Rivista Anarchica Online
Quale federalismo
di Alessio Vivo
Nell'autentica voragine rappresentata dalla mancanza di cultura federalista in
Italia, uno dei Paesi più centralisti
del mondo (e quindi, secondo Proudhon, uno dei più soggetti a tirannie, come del resto dimostra il
passaggio
ininterrotto da dittature a tirannidi partitocratiche), il conciso lavoro di Gigi Di Lembo Il
federalismo libertario
e anarchico in Italia, dal Risorgimento alla Seconda Guerra Mondiale, stampato nei «Quaderni
Libertari»
delle Edizioni «Sempre Avanti» di Livorno, rappresenta una piccola ma utile scaletta per tentare di tornare alla
luce che risplende su quella superficie di conoscenza, sulla quale da decenni sono attestati gli studi di ricercatori
di altri Paesi sul medesimo tema. Il volumetto infatti getta luce su un lungo periodo storico e sulla vicenda
dimenticata del federalismo libertario
ed anarchico italiano, a partire dal federalismo risorgimentale fino al determinante passaggio per la scuola
bakuniniana (una lente che ha raddrizzato non poco delle storture del federalismo repubblicano, come è
accaduto in Spagna), per poi raggiungere i dibattiti interni al «federalismo giellista» e quelli interni al
federalismo anarchico, fra la visione di Camillo Berneri e quella di Molaschi. Il federalismo è
argomento attuale ma controverso, anche per le forme che ha attraversato, ma le distinzioni
interne alla teoria federale si rivelano indispensabili proprio per muoversi con agilità nella stretta logica
che la
contraddistingue e che ne fa anche uno strumento per comprendere la dinamica della politica e delle strutture
che la governano. Di Lembo opera una distinzione netta fra federalismo libertario e federalismo anarchico,
chiarendo in questo
modo una distanza che è rimasta in qualche caso in ombra anche nelle teorie più serie del
federalismo.
Identificando il secondo con la sua natura «antistatale», con la sua ricerca di un ordine orizzontale ed
omnicentrico (che equivale ad acentrico), in cui prevale l'individuo, in cui vige il rifiuto perfino della delega,
della suddivisione in maggioranze e minoranze e in cui domina soprattutto l'autogestione, egli lo fa coincidere
con quello che i maggiori studiosi statunitensi del federalismo definiscono l'antistate federalism.
La definizione
di Di Lembo dunque è corretta, ma la contrapposizione delineata al federalismo libertario, considerato
proprio
da quegli studiosi come sinonimo di anarcho-federalism, appare in verità per la prima
volta così posta in questi
studi. L'intenzione del lavoro di Di Lembo era comunque quella di porre un netto discrimine fra il nuovo
e più giovane
federalismo, indirizzato al superamento della dimensione statale e della sua idea totalitaria di sovranità
unica,
esclusiva ed assoluta e il vecchio federalismo, verso il quale certamente anche il federalismo giellista, come
aveva previsto Berneri, sarebbe scivolato una volta conquistato il potere: il federalismo che ha portato nelle
maggiori esperienze federali ad un processo di centralizzazione statale e di aumento dei poteri e dell'invadenza
dello Stato centrale. La distinzione teorica operata dall'autore, se giustificata sul piano storico (e quindi
logica in un'opera di storia
dedicata ad un periodo limitato), oggi, in una fase di crisi e di declino degli Stati nazionali unitari accentrati
sfuma proprio lungo quelle stesse direttrici che Di Lembo delineava: la continuità fra federalismo
libertario ed
anarchico, limpidamente teorizzata da Berneri (il quale non a caso aveva descritto i processi oggi in atto, nel
suo articolo di «Umanità Nova» La crisi dello Stato, del 3 settembre 1921). Il
neofederalismo che oggi dilaga
in tutto il mondo, coincide con la crisi degli Stati nazionali ed è una sua conseguenza. Con questo
declino
storico, tramontano anche i miti della sovranità unica ed assoluta e si afferma l'aspirazione alla
creazione di
strutture organizzative che garantiscano la pluralità. Il neofederalismo, che è esattamente
l'opposto di quello
ormai decrepito cattaneano, tutto volto a creare l'unità, si indirizza sempre più verso strutture
acentriche, in cui
non esista affatto un centro unico di decisione e in cui prevalgano gli elementi tendenzialmente anarchici che
già si vedono in alcune strutture di autogoverno elvetico, come sosteneva anche Colin Ward. Rimane
determinante la struttura della forma organizzativa, autogestionaria, ecc. (e la costante capacità di
migliorarne
gli strumenti), che già Proudhon, Bakunin, Berneri, avevano ritenuto (a differenza di alcuni anarchici
che le
rifiutano tutte) come garanzia di attuazione della libertà e dell'autogoverno. Tutto dipende da come
si dispongono le comunità sovrane, la pluralità di sovranità equivalenti, essenziale per
il federalismo; quella pluralità che significa: nessuna sovranità. La crisi del dogma della
sovranità assoluta è
infatti già smobilitazione dello Stato (che è sorto con essa). La contrapposizione fra federalismo
repubblicano,
giellista, libertario e federalismo anarchico, oggi dunque sfuma in quella fra autentico federalismo e falso
federalismo. Il federalismo anarchico ha avuto la lungimiranza di anticipare il federalismo autentico.
Già Proudhon aveva
sottolineato che l'autorità federale non è un vero governo, che una confederazione non è
propriamente uno Stato,
ma un'agenzia composta dalle entità componenti la confederazione, un gruppo di entità sovrane
e indipendenti.
Già Proudhon aveva chiarito che l'importante è la frammentazione del potere centrale e che
caratteristica
essenziale per il regime di libertà in cui si esplicano il federalismo, l'anarchia e l'autogoverno è
la divisione
radicale del potere (Du Principe fédératif, 1863). Fatto ancor più
importante, il neofederalismo, che è un
prodotto delle cose, ritorna sui passi del federalismo anarchico di Proudhon, che ha anticipato il tema del
contratto di federazione: non più il patto politico firmato una volta per tutte, indissolubile, come nel
federalismo
tradizionale, cattaneano, ecc., ma rapporti fra le parti regolati da liberi contratti, in ogni momento rivedibili e
modificabili (che ammettono quindi logicamente il diritto di secessione, difeso da tutti i federalisti anarchici).
Il neofederalismo (quello autentico) è legato a filo doppio al primato del contratto, che non genera mai,
per sua
natura, un potere sovrano. Il neofederalismo inoltre è un prodotto di quella inversione del processo
di affermazione violenta e di
consolidamento dello Stato moderno che Kropotkin aveva descritto e la cui crisi (ormai sostenuta da alcuni
decenni come un fatto evidente, dai più seri studiosi della politica a livello mondiale e negata solo da
alcuni
ostinati e provinciali politologi nostrani), apre la via a comunità e convivenze liberamente federate fra
loro e
insofferenti di vincoli superflui, che comprimano la loro struttura fondata su vincoli di natura contrattuale.
Per concludere, il chiaro lavoro di Di Lembo si pone come una base indispensabile per capire tutta la forza
anticipatrice del federalismo anarchico, la sua esperienza storica e la sua portata, della quale perfino molti fra
i libertari non sono del tutto consapevoli, particolarmente oggi, nel momento in cui il vero federalismo (il
neofederalismo generato dall'evoluzione storica) è portato a nutrirsi, per forza di cose, di alcune fra le
sue più
feconde anticipazioni. Per l'Italia, il Paese al quale è dedicato il breve schizzo storico, rimane
però ancora forte l'incognita del
superamento in senso federalista di uno Stato che ha distrutto le caratteristiche e le forze più vive
dell'autogoverno e della libertà comunale e locale. Non solo il centralismo spietato, ma anche il vecchio
federalismo statalista, tentano di rialzare la testa ad ogni occasione propizia. Il neofederalismo è
ormai un'esigenza delle strutture politiche moderne. Si vorrebbe poter credere, ma le prove
contrarie sono innumerevoli, che la maturazione di un processo per sua natura inevitabile non debba aver
bisogno di imboccare, per esplodere e seguire il suo libero corso, delle vie che sono state sperimentate, negli
unici momenti di affermazione del federalismo, in Spagna nel 1873, con le insurrezioni cantonaliste e la breve
esperienza federalista di Pi y Margall e nel 1936 con l'esperienza catalana, oppure in Francia nei periodi
comunalisti della fine del XVIII secolo e della seconda metà del XIX. Data la situazione attuale,
però, e
considerato realisticamente il fatto che la violenza rimane nella maggior parte dei casi l'inevitabile levatrice
della storia, la progettazione di una via diversa per l'affermazione del federalismo in un Paese centralista come
il nostro, può essere un esercizio retorico, appagante solo per chi sia abituato ad illudersi sulla natura
reale del
potere di uno Stato tirannico com'è quello nazionale accentrato.
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