Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 207
marzo 1994


Rivista Anarchica Online

Piccoli mostri
di Filippo Trasatti

Aldilà delle consuete esagerazioni giornalistiche, numerosi recenti episodi di "criminalità" giovanile hanno riproposto una serie di interrogativi sulla condizione dei giovani d'oggi

New York. Una bambina di 12 anni prende un taxi per ritornare a casa. Arrivata a destinazione estrae, al posto del portafoglio, una pistola e fredda l'autista. Poi scende tranquilla dal taxi e ritorna a casa a far la bambina. La mamma racconta in seguito che per tutto il pomeriggio continuerà a comportarsi come se nulla fosse accaduto.
Liverpool. Due ragazzi di circa 12 anni entrano in un supermercato, convincono un bambino di tre anni a seguirli.
Usciti lo portano in una strada secondaria e lo massacrano, non tralasciando tra l'altro di sistemarne il corpo sui binari del tram.
Parigi. Alcuni bambini danno fuoco a un barbone sulla strada.
In Italia, è nato di recente un nuovo gioco, praticato da adolescenti: il tiro alla macchina dai ponti delle autostrade.
Pur tenendo in debito conto le esagerazioni giornalistiche, i particolari macabri accumulati a bella posta per qualche copia in più, non è possibile considerare questi fatti come ordinari episodi di cronaca nera.
Ciò che li unisce, pur nella diversità delle singole storie e dei contesti, è la giovane, a volte giovanissima età dei protagonisti. I bambini e i ragazzi diventano gli attori di una violenza senza confini davanti alla quale gli adulti, specialisti compresi, si dichiarano sconvolti e impotenti. Per molto tempo, avvertiti dalla psicologia e dalla pedagogia, abbiamo considerato i bambini e i ragazzi, come esseri indifesi da proteggere; oggi sembra che la situazione si sia rovesciata, che la società degli adulti cominci a temere questi piccoli mostri che crescono silenziosamente.

Senza senso, senza emozione
Ma quanto silenziosamente? Ciò che probabilmente accresce l'effetto-shock è la carenza dei tradizionali strumenti interpretativi, il loro dimostrarsi spuntati davanti all'emergere del nuovo. E il nuovo, o almeno ciò che appare tale, non sta nell'efferatezza dei delitti: quanti ragazzi e giovani hanno massacrato padri, madri, fratelli, amici? Il nuovo, così a me pare, sta nella qualità psicologica di delitti senza senso e senza emozione; in una sorta di dissociazione che consente di vivere due (o più) vite parallele: una vita «normale» da bambini e una vita «anormale» da killer, da piccoli assassini.
Ho detto «psicologica» utilizzando una delle modalità esplicative tradizionali, che fanno riferimento a categorie basate su una triade fondamentale: individuo, famiglia e società.
Combinando insieme questi elementi, le teorie psicologiche per l'individuo e la famiglia, e le categorie sociologiche per la società, si riteneva e si ritiene ancora di poter spiegare tutto ciò che accade sotto i nostri occhi.
Così si continuano a cercare rassicurazioni, che spesso non si trovano, sulla genesi di questi casi in famiglie degradate, in un contesto sociale violento, in caratteri fragili ed emotivamente disturbati. In questi ultimi tempi ha ripreso quota, dopo gli interventi di Karl Popper e del papa, la spiegazione «mediologica» che attribuisce alla televisione gran parte della responsabilità della violenza giovanile diffusa.
Benché la televisione produca danni enormi sui giovani (e non solo), e quel che è più preoccupante danni ancora in gran parte sconosciuti nelle loro più ampie conseguenze, continuo a considerare questa spiegazione insufficiente, come un segno dei tempi in cui si dà per scontata l'onnipotenza della tecnica, da cui si è affascinati e di cui (per fortuna) si ha paura.

Violenza implicita
Insomma queste spiegazioni portano a una comprensione molto parziale del fenomeno, ma ci mancano ancora i termini e le categorie adeguate per dire adeguatamente questa realtà. La questione è però urgente, forse è una delle questioni fondamentali, che va sottratta ai ritagli della cronaca e della criminologia.
La mia idea è invece che questi casi trovino un contesto di spiegazione, seppur parziale, solo considerando le condizioni di vita e le qualità dell'età della minorità nel nostro tempo, ma senza perdere di vista il contesto più generale.
Cerchiamo di accumulare alcuni elementi, ripetendo cose già note.
È difficile distinguere tra la maggiore disponibilità di informazioni e la crescita reale del fenomeno, ma è certo che i casi di abuso e maltrattamento infantili sono moltissimi e attraversano gli ambienti e le più diverse classi sociali. Questa è la forma di violenza più esplicita che i bambini sono costretti a subire e sui suoi effetti sui futuri adulti è inutile diffondersi più di tanto.
Dall'altra parte l'età dell'infanzia e della minorità si prolunga sempre più nel tempo senza che si diano socialmente i segni del passaggio all'età adulta. Trovo sconvolgente, ad esempio, che per molti ragazzi maschi di 18 anni il rito di passaggio all'età adulta sia il servizio militare, vissuto talvolta con orgoglio come segno dell'essere diventati adulti.
Cioè che per sottrarsi alla dipendenza dalla famiglia si ritenga fondamentale incatenarsi ad una dipendenza ancor più forte. C'è in questo l'accettazione di una violenza implicita che pervade tutto il corpo sociale e a cui ci si rassegna come a un male minore.
Altro rito di passaggio è il matrimonio con il quale, si dice, si entra nell'età delle responsabilità, spesso il passaggio ad un'altra forma più sottile di dipendenza. Chiusa la porta di casa ci si sente padroni liberi e indipendenti.
Che questa illusione si trasformi in dramma solo in pochi casi non può che stupire; non solo la cronaca, ma la letteratura ci offre infinite variazioni sul tema della violenza nella famiglia (ultimo esempio, consigliabile è il libro di Birgit Vanderbeke, La cena delle cozze, Feltrinelli, Milano 1993). Violenza che in varie forme coinvolge il bambino; e così il primo circolo sembra chiudersi. Alla violenza della famiglia si aggiunga quella della scuola che, accreditata di salvare i giovani dalle strade, non è certo priva di responsabilità, pervasa com'è ancora da una cultura e un modo di vivere fondamentalmente autoritari.
La violenza silenziosa, rimossa non riguarda soltanto le relazioni tra uomini, donne e bambini; non esiste solo nella forma umana e personale. La violenza si sostanzia nelle cose, nel modo di vivere, nell'ambiente circostante. Vivere nella morsa dei pochi metri quadrati è una forma di violenza anonima, ma non meno devastante di una cinghiata di tuo padre: almeno lui lo guardi in faccia, puoi tentare di commuoverlo, di comunicare con lui. L'ambiente urbano è, pur nella sua apparente funzionalità (quando almeno c'è), un ambiente pervaso dalla violenza spaziale, in cui l'elemento morto, inorganico, soffoca gli ultimi barlumi dell'umano. Ambiente in cui, probabilmente sta avendo luogo una grande mutazione antropologica che non riusciamo a discernere.

Senza un'identità specifica
Tutto questo è abbastanza noto, solo che tendiamo a scordarcelo, per continuare a sopravvivere come meglio possiamo, con la rabbia in tasca nei limiti della dose massima giornaliera.
Paul Goodman, un grande pensatore libertario dimenticato o poco conosciuto, ha dipinto negli anni Sessanta un affresco della condizione giovanile alle prese con quello che egli chiamava il Sistema Organizzato. Molte delle osservazioni cui abbiamo accennato vengono sviluppate in modo penetrante e illuminante nel suo libro La gioventù assurda (pubblicato in ristampa da Einaudi nel 1977, ormai introvabile), un classico da leggere e rileggere.
Le bande di giovani delinquenti che Goodman prendeva in considerazione erano composte da cinici arrivisti che solo in apparenza lottavano contro il Sistema, ma ne condividevano i valori di fondo: il successo a tutti i costi, il consumismo dei beni superflui e soprattutto delle esperienze, i profitti facili, il maschilismo, da cui si sentivano esclusi. In più il fenomeno delle bande giovanili studiato da anni dai sociologi ha caratteristiche particolari: viene ricreata una microcomunità con valori e identità (per quanto miseri) propri in opposizione agli altri, una sorta di tribalismo senza tradizione. Niente a che vedere con questi piccoli mostri che agiscono senza la protezione della comunità dei sodali, a volte in due a volte da soli, senza un'identità specifica seppur minima che li distingua e li renda riconoscibili.

Solitari riti di passaggio
È proprio a partire da questa «fuga dall'identità» che si può cominciare a immaginare e delineare alcuni dei tratti distintivi di questi «casi», destinati a moltiplicarsi.
Quando le identità, i ruoli, le prestazioni si moltiplicano a dismisura, come nelle moderne società complesse, in una sorta di potenza centrifuga che spossessa, nasce un vuoto che è molto difficile da riempire.
Come diceva Bruno Bettelheim, l'amore non basta. Siamo ancora tutti inguaribilmente romantici a pensare che l'amore, gli affetti siano la potenza suprema. La potenza suprema è il Sistema organizzato impersonale che, come un vampiro, succhia linfa vitale agli umani mirando a stabilire il dominio del morto sul vivo.
Questi piccoli mostri sono i migliori agenti del sistema; al contrario di altri che cercano nell'eccitazione e nell'esperienza estrema, anche di morte, un senso e un lampo di vitalità per sfuggire alla routine mortificante, i nostri piccoli mostri sfuggono alla vita, alla fatica dell'esperienza dandosi e dando la morte.
Non sono affatto pazzi, almeno non più di quanto lo siano coloro che con una mano bombardano dall'aereo popolazioni inermi e con l'altra scrivono una lettera accorata a casa, preoccupati per il figlio che ha la febbre. Anch'essi compiono un dovere, benché non ne siano consapevoli: svelano l'insensatezza che ci circonda, la schizofrenia quotidiana nelle nostre vite.
Ai miei occhi questi delitti appaiono come solitari riti di passaggio: un definitivo cortocircuito del senso della vita.
A questi piccoli, teneri mostri, non possiamo opporre barricate di Parole, la Ragione contro l'irrazionalità, l'Educazione contro l'incultura, la Legge contro la devianza; dobbiamo proporre e moltiplicare modi di vita diversi, che siano al tempo stesso culture, ragioni, leggi di vita diverse, limitandoci a sperare che scelgano una zattera di salvezza nel naufragio.