Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 207
marzo 1994


Rivista Anarchica Online

La rivolta zapatista
di Noam Chomsky

Il 16 gennaio scorso un caporedattore del «Washington Post» ha chiesto a Noam Chomsky un pezzo sulla rivolta Zapatista in Messico. La pubblicazione è stata però rifiutata. Ecco l'articolo censurato

La rivolta di Capodanno dei contadini indios in Chiapas coincideva con la promulgazione del Nafta, che l'esercito zapatista definiva una «sentenza di morte» per gli indios, un regalo ai ricchi che approfondirà la divisione tra il benessere dei pochi e la miseria diffusa, e distruggerà ciò che resta della società indigena.
Il collegamento con il Nafta è in parte simbolico; i problemi sono più profondi. «Noi», affermava la Dichiarazione di guerra, «siamo il prodotto di 500 anni di lotta». La lotta oggi è «per il lavoro, la terra, la casa, il cibo, la sanità, l'istruzione, l'indipendenza, la libertà, la democrazia, la giustizia e la pace». «I veri motivi», aggiungeva il vicario generale della diocesi di Chiapas, «sono la completa emarginazione, la povertà e la frustrazione di anni e anni impegnati a cercare di migliorare la situazione».
I contadini indios sono le vittime maggiormente colpite dalla politica governativa. Ma il loro disagio è largamente condiviso. «Chiunque abbia la possibilità di essere a contatto con i milioni di messicani che vivono in condizioni di estrema povertà sa che stiamo vivendo seduti su una bomba a orologeria», osservava il giornalista messicano Pilar Valdes.
Nell'ultimo decennio di riforma economica, il numero di persone che vivono in estrema povertà è aumentato di quasi un terzo. Metà della popolazione complessiva è priva delle risorse necessarie a soddisfare i bisogni elementari, una situazione che è andata via via peggiorando a partire dal 1980. Seguendo le indicazioni del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, la produzione agricola veniva indirizzata alle esportazioni e ai foraggi, a beneficio del sistema agroindustriale, dei consumatori stranieri e dei settori dell'economia messicana più forti, mentre la malnutrizione diventava uno dei principali problemi, l'occupazione in agricoltura calava, le terre produttive venivano abbandonate e il Messico cominciava a importare massicce quantità di generi alimentari. I salari reali nelle attività manifatturiere precipitavano bruscamente. La percentuale di lavoro nel prodotto interno lordo, che era cresciuta fino alla metà degli anni Settanta, da allora è cominciata a calare di ben oltre un terzo. Sono questi gli standard concomitanti delle riforme neo liberali. Studi del FMI mostrano «un forte e consistente disegno di riduzione della quota di reddito da lavoro» sotto l'impatto dei suoi «programmi di stabilizzazione» in America Latina, osserva l'economista Manuel Pastor.
Il segretario del Commercio messicano salutava la diminuzione dei salari come un incentivo agli investitori stranieri. E di questo si tratta, insieme con la repressione del lavoro, il fiacco rafforzamento delle restrizioni ambientali e l'orientamento generale della politica sociale assoggettata ai desideri della minoranza privilegiata. Tali politiche sono naturalmente le benvenute per le istituzioni manifatturiere e finanziarie che, con l'assistenza di accordi ingiustamente definiti di «libero commercio», stanno estendendo il loro controllo sull'economia globale.

Anche i vescovi
Il Nafta, c'è da aspettarselo, allontanerà dalla terra un elevato numero di lavoratori delle aziende agricole, contribuendo alla povertà rurale e a un'eccedenza di manodopera. L'occupazione manifatturiera, già in calo sotto le riforme, dovrebbe avere un'ulteriore, brusca flessione. Uno studio condotto dalla principale testata economica messicana, «El Financiero», prevedeva che il Messico avrebbe perduto almeno un quarto della sua industria manifatturiera e il 14 % dei posti di lavoro nei primi due anni. «Gli economisti prevedono che diversi milioni di messicani perderanno probabilmente il loro lavoro nei primi cinque anni dall'entrata in vigore dell'accordo», scriveva sulle colonne del «New York Times» Tim Golden. Questi processi dovrebbero favorire un'ulteriore riduzione dei salari e un incremento dei profitti e della divisione tra ricchi e poveri, con riflessi facilmente ipotizzabili negli Stati Uniti e in Canada.
Larga parte dell'interesse suscitato dal Nafta, come hanno regolarmente sottolineato i suoi sostenitori, è che esso «chiude» le riforme neoliberali che hanno annullato anni di progresso nello sviluppo economico e in materia di diritti del lavoro, favorendo l'impoverimento e la sofferenza delle masse a fronte di un arricchimento dei pochi e degli investitori stranieri. All'economia messicana nel suo complesso, questa «virtù economica» ha portato un «piccolo compenso», osserva il londinese «Financial Times», esaminando «otto anni di politiche economiche di mercato da manuale» che produssero una modesta crescita, in gran parte attribuibile all'assistenza finanziaria senza pari garantita dalla Banca mondiale e dagli Stati Uniti. Alti tassi d'interesse hanno parzialmente bloccato la fuoriuscita di ingenti capitali che era uno dei fattori primi nella crisi debitoria messicana, sebbene il deficit d'esercizio sia un fardello sempre più pesante, ora la sua componente principale è rappresentata dal debito interno verso i ricchi messicani.
Non sorprende che ci sia stata una sostanziale opposizione al piano di «chiudere» questo modello di sviluppo. Lo storico Seth Fein, scrivendo da Città del Messico, descriveva grandi manifestazioni contro il Nafta, «proteste ben articolate, anche se scarsamente considerate negli Stati Uniti, contro la politica governativa - che comporta l'abrogazione dei diritti in materia di lavoro e istruzione, dei patti agrari sanciti da una Costituzione, quella del 1917, che gode del sostegno popolare - che a molti messicani sembra essere la reale conseguenza del Nafta e della politica estera statunitense qui». Sul «Los Angeles Times», Juanita Darling descriveva la grande ansia dei lavoratori messicani a proposito dell'erosione dei «diritti sindacali conquistati a prezzo di dure battaglie», verosimilmente «sul punto di essere sacrificati mentre le società, nel tentativo di competere con quelle straniere, cercano soluzioni che consentano di tagliare i costi».
L'1 novembre, un «Comunicato dei vescovi messicani sul Nafta» condannava l'accordo e la politica economica a esso collegata a causa dei loro deleteri effetti sociali. In questo modo veniva ribadita la preoccupazione espressa in occasione della conferenza dei vescovi dell'America latina del 1992 che «l'economia di mercato non deve diventare qualcosa di assoluto a cui sacrificare ogni altra cosa, accentuando la disuguaglianza e l'emarginazione di una larga fetta della popolazione» - cosa che verosimilmente favorirà l'impatto del Nafta e di altri accordi simili a tutela dei diritti degli investitori. L'accordo veniva contestato anche da numerosi lavoratori (compresa la più grande organizzazione non governativa) e da altri gruppi, allarmati dall'impatto sui salari, sui diritti dei lavoratori e sull'ambiente, dalla possibile perdita di sovranità, dall'accresciuta protezione delle pretese di società e investitori, e dall'indebolimento delle opzioni per una crescita sostenibile. Homero Aridjis, presidente della più importante organizzazione ambientalista del Messico, deplorava «la terza conquista sofferta dal Messico. La prima per mano degli eserciti, la seconda spirituale, la terza è economica».

Oltre il significato simbolico
Non occorse molto tempo perché queste paure si concretizzassero. Poco dopo l'approvazione del Nafta da parte del Congresso, i lavoratori vennero licenziati dalla Honeywell e dagli impianti della GE per aver tentato di organizzare sindacati indipendenti e definire norme standard. La Ford Motor Company licenziò la sua intera forza lavoro nel 1987, cancellando il contratto sindacale e riassumendo i lavoratori con salari decisamente più bassi. Le proteste vennero soppresse con una brutale repressione. La Volkswagen la seguì nel 1992, licenziando i suoi 14.000 operai e riassumendo soltanto quelli che ripudiavano volontariamente i principali sindacati indipendenti, con il sostegno del partito da sempre dominante. Sono queste le componenti prime del «miracolo economico» che sta per essere «chiuso» dal Nafta.
A pochi giorni dalla votazione sul Nafta, il Senato americano approvava «il più raffinato pacchetto anticrimine della storia» (sen. Orrin Hatch), con l'assunzione di 100.000 nuovi poliziotti, l'apertura di prigioni di massima sicurezza regionali e di campi di addestramento per giovani delinquenti, l'estensione della pena di morte, l'inasprimento delle condanne e altre condizioni onerose. Gli esperti dell'ordine pubblico intervistati dalla stampa mettevano in dubbio che tale legislazione potesse influire in qualche modo sull'effettivo rispetto della legge perché non affrontava le «cause della disintegrazione sociale che produce i criminali violenti». E tra queste ci sono innanzitutto le politiche sociali ed economiche che dividono la società americana, e che avevano ricevuto un impulso ulteriore dal Nafta. I concetti di «efficienza» e di «salute dell'economia» preferiti dai benestanti e dai ceti privilegiati non offrono nulla ai crescenti settori della popolazione inutilizzabili nella realizzazione dei profitti, spinti alla povertà e alla disperazione. Se non li si può confinare nei bassifondi urbani, dovranno essere controllati in qualche altro modo.
Così come ai tempi della ribellione zapatista, anche quelli dei provvedimenti legislativi avevano qualcosa che andava oltre il significato simbolico.
Il dibattito sul Nafta era centrato in larga parte sui flussi occupazionali, al cui proposito si sa ben poco. Tuttavia la previsione più ottimistica è che ci sarà una riduzione piuttosto generale dei salari. «Numerosi economisti ritengono che il Nafta potrebbe trascinare verso il basso le retribuzioni», scriveva Steven Pearlstein sul «Washington Post», supponendo che «salari messicani più bassi potrebbero esercitare un effetto gravitazionale sui salari degli americani». Questo è ciò che si aspettano anche i sostenitori del Nafta, che riconoscono che i lavoratori non specializzati - circa il 70% della forza lavoro - subiranno verosimilmente una perdita di salario.

Capitale speculativo
Un'analisi del «New York Times» sul probabile impatto del Nafta nella regione di New York arrivava a conclusioni molto simili. A guadagnarci sarebbero stati i settori «della finanza o che ruotano intorno a essa», «le attività bancarie e di telecomunicazione regionali, gli studi legali delle società»: l'industria delle PR, i consulenti aziendali e così via. Potrebbero guadagnarci alcuni produttori, principalmente nell'industria ad alta tecnologia, nell'editoria e nell'industria farmaceutica, che trarranno benefici dall'aumentata protezione del capitale intellettuale e dalle clausole definite per assicurarsi che le maggiori società controllino la tecnologia del futuro. Ma ci saranno anche quelli che perderanno, «in particolare le donne, i neri e gli ispanici», e più in generale «i lavoratori a bassa specializzazione»; che costituiscono poi la maggioranza della popolazione di una città dove il 40% dei bambini vive già al di sotto della linea di povertà, con gravi carenze in materia di sanità e istruzione che li «inchiodano» a un amaro destino.
Rilevando che i salari reali dei lavoratori non specializzati e di quelli senza funzioni di controllo sono scesi ai livelli degli anni Sessanta, il Congressional Office of Technology Assessment, in un'analisi della versione esecutiva del Nafta, prevedeva che a meno di significative modifiche esso «poteva inchiodare ulteriormente gli Stati Uniti a un futuro di bassi salari e di bassa produttività», sebbene le revisioni proposte dallo stesso OTA, dal mondo del lavoro e da altri critici - cui si diede scarso rilievo - avrebbero potuto portare dei vantaggi alle popolazioni di tutti e tre i Paesi.
La versione del Nafta che venne approvata probabilmente accelererà un «gradito sviluppo di importanza trascendentale» («Wall Street Journal»): la riduzione del costo del lavoro negli Stati Uniti al di sotto di qualunque altro dei principali Paesi industrializzati, a eccezione della Gran Bretagna; fIno al 1985, il salario orario dei lavoratori americani era stato il più alto degli altri Paesi membri del G-7.
In un'economia globalizzata, dato che i concorrenti sono costretti a mettersi d'accordo, l'impatto è su scala internazionale.
La GM può spostarsi in Messico, o adesso in Polonia, dove può trovare manodopera a una frazione del costo di quella occidentale ed essere protetta da una tariffa doganale del 30%.
La VW può spostarsi nella Repubblica ceca per beneficiare di una protezione analoga, prendendo i profitti e scaricando i costi sul governo.
La Daimler-Benz può seguire strategie simili in Alabama.
Il capitale può muoversi liberamente, i lavoratori e le comunità pagano le conseguenze. Nel frattempo l'impressionante aumento di capitale speculativo non regolato impone potenti pressioni contro le politiche di stimolo dell'economia elaborate dai governi.

Bomba a orologeria
Ci sono numerosi fattori che spingono la società nel suo complesso verso un futuro di bassi salari, di bassa crescita e di alti profitti, con una crescente polarizzazione e una disintegrazione sociale. Un'altra conseguenza è la dissoluzione dei passaggi democratici più significativi, dato che il processo decisionale viene conferito a istituzioni private e a strutture semi-governative che si stanno formando attorno a esse, ciò che il «Financial Times» definisce un «governo mondiale de facto», operante in segreto e senza responsabilità. .
Questi sviluppi hanno poco a che vedere con il liberalismo economico, un concetto che perde di significato in un mondo nel quale una vasta componente del «commercio» consiste in transazioni interne a società guidate centralmente (per esempio, metà delle esportazioni U.S.A.,in Messico - «esportazioni» che non entrano mai nel mercato messicano). Intanto, come in passato, il potere privato domanda di essere protetto dalle forze del mercato e viene regolarmente accontentato. In tal senso, il presidente Clinton è stato piuttosto chiaro allorché al summit Asia-Pacific di Seattle ha proposto come suo modello per il futuro «libero mercato» la Boeing Corporation, che non sarebbe il primo esportatore del Paese, né sarebbe probabilmente mai esistita, se non fosse per il generoso sussidio pubblico che da sempre riceve.
La protesta dei contadini indios di Chiapas è giusto un piccolo assaggio della bomba a orologeria che è sul punto di esplodere, non solo in Messico.

(traduzione di Stefano Viviani)