Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 209
maggio 1994


Rivista Anarchica Online

Il dovere di non stare zitti
di Elena Petrassi

Chi è stato a Lisbona conosce il fascino di quella città, quella luce particolare che la illumina il mattino, i vicoli del vecchio quartiere dell'Alfama arroccato su una collina, l'odore dell'oceano portato dal vento, i sapori forti della cucina portoghese e quella patina che il tempo deposita su ogni cosa rendendo la città e l'intero Portogallo luoghi fuori dal tempo. Ci sono stata una volta sola, qualche anno fa, per circa una settimana. Ricordo di avere camminato a lungo per i vicoli dell'Alfama fermandomi a guardare le donne che abbrustolivano pesce e peperoni su piccole graticole poste sulla soglia delle case. Ho attraversato tutta la città seduta su uno di quei tram stretti e colorati che sembrano dovere finire contro la case a ogni curva, ho seguito le orme di Pessoa, lo scrittore, per le strade della Baixa, dello Chiado, del Rossio e mescolata agli odori di oceano e cibo, ho respirato quella «saudade» che in quella terra è più forte che in ogni altro luogo. È vero, è facile lasciarsi suggestionare dalle proprie letture, avere delle aspettative quando si visita un luogo in cui non si è mai stati e poi, a causa di queste aspettative, vedere solo quello che conferma quel che noi già sappiamo. Facile cadere in questo inganno quando si viaggia per il Portogallo e si incontrano gitani che viaggiano su carretti di legno coperti da un telo e trainati da un asino. Facile sentirsi a casa quando si incontrano vecchi con il viso così rugoso e bruciato dal sole da sembrare scolpito nel legno, vestiti di nero, con la maglia pesante anche d'estate e giovani che ti guardano apertamente con curiosità e bambini che ti corrono incontro per la strada: sembra di essere nel Sud dell'Italia. Così come girando per la città vecchia di Oporto ci si aspetta di essere finiti indietro nel tempo di almeno cinquant'anni se non di più. O come quando si passa di fronte a quelle che sembrano porte di casa e sono ingressi di locande, non hanno vetrine né insegne. O come, entrando nella biblioteca dell'Università di Coimbra, si respirano tutti insieme gli odori dei legni pregiati di cui sono fatte le librerie e l'odore di libri antichi, mentre gli occhi si abituano un poco alla volta alla luce soffusa che entra da alti lucernari aumentando la suggestione di un altro luogo fuori dal tempo. E ancora, seduta su una scogliera con l'oceano di fronte e l'intero continente alle spalle non potevo non sentirmi così, lontana da tutto, in Europa ma allo stesso tempo altrove.
Tutte queste sensazioni accumulate in quel lontano viaggio le ho ritrovate leggendo l'ultimo romanzo di Antonio Tabucchi, Sostiene Pereira (Feltrinelli 1994, L. 27.000).
Pereira è un giornalista di mezza età, grasso e sofferente di cuore, vedovo. Ha lavorato per trent'anni come cronista in un quotidiano. Ormai alle soglie delle vecchiaia si ritrova a curare le pagine culturali di un quotidiano del pomeriggio. O meglio, più che curarle le scrive per intero dato che pubblica traduzioni di racconti dell'Ottocento francese e tiene anche una rubrica intitolata «Ricorrenze» nella quale puntualmente ricorda la morte di scrittori famosi a partire da Luigi Pirandello. «Era il venticinque di luglio del millenovecentotrentotto, Lisbona scintillava nell'azzurro di una brezza atlantica, sostiene Pereira».
Pereira pensa alla morte, parla alla fotografia della moglie defunta, e benché abbia sentore dell'epoca in cui vive, si ritira sempre di più nel suo mondo di abitudini e di malessere: beve limonate piene di zucchero appena può, non legge i quotidiani e cerca di farsi raccontare quel che succede dal cameriere del caffè dove si reca quotidianamente, traduce meticolosamente i racconti francesi e si complimenta con se stesso per la sua bravura, litiga con la portiera dello stabile dove si trova il suo ufficio, perché Pereira pensa che lei sia una spia della polizia.
Ma in quel giorno di luglio Pereira legge un articolo di tale Monteiro Rossi, neo-laureato in filosofia, e collaboratore di una rivista d'avanguardia cattolica. Anche Pereira si dice cattolico, benché «stufo di avanguardie e cattolicismi» e la riflessione sulla morte di quel giovane filosofo lo incuriosisce, gli telefona, decidono di incontrarsi la sera stessa.
Questo incontro muterà per sempre la vita di Pereira: il giovane Monteiro Rossi, che si accompagna a una bella ragazza dai capelli rossi di nome Marta, ha un'anima sovversiva che si rivela sin dai primi incontri. Pereira lo assume come collaboratore della rivista e lo incarica di scrivere necrologi di scrittori famosi così da non essere impreparati nel caso in cui ne muoia qualcuno. Monteiro Rossi inizia però con un necrologio di Federico Garcia Lorca che comincia così: «Due anni fa, in circostanze oscure, ci ha lasciati il grande poeta spagnolo Federico Garcia Lorca. Si pensa ai suoi avversari politici, perché è stato assassinato. Tutto il mondo si chiede ancora come sia potuta avvenire una simile barbarie». Pereira trova che l'articolo sia «pericoloso», impubblicabile e che lui, Monteiro Rossi, sia o un incosciente o un provocatore. Nessuno, né in Portogallo né in Italia, paese d'origine del giovane, nessuno avrebbe mai pubblicato una cosa del genere.
Ma Monteiro Rossi non demorde, l'articolo successivo è dedicato alla morte di Filippo Tommaso Marinetti: «Con Marinetti scompare un violento, perché la violenza era la sua musa ... Con lui scompare un losco personaggio, un guerrafondaio». Pereira è sempre più incerto e confuso, il rapporto con Monteiro Rossi lo inquieta, così come quella Marta, una ragazza così avrebbe dovuto stare in Inghilterra, «dove le donne potevano dire quello che volevano», e mette in crisi il rapporto di amicizia di più lunga data che ha con un antico compagno di università, ora professore di letteratura a Coimbra. Pereira non sa cosa dirgli e dopo un solo giorno di vacanza torna a Lisbona dove trova ad aspettarlo un altro articolo di Monteiro Rossi dedicato a D'Annunzio, un necrologio vero questa volta, perché D'Annunzio è morto da qualche mese: «...Guardò con favore al fascismo e alle imprese belliche. Fernando Pessoa lo aveva soprannominato "assolo di trombone", e forse non aveva tutti i torti. La voce che di lui ci giunge non è infatti il suono delicato di un violino, ma la voce tuonante di uno strumento a fiato, di una tromba squillante e prepotente. Una vita non esemplare, un poeta altisonante, un uomo pieno di ombre e di compromessi. Una figura da non imitare, ed è per questo che lo ricordiamo». Non solo, Monteiro Rossi gli chiede anche aiuto e rifugio per un suo cugino italiano, Bruno, che è arrivato clandestinamente in Portogallo per reclutare volontari portoghesi che vogliano combattere in una brigata internazionale, in Spagna.
Durante un incontro con Marta, poco dopo l'aiuto che Pereira ha dato all'italiano, la ragazza gli dice che lo considera uno dei loro e alle repliche di estraneità del giornalista lei gli chiede allora se per caso lui è un anarchico individualista come quelli di cui la Spagna è piena in quel momento (Marta e Monteiro Rossi sono comunisti marxisti, non anarchici). Da quel momento gli avvenimenti precipitano, Pereira fa un altro incontro fatale, nella clinica talassoterapica dove si è fatto ricoverare per una settimana a causa del suo cuore. Il dottor Cardoso è uno strano medico che ha studiato psicologia e dietologia, che gli parla dei legami tra mente e corpo e della confederazione di anime che abita in ognuno di noi governata da un io predominante che di tanto in tanto cambia. Cardoso pensa che Pereira stia lottando contro un un nuovo io che fatica a imporsi, un io stanco della nostalgia del passato con il quale il giornalista colloquia costantemente. Ma Pereira è già cambiato e di lì a poco lo dimostrerà. Non vado oltre nel racconto della storia per non rovinare il gusto della lettura, né vi parlerò dei personaggi minori che pure sono essenziali per capire il mutamento del protagonista.
Ci sono alcune riflessioni cui questo libro induce: la prima riguarda la possibilità del cambiamento individuale e l'impossibilità dei mutamenti sociali di prescindere da quelli individuali.
La seconda riguarda la necessità di esercitare costantemente una vigile attenzione sul ricordo degli avvenimenti del passato, prima di tutto perché non cadano nell'oblio e poi perché nessuno si possa permettere di stravolgerne il significato: Pereira vive alla vigilia della seconda guerra mondiale, nell'epoca in cui i fascismi italiano e spagnolo sono egemoni, nell'epoca in cui il nazismo faceva paura a pochi e i campi di concentramento e di sterminio non erano ancora entrati in funzione. Il mondo stava per precipitare nella seconda guerra mondiale, in quanti immaginavano e temevano quello che stava per accadere?
Primo Levi diceva che i campi di sterminio ci devono stupire e preoccupare non perché siano stati in funzione una volta durante una guerra ormai lontana, ma perché non siano in funzione anche oggi. Perché quel che è accaduto una volta potrà accadere di nuovo, non ci sono vaccinazioni possibili contro la sopraffazione e la violenza.
Quel che è accaduto può accadere di nuovo, accade a poche centinaia di chilometri da noi nella ex-Jugoslavia e non solo.
E per finire il dovere di non stare zitti, di dire no, di proclamare la propria estraneità e la propria opposizione ai violenti, ai bugiardi, agli uomini della provvidenza e dalla memoria corta che si offrono come nuovo, a quelli che sono convinti che nascere a una certa latitudine sia intrinseca dote di superiorità, a quelli che pensano che il mondo intero sia un mercato, a quelli che alzano la voce e dicono che una vita umana vale il costo di una pallottola, a quelli di cui non gliene importa niente di quello che succede al di là dei loro ristretti orizzonti, a quelli che impaludati in vestiti lunghi, chiusi nei loro palazzi chiese o moschee che siano, e forti della loro ideologia religiosa continuano a pretendere di insegnare a tutti come, dove e con chi devono fare l'amore e procreare. A tutti gli adoratori della morte, della violenza e della sopraffazione che vorrebbero un mondo fatto a loro immagine e somiglianza: un mondo uniforme e piatto, regolato dall'invisibile mano del mercato, in cui ogni cosa, esseri umani inclusi sono merce possibile, un mondo in cui ai poveri verrebbero dati buoni per la sopravvivenza e i lavoratori dovrebbero inchinarsi a chi, nella sua infinita bontà imprenditoriale, «permette» loro di lavorare, un mondo dalla pelle bianca, sessuofobico, omofobico, capitalista, razzista, maschilista, a tutto questo diciamo no.