Rivista Anarchica Online
Follia in provincia
di Elena Petrassi
Chi è matto e chi normale? La risposta sembra facile, chi incontra un
matto di solito lo riconosce, lo teme e lo
fugge. I matti sono poetici e incantano, ma a distanza se non mettono in discussione la nostra normalità
e non
mettono in pericolo la nostra incolumità. Di solito non ci si pongono molte domande
sull'identità dei matti né tanto meno sulle loro vite che, a meno che
non assurgano agli onori della cronaca nera non sono di grande interesse per i «normali», Tranne che in
situazioni politiche e sociali molto particolari, come è avvenuto nel corso degli anni '60 e '70
(qualcuno comincia a dubitare che quegli anni siano mai esistiti), quando l'attività di Cooper, Laing e
Basaglia,
tanto per citare i nomi più famosi, aveva mutato, almeno in parte, la posizione dei folli non solo nella
società
ma anche nell'immaginario sociale. Questo cambiamento in Italia si era concretizzato attraverso
l'esperienza di Trieste, grazie allo stesso Basaglia
e alla famosa e famigerata legge 180, che ha portato all'«apertura» o «chiusura» dei maniconi, a seconda di
come la si pensa in proposito. Legge rimasta legalmente non attuata per la mancanza di strutture nel
territorio ed evidentemente per la
mancanza di una volontà politica che spingesse verso la messa in opera di quanto necessario.
Invece la responsabilità dei malati è rimasta interamente a carico delle famiglie e le uniche
cure utilizzate quelle
farmacologiche. I reparti psichiatrici degli ospedali pubblici, che pure non hanno niente a che fare con i
manicomi ben radicati nella nostra mente, finiscono con l'essere delle semplici aree di parcheggio dove i malati
stazionano per qualche tempo così da dare sollievo ai loro familiari. Sollievo perché, come
dicevo prima, la follia è poetica solo nei libri, la sua realtà, se vissuta in prima persona,
quando va a toccare persone a noi care o anche solo conosciute, ti colpisce con forza inaudita. Ecco che
ogni canale di comunicazione si spezza, il linguaggio del folle diventa a noi incomprensibile pur
mantenendo una sua logica interiore. E di solito non è un linguaggio incoerente, il delirio stesso
possiede una sua ragione di essere che noi, nella
nostra alterità, non possiamo comprendere, tanto più se siamo colpiti dal dolore che questa
persona prova.
Perché se anche non possiamo dire cosa è la follia, se anche non riusciamo più a
comprendere la logica della
mente folle, una cosa resta tangibile ai nostri occhi ed è il dolore, la paura, nostra e sua. Resta
invariata la incapacità di dare una definizione di follia, di malattia mentale anche se l'immagine di folle
non è data una volta per tutte, varia a seconda di tempi e luoghi. In questi giorni è molto in voga
parlare di
depressione uno dei tanti «mali del secolo», un libro intervista scritto dallo psichiatra G.B. Cassano e dalla
giornalista Serena Zoli ha avuto un grande successo di vendite sulla cui scia è nata a Milano l'«Idea»,
associazione per lo studio della depressione. Associazione sponsorizzata anche dalla televisione di stato
e da Piero Angela che ha inaugurato una nuova serie
di Quark proprio con uno speciale sulla depressione, ospite Cassano, proprio la sera prima che questa iniziativa
venisse presentata a Milano e senza che nella trasmissione se ne facesse il minimo accenno. Forse sarebbe
stato più corretto parlarne visto che l'eco della trasmissione ha senz'altro attirato molta più gente
verso la neonata associazione che non un esplicito spot pubblicitario, a volte la pubblicità occulta
funziona in
maniera più efficace che non quella palese. Ma tant'è. La forma di depressione di gran
moda ai nostri giorni è la sindrome maniaco-depressiva o, come viene chiamata
più elegantemente oggi, disturbo affettivo bipolare. Il malato affetto da tale disturbo passa attraverso
fasi alterne
di eccitazione maniacale appunto e fasi depressive che a volte lo conducono al suicidio. La nuova
psichiatria tende a imputare questo genere di disturbo a cause in gran parte di tipo biologico: o
genetico o bio-genetico. Infatti le terapie proposte per questi disturbi sono di tipo farmacologico o di tipo
elettroconvulsivante, cioè o sedativi o elettroshock. Ma non è detto che si guarisca, forse
sì, forse no, dipende, il diavolo viene comunque cercato essenzialmente
all'interno del paziente, come se l'interazione con i propri simili e con l'ambiente non avesse quasi nessun
effetto. Quel che voglio sottolineare con questa premessa è l'ideologia che sta dietro questo tipo
di spiegazioni
scientifiche riduzioniste: chi cerca il gene della follia è anche alla ricerca del gene
dell'omosessualità e forse
dell'intelligenza e così di seguito. Non mi dilungo oltre in questa sede perché vorrei
ritornare su questo argomento in un articolo di più ampio
respiro, ma queste premesse erano necessarie per parlare di un libro che mi è piaciuto. Il libro in
questione si
intitola Storie di pazzi e di normali. La follia in una città di provincia dello
scrittore esordiente Mauro
Covacich (Theoria 138, pagg. 100, L. 14.000). Egli racconta con un taglio a mio parere molto visuale, quasi
cinematografico, e quasi in forma di diario, la sua
esperienza di operatore del «servizio animazione» del dipartimento di salute mentale di Pordenone. La storia
da lui narrata ci porta prima in una chiesetta di provincia dove Mario, «l'emigrante squilibrato» mangia ceri e
distrugge paramenti sacri con pari furia, mosso da una energia interiore che gli impedisce qualsiasi sosta e
qualsiasi sollievo alla tensione. Nella chiesa Mario non è solo, è in compagnia di Erica che
prega e borbotta.
Dopo avere accompagnato Mario al suo ricovero al dipartimento «Diagnosi e cura» di Sacile, l'autore ci porta
con Erica nella casa da lei abitata con Marisa. E poi con Marisa a «Villa Aurora» il centro di cura dove
incontriamo Aldo, Monica e Ilde. Ognuno dei pazienti diventa in questo percorso, insieme a Max e Sergio,
gli infermieri e a Mirago, lo psichiatra,
inconsapevolmente attore di una nuova commedia umana. Usare il termine tragedia sarebbe in questo contesto
inappropriato. Perché il dolore e la sofferenza restano, perché gli psicofarmaci vengono utilizzati
ma dove
l'interazione tra matti e normali esiste, sia all'interno di Villa Aurora che all'esterno, nei luoghi di lavoro che
hanno accolto alcuni di questi malati (Marisa lavora in un maglificio, Aldo è bibliotecario, quasi tutti
seguono
un corso di storia dell'arte all'interno di Villa Aurora) rende le vite di queste persone vivibili per loro e per i loro
familiari nonostante la malattia. Questo tipo di terapia globale non sarà risolutoria, non li
renderà a una normalità per i più impraticabile, ma
lascerà i pazzi interamente umani nonostante la loro diversità. Non va dimenticato che
parte globale di questa terapia è la psicoterapia, anch'essa in fase di ridiscussione a più
livelli, dove le origini del male vengono cercate anche nel vissuto personale dei malati e nei loro rapporti con
i genitori. Benché l'autore espliciti all'inizio che vorrebbe raccontare questa storia con l'occhio del
cronista
medioevale, non riesce, per fortuna, a sfuggire all'incantamento della follia, alla follia come «parola proibita»,
come diceva Foucault e si arrende senza resistenza alla «impenetrabilità della follia e
all'intraducibilità del suo
linguaggio». E dato che spesso le storie dei «senza voce» restano occultate nel fluire del tempo ecco
perché un narratore che
dà loro parola visibile e udibile non è più solo cronista ma testimone vivo e partecipe
della sofferenza, ecco
perché questo libro mi è piaciuto.
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