Rivista Anarchica Online
Nel nome di Bart
di Antonio Lombardo
Eravamo in pochi sabato 30 luglio dietro quella bara, trenta persone, se togli il
prete, il sacrista e le pie donne
della misericordia, e se togli anche i famigliari di Ettore, non più di venti persone, puoi definirli
«conoscenti» e
amici, hanno seguito il corpo di Vincenzina. Il Comune ha mandato un vigile urbano. Praticamente c'era
nessuno,
nessuno di quelle migliaia e migliaia di persone che hanno fisicamente conosciuto l'ultima sorella, l'ultima
testimone, l'ultima persona che ha conosciuto Bartolomeo Vanzetti, il suo Tumlìn. Era la sua ultima
sorella, la
sorellina «che è tanto intelligente» come scriveva Bartolomeo nel 1906 e Vincenzina aveva solo tre
anni. Non era
anarchica; cattolica, credente nello stato di diritto e convinta della validità della Costituzione
repubblicana, aveva
lottato decine di anni, da quando era morta Luigina nel 1950, per avere la riabilitazione legale di suo fratello
assassinato in quel 22 agosto 1927 insieme con Nicola Sacco. Eppure era orgogliosa dell'anarchismo di suo
fratello: il senso della dignità personale, lo studio, la cultura e la ricerca come strumenti di
emancipazione da un
padrone, la responsabilità che deve essere personale, questo era l'anarchismo che Bartolomeo le aveva
insegnato
e che teneva come memoria storica insieme con quelle carte tenute insieme da tanti fiocchi come le carte di un
innamorato, dentro quel baule che Tumlìn si era portato dietro in America. Lei impiegata
comunale, di media cultura, aveva saputo coinvolgere politici come Nenni e Terracini, ricostruire
un Comitato Sacco e Vanzetti che era stato, negli anni 60 un momento di unità di quella sinistra
socialista e
comunista, disunita e litigiosa per altri versi; aveva contattato e aperto la porta di casa a registi, uomini di
cultura,
giornalisti di mezzo mondo, scrittori americani, ricercatori universitari e avvocati, più o meno sciacalli,
pur di
far sapere a tutti che il «Caso Sacco e Vanzetti» non è chiuso e non poteva chiudersi così.
Voleva la riabilitazione
della memoria e quindi la revisione del processo, ottenne la Dichiarazione Dukakis del luglio 1977, a 50 anni
dall'assassinio di Nick e Bart. Il Governatore dello Stato del Massachusetts dichiarò formalmente che
quel
processo era frutto di caccia alle streghe, che la giuria era pregiudicante e che quindi «ogni stigma e onta
dovesse
essere allontanata dalle figure di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti» e dalla loro progenie e, dulcis in
fundo,
dallo Stato del Massachusetts. Fu un colpo al cerchio ed uno alla botte. Era la prima volta che uno stato, nella
sua
istituzione più alta dichiarava formalmente e solennemente di essersi sbagliato e che due lavoratori
erano stati
uccisi ingiustamente. Non era ancora quello che Vincenzina avrebbe voluto, la Dichiarazione non la
soddisfaceva,
ma la mobilitazione aveva sortito un frutto e le conseguenze istituzionali si fecero sentire: si riaprì il
Caso Sacco
e Vanzetti, e le memorie di sindaci locali ricordarono Sacco e Vanzetti con qualche via e una lapide sulla casa
natale. Non passava giorno che la RAI, un Comitato, la Regione, un Comune, un Istituto, un partito o una
associazione non indicessero una conferenza, un dibattito, un filmato, un incontro, una manifestazione sul caso
dei due «democratici lavoratori» assassinati ingiustamente. Vincenzina partecipava, aderiva, ma non le bastava.
Quando nel settembre 1977 la manifestazione ufficiale del Comitato Sacco e Vanzetti si svolse a Villafalletto,
davanti alla casa dei Vanzetti, si presentarono gli anarchici di Torino a rivendicare le responsabilità di
Nicola e
Tumlìn: erano colpevoli di essere anarchici, erano colpevoli di partecipare alle lotte per l'emancipazione
dei
lavoratori, erano dentro e corresponsabii della conflittualità tra i lavoratori e sfruttatori nell'America
di quel
tempo, ed erano stati assassinati per questo come Pinelli, come Serantini, con l'unica colpa di essere anarchici
ed
ora lo Stato che li ha assassinati assolve se stesso dichiarandosi «democratico» per aver chiesto scusa. Gli
anarchici ricordano che avvallare quella Dichiarazione di Dukakis significava dar credito allo stesso Stato che
ha ucciso i nostri compagni. Vincenzina quel giorno era sul palco con le autorità, in silenzio. Vide Tobia
salire
sulla scala a porre la nostra lapide chiara e sincera, vide il sindaco di Racconigi strappare i nostri cartelli e
sapeva
che quella nostra lapide il giorno dopo sarebbe stata tolta e distrutta. Riunì il Comitato locale e
qualche partigiano, scrisse una lettera al Sindaco affinché quella lapide non fosse tolta.
«Il mio Tumlìn era anarchico» Vincenzina lo ha sempre detto alla luce del sole, perché era la
dignità di suo
fratello e così doveva essere riconosciuto ai suoi compagni. La lapide è ancora lì sul
corso Sacco e Vanzetti a
Villafalletto, su quella che fu la sede del locale Comitato Sacco e Vanzetti. Nel 1986 la cercai per dirle del
convegno sul 60° anniversario, lo avremmo tenuto a Villafalletto e avremmo ricercato la logica di quel caso;
non
la cronaca dei fatti, ma il perché è successo, quello volevamo dire nel Convegno. Diventammo
amici, aperta la
porta ci si parlava in cucina, magari mentre si giocava a carte con Caterina, la sua cugina amica, più
che parente.
Vincenzina aderì al Convegno del 1987, non solo aderì, ma quelle carte che aveva custodito
Luigina, salvandole
da razzie fasciste e sciacallaggi, magari da chi, in buona fede e scema cultura, pensava che bisognava
sbarazzarsene come una vergogna, causa di fastidi - quanti villafattesi la pensavano così e quanti ancora
pensano
sia un fastidio la presenza storica dei Vanzetti -, quelle carte che ora sono il Fondo Vanzetti, vennero messe a
disposizione dell'Istituto Storico della Resistenza con l'accordo che copia conforme dovesse essere donata agli
archivi del movimento anarchico italiano, in pratica al Centro Studi Libertari «Giuseppe Pinelli» di Milano e
all'Archivio Famiglia Berneri, allora a Pistoia. Questo scrisse Vincenzina a Michele Calandri, direttore
dell'Istituto Storico della Resistenza in Provincia di Cuneo. Anni fa, un avvocato di Milano, pensando che
Bill Clinton, presidente «democratico», fosse meglio di un
repubblicano, ripropose la revisione del processo. Le telefonai per chiederle cosa ne pensava e le sue parole
furono miele per me: «Non c'è bisogno di nessun nuovo
processo, è già acquisito che erano e sono innocenti, è già nella memoria
storica». Come per Pinelli, come
Serantini, come per mille altri assassinati o lasciati morire in nome della «Ragion di Stato». È
già nella memoria.
Sentii la sua voce giovane sorridere e pensai che, posato il telefono, sarebbe ritornata a giocare a carte con
Caterina, serena. Sì, serena nonostante il male la divorasse fino a farle diventare pesante tutto il corpo
giorno dopo
giorno, prima le braccia poi gli ultimi mesi era solo più a letto, ma chi le stava vicino sa che sapeva
ancora
sorridere, coi suoi occhi chiari e la voce giovane. Una donna bella. Per quanti al suo funerale pensavano
di sbrigarsi a seppellirla, rimane significativo un episodio. Alla fine della
sepoltura, un giovane, un ragazzo ben vestito senza barba, magro e serio, si avvicinò al figlio di Ettore
- l'ultimo
fratello di Bartolomeo morto una decina d'anni fa - «le porto il saluto della Lega Internazionale dei Diritti
dell'Uomo e, personale, di Joan Baez». La memoria storica continua, chi sa diventa a sua volta testimone.
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