Rivista Anarchica Online
Piccoli mostri
di Filippo Trasatti
Aldilà delle consuete esagerazioni giornalistiche, numerosi recenti episodi di "criminalità"
giovanile hanno
riproposto una serie di interrogativi sulla condizione dei giovani d'oggi
New York. Una bambina di 12 anni prende un taxi per ritornare a casa. Arrivata
a destinazione estrae, al posto
del portafoglio, una pistola e fredda l'autista. Poi scende tranquilla dal taxi e ritorna a casa a far la bambina. La
mamma racconta in seguito che per tutto il pomeriggio continuerà a comportarsi come se nulla fosse
accaduto. Liverpool. Due ragazzi di circa 12 anni entrano in un supermercato, convincono un bambino di
tre anni a
seguirli. Usciti lo portano in una strada secondaria e lo massacrano, non tralasciando tra l'altro di sistemarne
il corpo
sui binari del tram. Parigi. Alcuni bambini danno fuoco a un barbone sulla strada. In Italia, è
nato di recente un nuovo gioco, praticato da adolescenti: il tiro alla macchina dai ponti delle
autostrade. Pur tenendo in debito conto le esagerazioni giornalistiche, i particolari macabri accumulati a
bella posta per
qualche copia in più, non è possibile considerare questi fatti come ordinari episodi di cronaca
nera. Ciò che li unisce, pur nella diversità delle singole storie e dei contesti, è la
giovane, a volte giovanissima età
dei protagonisti. I bambini e i ragazzi diventano gli attori di una violenza senza confini davanti alla quale gli
adulti, specialisti compresi, si dichiarano sconvolti e impotenti. Per molto tempo, avvertiti dalla psicologia e
dalla pedagogia, abbiamo considerato i bambini e i ragazzi, come esseri indifesi da proteggere; oggi sembra che
la situazione si sia rovesciata, che la società degli adulti cominci a temere questi piccoli mostri che
crescono
silenziosamente.
Senza senso, senza emozione Ma quanto silenziosamente? Ciò che
probabilmente accresce l'effetto-shock è la carenza dei tradizionali
strumenti interpretativi, il loro dimostrarsi spuntati davanti all'emergere del nuovo. E il nuovo, o almeno
ciò
che appare tale, non sta nell'efferatezza dei delitti: quanti ragazzi e giovani hanno massacrato padri, madri,
fratelli, amici? Il nuovo, così a me pare, sta nella qualità psicologica di delitti senza senso e
senza emozione;
in una sorta di dissociazione che consente di vivere due (o più) vite parallele: una vita «normale» da
bambini
e una vita «anormale» da killer, da piccoli assassini. Ho detto «psicologica» utilizzando una delle
modalità esplicative tradizionali, che fanno riferimento a categorie
basate su una triade fondamentale: individuo, famiglia e società. Combinando insieme questi
elementi, le teorie psicologiche per l'individuo e la famiglia, e le categorie
sociologiche per la società, si riteneva e si ritiene ancora di poter spiegare tutto ciò che accade
sotto i nostri
occhi. Così si continuano a cercare rassicurazioni, che spesso non si trovano, sulla genesi di questi
casi in famiglie
degradate, in un contesto sociale violento, in caratteri fragili ed emotivamente disturbati. In questi ultimi tempi
ha ripreso quota, dopo gli interventi di Karl Popper e del papa, la spiegazione «mediologica» che attribuisce
alla televisione gran parte della responsabilità della violenza giovanile diffusa. Benché la
televisione produca danni enormi sui giovani (e non solo), e quel che è più preoccupante danni
ancora
in gran parte sconosciuti nelle loro più ampie conseguenze, continuo a considerare questa spiegazione
insufficiente, come un segno dei tempi in cui si dà per scontata l'onnipotenza della tecnica, da cui si
è affascinati
e di cui (per fortuna) si ha paura.
Violenza implicita Insomma queste spiegazioni portano a una comprensione
molto parziale del fenomeno, ma ci mancano ancora
i termini e le categorie adeguate per dire adeguatamente questa realtà. La questione è
però urgente, forse è una
delle questioni fondamentali, che va sottratta ai ritagli della cronaca e della criminologia. La mia idea
è invece che questi casi trovino un contesto di spiegazione, seppur parziale, solo considerando le
condizioni di vita e le qualità dell'età della minorità nel nostro tempo, ma senza perdere
di vista il contesto più
generale. Cerchiamo di accumulare alcuni elementi, ripetendo cose già note. È difficile
distinguere tra la maggiore disponibilità di informazioni e la crescita reale del fenomeno, ma è
certo
che i casi di abuso e maltrattamento infantili sono moltissimi e attraversano gli ambienti e le più diverse
classi
sociali. Questa è la forma di violenza più esplicita che i bambini sono costretti a subire e sui
suoi effetti sui
futuri adulti è inutile diffondersi più di tanto. Dall'altra parte l'età dell'infanzia e
della minorità si prolunga sempre più nel tempo senza che si diano
socialmente i segni del passaggio all'età adulta. Trovo sconvolgente, ad esempio, che per molti ragazzi
maschi
di 18 anni il rito di passaggio all'età adulta sia il servizio militare, vissuto talvolta con orgoglio come
segno
dell'essere diventati adulti. Cioè che per sottrarsi alla dipendenza dalla famiglia si ritenga
fondamentale incatenarsi ad una dipendenza
ancor più forte. C'è in questo l'accettazione di una violenza implicita che pervade tutto il corpo
sociale e a cui
ci si rassegna come a un male minore. Altro rito di passaggio è il matrimonio con il quale, si dice,
si entra nell'età delle responsabilità, spesso il
passaggio ad un'altra forma più sottile di dipendenza. Chiusa la porta di casa ci si sente padroni liberi
e
indipendenti. Che questa illusione si trasformi in dramma solo in pochi casi non può che stupire;
non solo la cronaca, ma la
letteratura ci offre infinite variazioni sul tema della violenza nella famiglia (ultimo esempio, consigliabile
è il
libro di Birgit Vanderbeke, La cena delle cozze, Feltrinelli, Milano 1993). Violenza che in varie
forme
coinvolge il bambino; e così il primo circolo sembra chiudersi. Alla violenza della famiglia si aggiunga
quella
della scuola che, accreditata di salvare i giovani dalle strade, non è certo priva di responsabilità,
pervasa com'è
ancora da una cultura e un modo di vivere fondamentalmente autoritari. La violenza silenziosa, rimossa non
riguarda soltanto le relazioni tra uomini, donne e bambini; non esiste solo
nella forma umana e personale. La violenza si sostanzia nelle cose, nel modo di vivere, nell'ambiente
circostante. Vivere nella morsa dei pochi metri quadrati è una forma di violenza anonima, ma non meno
devastante di una cinghiata di tuo padre: almeno lui lo guardi in faccia, puoi tentare di commuoverlo, di
comunicare con lui. L'ambiente urbano è, pur nella sua apparente funzionalità (quando almeno
c'è), un
ambiente pervaso dalla violenza spaziale, in cui l'elemento morto, inorganico, soffoca gli ultimi barlumi
dell'umano. Ambiente in cui, probabilmente sta avendo luogo una grande mutazione antropologica che non
riusciamo a discernere.
Senza un'identità specifica Tutto questo è abbastanza noto,
solo che tendiamo a scordarcelo, per continuare a sopravvivere come meglio
possiamo, con la rabbia in tasca nei limiti della dose massima giornaliera. Paul Goodman, un grande
pensatore libertario dimenticato o poco conosciuto, ha dipinto negli anni Sessanta
un affresco della condizione giovanile alle prese con quello che egli chiamava il Sistema Organizzato. Molte
delle osservazioni cui abbiamo accennato vengono sviluppate in modo penetrante e illuminante nel suo libro
La gioventù assurda (pubblicato in ristampa da Einaudi nel 1977, ormai introvabile), un
classico da leggere e
rileggere. Le bande di giovani delinquenti che Goodman prendeva in considerazione erano composte da
cinici arrivisti
che solo in apparenza lottavano contro il Sistema, ma ne condividevano i valori di fondo: il successo a tutti i
costi, il consumismo dei beni superflui e soprattutto delle esperienze, i profitti facili, il maschilismo, da cui si
sentivano esclusi. In più il fenomeno delle bande giovanili studiato da anni dai sociologi ha
caratteristiche
particolari: viene ricreata una microcomunità con valori e identità (per quanto miseri) propri
in opposizione agli
altri, una sorta di tribalismo senza tradizione. Niente a che vedere con questi piccoli mostri che agiscono senza
la protezione della comunità dei sodali, a volte in due a volte da soli, senza un'identità specifica
seppur minima
che li distingua e li renda riconoscibili.
Solitari riti di passaggio È proprio a partire da questa «fuga
dall'identità» che si può cominciare a immaginare e delineare alcuni dei tratti
distintivi di questi «casi», destinati a moltiplicarsi. Quando le identità, i ruoli, le prestazioni si
moltiplicano a dismisura, come nelle moderne società complesse,
in una sorta di potenza centrifuga che spossessa, nasce un vuoto che è molto difficile da
riempire. Come diceva Bruno Bettelheim, l'amore non basta. Siamo ancora tutti inguaribilmente romantici
a pensare che
l'amore, gli affetti siano la potenza suprema. La potenza suprema è il Sistema organizzato impersonale
che,
come un vampiro, succhia linfa vitale agli umani mirando a stabilire il dominio del morto sul vivo. Questi
piccoli mostri sono i migliori agenti del sistema; al contrario di altri che cercano nell'eccitazione e
nell'esperienza estrema, anche di morte, un senso e un lampo di vitalità per sfuggire alla routine
mortificante,
i nostri piccoli mostri sfuggono alla vita, alla fatica dell'esperienza dandosi e dando la morte. Non sono
affatto pazzi, almeno non più di quanto lo siano coloro che con una mano bombardano dall'aereo
popolazioni inermi e con l'altra scrivono una lettera accorata a casa, preoccupati per il figlio che ha la febbre.
Anch'essi compiono un dovere, benché non ne siano consapevoli: svelano l'insensatezza che ci circonda,
la
schizofrenia quotidiana nelle nostre vite. Ai miei occhi questi delitti appaiono come solitari riti di
passaggio: un definitivo cortocircuito del senso della
vita. A questi piccoli, teneri mostri, non possiamo opporre barricate di Parole, la Ragione contro
l'irrazionalità,
l'Educazione contro l'incultura, la Legge contro la devianza; dobbiamo proporre e moltiplicare modi di vita
diversi, che siano al tempo stesso culture, ragioni, leggi di vita diverse, limitandoci a sperare che scelgano una
zattera di salvezza nel naufragio.
|