra loro, da quello orientato a destra della fine degli anni '60 al suo capovolgimento
nel decennio successivo, con gli effimeri, spettacolari trionfi del PCI di Berlinguer, per non dire della breve e
contradditoria stagione craxiana degli anni '80, ma non hanno mai intaccato la natura e la composizione di una
classe politica di tipo fermamente consociativo, che ha sempre saputo tenere ben distinto il momento
dell'acquisizione del consenso da quello della rappresentazione degli interessi di chi quel consenso ha espresso,
ed è sempre stata ben decisa a non accettare altri strumenti di ricambio che quello della
cooptazione. C'è altro. Ci siamo accorti tutti di come, nell'ultimo decennio, sia stata forzosamente
attribuita una speciale
valenza «innovativa» all'istituto del referendum, non senza qualche violenza al dettato costituzionale, per quel
che conta. Ma ci siamo accorti anche che per quanto i cittadini si siano entusiasticamente serviti del referendum
(salvo un paio di eccezioni) per esprimere le proprie velleità di opposizione, le vittorie referendarie non
sono
mai servite a scalfire le posizioni di chi stava al potere. Anzi, il trionfo dei «sì» all'ultima tornata, quella
dell'aprile '93, letto all'unanimità e celebrato dai media come una sorta di ribellione generale allo status
quo,
è stato cinicamente utilizzato per giustificare le misure subito adottate per preservarlo. Non per niente
i due
trionfatori di quella battaglia, l'ambiguo Segni e il non più ambiguo Pannella, sono rapidamente passati
dal
ruolo di grandi innovatori a quello di garanti per eccellenza della continuità. Da questo punto di
vista, oggi il non voto può disporre, per così dire, di una motivazione aggiuntiva: esprime
la consapevolezza di un ennesimo inganno perpetrato ai nostri danni e il rifiuto di sottostarvi. Un rifiuto che non
si configura tanto come un problema personale, di negazione individuale di un sistema che, tanto, senza
l'individuo va avanti benissimo: una crescita di massa del non voto, quale ragionevolmente si può
prevedere
in questa occasione e si è d'altronde puntualmente verificata nei test più recenti (le provinciali
di Catania, per
esempio), non potrà non rappresentare un messaggio inequivocabile per tutta l'opinione pubblica.
Perché poi,
in definitiva, le motivazioni che, al contrario, spingerebbero al voto si riducono all'ipotesi di portare al governo
una sinistra, pardon, un «polo progressista» espresso da forze che nel modello consociativo sono tutte
solidamente radicate, o nell'esigenza, vagamente ricattatoria, di fermare una destra cui nessuno potrebbe
sbarrare comunque la via del potere, perché ci è solidamente installata da sempre. Meglio
davvero starsene a casa, o ricorrere a piacere, essendo - se non mi sbaglio - mancato un accordo
preventivo, ad una delle altre possibili modalità di non voto. Personalmente, confesso che tra
l'astensionismo
tout court, l'annullamento della scheda e il voto in bianco, nutro una certa (colpevole?) predilezione per
quest'ultimo, che permette di non farsi confondere con gli indifferenti e i pasticcioni, non comporta, almeno
in regime uninominale, effetti deleteri sui quorum e non dà a chi di dovere alcuna opportunità
di schedarti,
vantaggi che mi sembrano nel complesso superiori all'inconveniente rappresentato dalla possibile presenza di
scrutatori poco scrupolosi e lesti di matita. Ma non credo che valga la pena di accapigliarsi in proposito. Quello
che conta, in definitiva, è non votare. Un gesto simbolico? Beh, sì, un gesto simbolico,
come tutti quelli cui si affidano le nostre residue possibilità
di comunicare. Un gesto che naturalmente non chiude il discorso di una possibile partecipazione dell'area
libertaria alla lotta politica. Ma, forse, lo apre.
Francesco Ranci: quando il padrone
chiama Silvio Berlusconi, in arte il Cavaliere di Arcore (o, più
semplicemente «Il Cavaliere» - l'appellattivo di «Sua
Emittenza», invece, dovrebbe ormai cadere in disuso), dando vita ad un movimento politico denominato «Forza
Italia!», vorrebbe - secondo i noti videomessaggi - anzitutto, «creare nuovi posti di lavoro» (ma è
legittimo
chiedersi «in Fininvest?», ndr.), e in secondo luogo, «rilanciare l'economia» (forse nel senso che secondo lui
dovremmo preoccuparci tutti un po' di più del nostro portafoglio, «grazie del consiglio, me lo diceva
sempre
il mio papà», ndr.). Insomma, Berlusconi vorrebbe un nuovo «miracolo italiano», come se non
stessimo ancora pagando le
conseguenze, sia del penultimo «i favolosi anni '60», chissà perché finiti con l'altrettanto
favoloso «'68», e con
le varie «crisi del petrolio» -, e sia dell'ultimo «miracolino» degli anni «'80», finito con la Lega Nord al potere
e con una guerra nel Golfo Arabo; anni '80 che vengono oggi, ingloriosamente, riclassificati come «anni di
Tangentopoli» dagli stessi mass media che allora, invece, brindavano alla «Milano da bere», allo «yuppismo»,
etc. È facile capire cosa si intenda, nel Berlusconi-pensiero-linguaggio, per «miracolo»: nulla a che
vedere con il
più o meno regolarmente ciclico scioglimento di quello che rimane del sangue di San Gennaro, nulla
a che
vedere con le apparenti ferite da crocifissione che sarebbero misteriosamente comparse sul corpo di Padre Pio
da Pietralcina. Si tratta di un altro genere di miracolo, invece, ed è il sogno di tutti coloro che oggi
dichiarano
che voterebbero per «Forza Italia» (secondo i sondaggi, «scientifici» o caserecci, sembra che costituiscano
ormai uno dei principali partiti italiani). È il sogno che il capitalismo vende da almeno un secolo.
Il sogno di salire qualche gradino della scala sociale:
comandare, fare un po' di soldi «facilmente», comprarsi presunti gioielli della scienza-tecnica, portarsi nel letto
una ragazza brasiliana, mandare la moglie alle Maldive, i figli all'Università, i nonni in Svizzera,
etc... Berlusconi tende la mano, «dai, venite sù! Qui con me, anzi, ecco, state lì, dài
Forza Italia!». Generosamente
si sporge, e, forse, rischia di cadere giù anche lui - ma è un rischio calcolato, non per niente
dirige la Fininvest,
anzi, «dirigeva», perché ora ne rimane «solo» il proprietario. Egli propugna il sogno di non avere
problemi «economici», di non dover sacrificare tutte le nostre energie al
mantenimento di una sussistenza che, secondo lui, non ci soddisferebbe mai del tutto (per esempio, prendiamo
l'Associazione Calcio Milan, che sotto la sua Presidenza ha indiscutibilmente migliorato la qualità dello
spettacolo che produce, fino a raggiungere il successo sportivo in tutte le principali competizioni mondiali di
quello sport, ebbene, vinto tutto quello che c'era da vincere, anche Berlusconi si mette a fare la statistica delle
vittorie in rapporto alle competizioni disputate nel corso degli anni, dando ad intendere che non sarà
mai
contento finché non avrà una squadra che vince sempre tutto, e, se questo dovesse riuscirgli,
ecco entrare in
scena il record, sempre migliorabile, ma via via sempre meno umano, sempre meno apprezzabile - che dire del
famoso «guinness dei primati»? Non lascia forse perplessi il più delle volte?). In conclusione, quello
berlusconiano è il sogno, perenne, di un nuovo plusvalore, di un «qualcosa di più concreto»
(la pelliccia per mia
moglie! Una nuova pelliccia per mia moglie? La vacanza indimenticabile! Un'altra vacanza indimenticabile?
La macchina nuova! etc. etc.). Non abbiamo paura di questo sogno: lo conosciamo bene - sappiamo che
ogni «miracolo economico» è un
bagno di lacrime e sangue per i lavoratori (già per il fatto che tutti diventiamo, appunto, «lavoratori»,
vale a dire
una merce che per chi la acquista vale meno delle altre) -; ma, purtroppo, sappiamo anche che ci sono sogni
ben più pericolosi per il prossimo del sognatore (ad esempio, la conversione o lo sterminio degli
«infedeli» o
degli «eretici», la soppressione delle «razze inferiori», la Grande Macedonia...). E tuttavia, non ci mettiamo
affatto nei panni del propugnatore di «Forza Italia!». Infatti, a parte il fatto che una
scelta di soggetto collettivo non è mai indolore, («Deutchland, deutchland, über alles», «Vive
la France!»,
«Arriba España!», «Ban-zai!»...), non ne condividiamo l'ideologia di fondo: il rapporto fra persone,
all'interno
di un soggetto collettivo, per noi, regola quello fra persone e merci - e la politica riguarda il primo rapporto,
anzitutto. Berlusconi, invece, ragiona e si comporta da Padrone; evidentemente, tale egli vuole rimanere
- e così, Servo
vuole rimanere chi lo vota. Forse, insieme, faranno strada, o forse no: il loro futuro dipende solo dalle forze che
sapranno mettere «in campo»; e, ovviamente, dalle forze contro cui combatteranno.
Edoardo Albeggiani (insegnante Cobas di
Palermo): abbiamo fatto il tifo per gli
indiani «HO UN CUORE CHE BATTE A SINISTRA», ma cosa resta da fare a
quanti come Jean Pierre Barrault hanno
un cuore che batte da quelle parti? Ci è stato tolto tutto. Non ci sono più i «fascisti»,
né i «comunisti»: dall'una e dall'altra parte si aggirano figure acherontee che hanno
le sembianze pallide di Fini, di ritorno dalla sua gita «pacificatrice» alle Fosse Ardeatine o la procace
volgarità
della nipotina di Mussolini, l'incorporea presenza dell'irresoluto Occhetto, del secchione D'Alema, per non
parlare della confusionaria scolaresca di «Rifondazione». Confessiamo di aver molto sofferto per la
sparizione della vecchia Democrazia Cristiana, che aveva il grande
merito di raccogliere buona parte dei farabutti della politica: almeno sapevamo dove stavano e potevamo tenerli
d'occhio. Ma adesso? Sparsi come sono in mille opportuni rigagnoli, ci faranno fare una fatica improba e,
probabilmente, i nostri
indicatori resteranno la voce petulante della Jervolino, la dentiera holliwoodiana di Berlusconi, i nei di
Martinazzoli e il collettino alla marinara di Mariotto Segni. Ma a preoccuparci di più sono gli
elementi spuri, quelli che vorrebbero stare al centro, ma in realtà si collocano
a destra, come Rossi, o quelli che non sanno dove vogliono stare, come Orlando, e che un bizzarro paradosso
bunueliano proietta incomprensibilmente a sinistra. Non riusciamo a trovare, in questo panorama desolato,
nessuno che susciti un brandello di passione, sia pur negativa. Pur non essendo mai stati affetti dal «mal di
delega», perfino a livello condominiale, ci ritroviamo, a quasi quarant'anni, nel ruolo degli astensionisti coatti
e il nostro vissuto libertario si ribella, come da prassi, anche a questa imposizione di fatto. Vita dura, del resto,
a Palermo, per chi non si è unito festante alla grande kermesse orlandina: è già tanto
se ex compagni di lotte non
ci cacciano dai loro salotti quando diciamo che no, noi non abbiamo votato per Orlando, «naturalmente» alle
ultime amministrative. Non ci buttano fuori, ma restano a guardarci un po' sconcertati, come se fossimo dei
mutanti un po' disgustosi, o i nipotini di Totò Riina, noi i loro «ex-amici». Ma per gente come noi,
da sempre afflitta da un inguaribile allergia per il carro del vincitore, è fisiologicamente
impossibile avvicinarsi a una «rete» che raduna transfughi di varie provenienze, conditi da un numero di gesuiti
un po' troppo alto per la nostra capacità di tolleranza di anticlericali. Avremmo forse considerato
«progressista» un polo che non avesse fatto proprie le istanze più retrive e
reazionarie del momento, pur di andare al governo, annientando il patrimonio ideale, di tradizioni e di lotte degli
ultimi cinquant'anni. Il senso del nostro astensionismo è tutto qua: non è una bandiera di cui
andare fieri, ma
l'ennesima espropriazione che subiamo. È un po' come la nostra storia di appassionati di cinema
western: da
bambini fremevamo in attesa che «arrivassero i nostri», poi, abbiamo fatto il tifo per gli indiani. Stavolta
però,
nella notte dei risultati elettorali, non ci saranno «buoni» per cui tifare, né «cattivi» da detestare:
andrà già bene
se non ci sarà il massacro di Fort Apache. Quanto a noi, il nostro «pessimismo della ragione» ci
sussurra da un bel pezzo che finiremo in una riserva. Augh!
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