Rivista Anarchica Online
La rivolta zapatista
di Noam Chomsky
Il 16 gennaio scorso un caporedattore del «Washington Post» ha chiesto a Noam Chomsky un pezzo sulla
rivolta
Zapatista in Messico. La pubblicazione è stata però rifiutata. Ecco l'articolo censurato
La rivolta di Capodanno dei contadini indios in Chiapas coincideva con la
promulgazione del Nafta, che
l'esercito zapatista definiva una «sentenza di morte» per gli indios, un regalo ai ricchi che approfondirà
la
divisione tra il benessere dei pochi e la miseria diffusa, e distruggerà ciò che resta della
società indigena. Il collegamento con il Nafta è in parte simbolico; i problemi sono
più profondi. «Noi», affermava la
Dichiarazione di guerra, «siamo il prodotto di 500 anni di lotta». La lotta oggi è «per il lavoro, la terra,
la casa,
il cibo, la sanità, l'istruzione, l'indipendenza, la libertà, la democrazia, la giustizia e la pace».
«I veri motivi»,
aggiungeva il vicario generale della diocesi di Chiapas, «sono la completa emarginazione, la povertà
e la
frustrazione di anni e anni impegnati a cercare di migliorare la situazione». I contadini indios sono le
vittime maggiormente colpite dalla politica governativa. Ma il loro disagio è
largamente condiviso. «Chiunque abbia la possibilità di essere a contatto con i milioni di messicani
che vivono
in condizioni di estrema povertà sa che stiamo vivendo seduti su una bomba a orologeria», osservava
il
giornalista messicano Pilar Valdes. Nell'ultimo decennio di riforma economica, il numero di persone che
vivono in estrema povertà è aumentato
di quasi un terzo. Metà della popolazione complessiva è priva delle risorse necessarie a
soddisfare i bisogni
elementari, una situazione che è andata via via peggiorando a partire dal 1980. Seguendo le indicazioni
del
Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, la produzione agricola veniva indirizzata alle
esportazioni e ai foraggi, a beneficio del sistema agroindustriale, dei consumatori stranieri e dei settori
dell'economia messicana più forti, mentre la malnutrizione diventava uno dei principali problemi,
l'occupazione
in agricoltura calava, le terre produttive venivano abbandonate e il Messico cominciava a importare massicce
quantità di generi alimentari. I salari reali nelle attività manifatturiere precipitavano
bruscamente. La
percentuale di lavoro nel prodotto interno lordo, che era cresciuta fino alla metà degli anni Settanta, da
allora
è cominciata a calare di ben oltre un terzo. Sono questi gli standard concomitanti delle riforme neo
liberali.
Studi del FMI mostrano «un forte e consistente disegno di riduzione della quota di reddito da lavoro» sotto
l'impatto dei suoi «programmi di stabilizzazione» in America Latina, osserva l'economista Manuel Pastor.
Il segretario del Commercio messicano salutava la diminuzione dei salari come un incentivo agli investitori
stranieri. E di questo si tratta, insieme con la repressione del lavoro, il fiacco rafforzamento delle restrizioni
ambientali e l'orientamento generale della politica sociale assoggettata ai desideri della minoranza privilegiata.
Tali politiche sono naturalmente le benvenute per le istituzioni manifatturiere e finanziarie che, con l'assistenza
di accordi ingiustamente definiti di «libero commercio», stanno estendendo il loro controllo sull'economia
globale.
Anche i vescovi Il Nafta, c'è da aspettarselo, allontanerà
dalla terra un elevato numero di lavoratori delle aziende agricole,
contribuendo alla povertà rurale e a un'eccedenza di manodopera. L'occupazione manifatturiera,
già in calo sotto
le riforme, dovrebbe avere un'ulteriore, brusca flessione. Uno studio condotto dalla principale testata economica
messicana, «El Financiero», prevedeva che il Messico avrebbe perduto almeno un quarto della sua industria
manifatturiera e il 14 % dei posti di lavoro nei primi due anni. «Gli economisti prevedono che diversi milioni
di messicani perderanno probabilmente il loro lavoro nei primi cinque anni dall'entrata in vigore dell'accordo»,
scriveva sulle colonne del «New York Times» Tim Golden. Questi processi dovrebbero favorire un'ulteriore
riduzione dei salari e un incremento dei profitti e della divisione tra ricchi e poveri, con riflessi facilmente
ipotizzabili negli Stati Uniti e in Canada. Larga parte dell'interesse suscitato dal Nafta, come hanno
regolarmente sottolineato i suoi sostenitori, è che esso
«chiude» le riforme neoliberali che hanno annullato anni di progresso nello sviluppo economico e in materia
di diritti del lavoro, favorendo l'impoverimento e la sofferenza delle masse a fronte di un arricchimento dei
pochi e degli investitori stranieri. All'economia messicana nel suo complesso, questa «virtù economica»
ha
portato un «piccolo compenso», osserva il londinese «Financial Times», esaminando «otto anni di politiche
economiche di mercato da manuale» che produssero una modesta crescita, in gran parte attribuibile all'assistenza
finanziaria senza pari garantita dalla Banca mondiale e dagli Stati Uniti. Alti tassi d'interesse hanno
parzialmente bloccato la fuoriuscita di ingenti capitali che era uno dei fattori primi nella crisi debitoria
messicana, sebbene il deficit d'esercizio sia un fardello sempre più pesante, ora la sua componente
principale
è rappresentata dal debito interno verso i ricchi messicani. Non sorprende che ci sia stata una
sostanziale opposizione al piano di «chiudere» questo modello di sviluppo.
Lo storico Seth Fein, scrivendo da Città del Messico, descriveva grandi manifestazioni contro il Nafta,
«proteste
ben articolate, anche se scarsamente considerate negli Stati Uniti, contro la politica governativa - che comporta
l'abrogazione dei diritti in materia di lavoro e istruzione, dei patti agrari sanciti da una Costituzione, quella del
1917, che gode del sostegno popolare - che a molti messicani sembra essere la reale conseguenza del Nafta e
della politica estera statunitense qui». Sul «Los Angeles Times», Juanita Darling descriveva la grande ansia dei
lavoratori messicani a proposito dell'erosione dei «diritti sindacali conquistati a prezzo di dure battaglie»,
verosimilmente «sul punto di essere sacrificati mentre le società, nel tentativo di competere con quelle
straniere,
cercano soluzioni che consentano di tagliare i costi». L'1 novembre, un «Comunicato dei vescovi messicani
sul Nafta» condannava l'accordo e la politica economica
a esso collegata a causa dei loro deleteri effetti sociali. In questo modo veniva ribadita la preoccupazione
espressa in occasione della conferenza dei vescovi dell'America latina del 1992 che «l'economia di mercato non
deve diventare qualcosa di assoluto a cui sacrificare ogni altra cosa, accentuando la disuguaglianza e
l'emarginazione di una larga fetta della popolazione» - cosa che verosimilmente favorirà l'impatto del
Nafta e
di altri accordi simili a tutela dei diritti degli investitori. L'accordo veniva contestato anche da numerosi
lavoratori (compresa la più grande organizzazione non governativa) e da altri gruppi, allarmati
dall'impatto sui
salari, sui diritti dei lavoratori e sull'ambiente, dalla possibile perdita di sovranità, dall'accresciuta
protezione
delle pretese di società e investitori, e dall'indebolimento delle opzioni per una crescita sostenibile.
Homero
Aridjis, presidente della più importante organizzazione ambientalista del Messico, deplorava «la terza
conquista
sofferta dal Messico. La prima per mano degli eserciti, la seconda spirituale, la terza è economica».
Oltre il significato simbolico Non occorse molto tempo perché
queste paure si concretizzassero. Poco dopo l'approvazione del Nafta da parte
del Congresso, i lavoratori vennero licenziati dalla Honeywell e dagli impianti della GE per aver tentato di
organizzare sindacati indipendenti e definire norme standard. La Ford Motor Company licenziò la sua
intera
forza lavoro nel 1987, cancellando il contratto sindacale e riassumendo i lavoratori con salari decisamente
più
bassi. Le proteste vennero soppresse con una brutale repressione. La Volkswagen la seguì nel 1992,
licenziando
i suoi 14.000 operai e riassumendo soltanto quelli che ripudiavano volontariamente i principali sindacati
indipendenti, con il sostegno del partito da sempre dominante. Sono queste le componenti prime del «miracolo
economico» che sta per essere «chiuso» dal Nafta. A pochi giorni dalla votazione sul Nafta, il Senato
americano approvava «il più raffinato pacchetto anticrimine
della storia» (sen. Orrin Hatch), con l'assunzione di 100.000 nuovi poliziotti, l'apertura di prigioni di massima
sicurezza regionali e di campi di addestramento per giovani delinquenti, l'estensione della pena di morte,
l'inasprimento delle condanne e altre condizioni onerose. Gli esperti dell'ordine pubblico intervistati dalla
stampa mettevano in dubbio che tale legislazione potesse influire in qualche modo sull'effettivo rispetto della
legge perché non affrontava le «cause della disintegrazione sociale che produce i criminali violenti».
E tra
queste ci sono innanzitutto le politiche sociali ed economiche che dividono la società americana, e che
avevano
ricevuto un impulso ulteriore dal Nafta. I concetti di «efficienza» e di «salute dell'economia» preferiti dai
benestanti e dai ceti privilegiati non offrono nulla ai crescenti settori della popolazione inutilizzabili nella
realizzazione dei profitti, spinti alla povertà e alla disperazione. Se non li si può confinare nei
bassifondi urbani,
dovranno essere controllati in qualche altro modo. Così come ai tempi della ribellione zapatista,
anche quelli dei provvedimenti legislativi avevano qualcosa che
andava oltre il significato simbolico. Il dibattito sul Nafta era centrato in larga parte sui flussi
occupazionali, al cui proposito si sa ben poco. Tuttavia
la previsione più ottimistica è che ci sarà una riduzione piuttosto generale dei salari.
«Numerosi economisti
ritengono che il Nafta potrebbe trascinare verso il basso le retribuzioni», scriveva Steven Pearlstein sul
«Washington Post», supponendo che «salari messicani più bassi potrebbero esercitare un effetto
gravitazionale
sui salari degli americani». Questo è ciò che si aspettano anche i sostenitori del Nafta, che
riconoscono che i
lavoratori non specializzati - circa il 70% della forza lavoro - subiranno verosimilmente una perdita di salario.
Capitale speculativo Un'analisi del «New York Times» sul probabile impatto
del Nafta nella regione di New York arrivava a
conclusioni molto simili. A guadagnarci sarebbero stati i settori «della finanza o che ruotano intorno a essa»,
«le attività bancarie e di telecomunicazione regionali, gli studi legali delle società»: l'industria
delle PR, i
consulenti aziendali e così via. Potrebbero guadagnarci alcuni produttori, principalmente nell'industria
ad alta
tecnologia, nell'editoria e nell'industria farmaceutica, che trarranno benefici dall'aumentata protezione del
capitale intellettuale e dalle clausole definite per assicurarsi che le maggiori società controllino la
tecnologia
del futuro. Ma ci saranno anche quelli che perderanno, «in particolare le donne, i neri e gli ispanici», e
più in
generale «i lavoratori a bassa specializzazione»; che costituiscono poi la maggioranza della popolazione di una
città dove il 40% dei bambini vive già al di sotto della linea di povertà, con gravi
carenze in materia di sanità
e istruzione che li «inchiodano» a un amaro destino. Rilevando che i salari reali dei lavoratori non
specializzati e di quelli senza funzioni di controllo sono scesi ai
livelli degli anni Sessanta, il Congressional Office of Technology Assessment, in un'analisi della versione
esecutiva del Nafta, prevedeva che a meno di significative modifiche esso «poteva inchiodare ulteriormente
gli
Stati Uniti a un futuro di bassi salari e di bassa produttività», sebbene le revisioni proposte dallo stesso
OTA,
dal mondo del lavoro e da altri critici - cui si diede scarso rilievo - avrebbero potuto portare dei vantaggi alle
popolazioni di tutti e tre i Paesi. La versione del Nafta che venne approvata probabilmente
accelererà un «gradito sviluppo di importanza
trascendentale» («Wall Street Journal»): la riduzione del costo del lavoro negli Stati Uniti al di sotto di
qualunque altro dei principali Paesi industrializzati, a eccezione della Gran Bretagna; fIno al 1985, il salario
orario dei lavoratori americani era stato il più alto degli altri Paesi membri del G-7. In un'economia
globalizzata, dato che i concorrenti sono costretti a mettersi d'accordo, l'impatto è su scala
internazionale. La GM può spostarsi in Messico, o adesso in Polonia, dove può trovare
manodopera a una frazione del costo
di quella occidentale ed essere protetta da una tariffa doganale del 30%. La VW può spostarsi nella
Repubblica ceca per beneficiare di una protezione analoga, prendendo i profitti e
scaricando i costi sul governo. La Daimler-Benz può seguire strategie simili in Alabama. Il
capitale può muoversi liberamente, i lavoratori e le comunità pagano le conseguenze. Nel
frattempo
l'impressionante aumento di capitale speculativo non regolato impone potenti pressioni contro le politiche di
stimolo dell'economia elaborate dai governi.
Bomba a orologeria Ci sono numerosi fattori che spingono la società
nel suo complesso verso un futuro di bassi salari, di bassa
crescita e di alti profitti, con una crescente polarizzazione e una disintegrazione sociale. Un'altra conseguenza
è la dissoluzione dei passaggi democratici più significativi, dato che il processo decisionale
viene conferito a
istituzioni private e a strutture semi-governative che si stanno formando attorno a esse, ciò che il
«Financial
Times» definisce un «governo mondiale de facto», operante in segreto e senza responsabilità. .
Questi sviluppi hanno poco a che vedere con il liberalismo economico, un concetto che perde di significato
in
un mondo nel quale una vasta componente del «commercio» consiste in transazioni interne a società
guidate
centralmente (per esempio, metà delle esportazioni U.S.A.,in Messico - «esportazioni» che non entrano
mai nel
mercato messicano). Intanto, come in passato, il potere privato domanda di essere protetto dalle forze del
mercato e viene regolarmente accontentato. In tal senso, il presidente Clinton è stato piuttosto chiaro
allorché
al summit Asia-Pacific di Seattle ha proposto come suo modello per il futuro «libero mercato» la Boeing
Corporation, che non sarebbe il primo esportatore del Paese, né sarebbe probabilmente mai esistita, se
non fosse
per il generoso sussidio pubblico che da sempre riceve. La protesta dei contadini indios di Chiapas
è giusto un piccolo assaggio della bomba a orologeria che è sul punto
di esplodere, non solo in Messico.
(traduzione di Stefano Viviani)
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