Rivista Anarchica Online
Maudie e Jane
di Cristina Valenti
Uno spettacolo sulla solidarietà, sulla vecchiaia, sul senso dell'esistenza. Judith Malina e Lorenza
Zambon
protagoniste di un'eccezionale riduzione teatrale del romanzo Il diario di Jane Somers di Doris
Lessing.
Si sono incontrate in farmacia: Jane, una quarantenne giornalista in carriera, che
ha fondato sullo stile il suo
successo e l'ha costruito con meticolosa dedizione, lasciando rigorosamente fuori dalla sua vita la cognizione
del dolore, non riconoscendone il volto neppure nella sofferenza, e poi nella morte, della madre e del marito;
Maudie, una novantenne burbera e malata, che trascina il suo fagotto di fatica ben decisa a non cedere: al
ricovero in istituto o in ospedale, all'aiuto delle «buone vicine», ai medici, alle pastiglie. Il suo diritto ad essere
considerata una persona lo urla con dei secchi rifiuti. Jane si trova a seguirla, cadenzando il suo passo veloce
sul balletto di passettini graziosamente stentati di Maudie, che si volta lanciandole un invito indecifrabile, duro
e pericoloso come quello della seduzione. E Jane è già sedotta, anche se, prima di cedere del
tutto, lotterà con
se stessa e con Joyce (la direttrice della rivista, sul cui stile Jane ha modellato il proprio e alla quale si rivolge
ininterrottamente nei suoi pensieri, per ritrovarsi o giustificarsi); finché non lascerà addirittura
il giornale per
dedicarsi interamente a quella «piccola vecchia strega». Sedotta da cosa? L'estrema vecchiaia può
essere di per
se stessa seducente, come il fiore della giovinezza? E quali sono i suoi strumenti? La ritrosia, il rifiuto a
concedere troppo di sé, la diffidenza verso chi è più forte, il centellinare momenti di
abbandono e gratitudine
... tutto questo, e in più la perfezione di un racconto di vita che si srotola a partire dal momento del suo
completamento, regalando a chi ascolta il senso di un dono che non potrà venire guastato più,
da nessun capitolo
successivo che ne ridisegni il senso a posteriori.
La vecchiaia tutta vecchiezza Maudie è Judith Malina, che al
personaggio della vecchia lega, aggiungendosi ventidue anni, un'interpretazione
indimenticabile; Jane è Lorenza Zambon, dell'Alfieri Società Teatrale di Asti, bravissima nello
sciogliere
lentamente la rigidità del suo personaggio di donna dominatrice fino a metterlo al servizio della storia
che
finisce per assorbirla: da impeccabile professionista in carriera a stranita e sensibile testimone di una vecchiaia
della quale sa raccogliere il messaggio finale. La scena è una passerella, o un ponte che collega
i due mondi, un passaggio in salita, che consente una sola via
di accesso: dalla giovinezza alla vecchiaia e mai viceversa, fino alla fine. Un pavimento di mattonelle lucide
e bianche, che sembra pericolosamente sdrucciolevole sotto i tacchi alti e affilati di Jane. Bianco e lucido come
le piastrelle degli ospedali, o come le pagine patinate di una rivista di moda, o come la vasca splendente di un
'bagno dove Jane immerge a lungo il suo corpo «bianco, sodo, senza grasso». Sdrucciolevole e pericoloso come
un terreno minato, un territorio insidioso e straniero, un fiume cristallino che sotto la distesa specchiata delle
sue acque apre gorghi invisibili e mortali. Jane percorre questo spazio in salita e in discesa, dalla sua casa tutta
bagno e specchio e acqua trasparente che il filo del telefono/doccia collega con un fuori altrettanto smagliante,
fino alla casa di Maudie, lassù in alto, persa nella distanza di un mondo che ci rimane appannato anche
a
strofinarci gli occhi. In fondo allo specchio di Jane c'è in agguato il volto della vecchiaia. In cima a
quella salita
sdrucciolevole è già arrivata, basta ricongiungercisi. La vecchiaia non si vede finché
non la si accoglie, volenti
o nolenti: quando è lei a raggiungerei, solitamente; nel caso di Jane, invece, quando è
l'esperienza ad anticiparla.
E Jane, che non aveva mai fatto caso ai vecchi che incontrava per strada e neanche alle persone invecchiate della
sua famiglia, d'improvviso li vede, quanti sono, da quando la vecchiaia di Jane è pian piano penetrata
dentro
di lei, attraverso il contatto con quella sporcizia e con quella puzza che «a odorarla fa differenza». E in fondo
alla vasca, dall'altra parte di tutta quell'acqua, l'America che ha portato via Joyce, cioè il tempo, che
è passato
sullo splendore delle cose e le ha trasformate. Lo splendore di Maudie si è offuscato da un pezzo.
«Anni fa -
dice a Jane - ero già vecchia». Ma in fondo a quegli anni, di là da tutto quel tempo che l'ha
raggiunta dal di fuori
per abitarle dentro, come un peso che ne rallenta i movimenti e ne rattrappisce le membra, e da cui è
difficile
liberarsi tutte le mattine, al di là del dolore e dell'impotenza, oltre quel mondo di ricordi che è
la vecchiaia tutta
vecchiezza, le parole inanellano il racconto di una vita tutta giovinezza. Dal corpo stanco di Maudie, che si
ribella alla volontà fino all'incontinenza, si staccano dita agili e ballerine, che disegnano nell'aria la
destrezza
per cui erano preziose un tempo, quando confezionavano cappelli degni delle vetrine di Parigi. Si raccontano,
Maudie e Jane e, scambiandosi, le loro parole costruiscono immagini di mondi rovesciati. La vecchiaia non
è
una strada per la quale ci si incammina, distaccandosi dalle proprie cose, dagli affetti e dalle gioie. La vecchiaia
arriva là dove si è, circoscrivendo il proprio spazio vitale e restringendolo progressivamente,
mentre sono le
cose, gli affetti e le gioie ad allontanarsi. E quando Jane entra nel mondo di Maudie, e quella vecchiaia
l'avvicina e la sveste, trattandola come una persona e un corpo e non come un'istituzione, questo sembra
scandaloso e crudele. Maudie se ne sta là in piedi, un uccellino senza piume, l'immagine della
fragilità assoluta,
e offre la sua nudità dolente alle mani di Jane per farsi lavare. Il linguaggio di quel corpo che si espone
e si ritrae
esprime pudore violato e svela però anche, attraverso minuscoli, accennati dettagli, il piacere di potersi
abbandonare alla cura di gesti affettuosi ... Eppure non è la dolcezza né la tenerezza ad arrivare
agli spettatori,
che (a volte) ridono per risolvere l'imbarazzo e (più spesso) si commuovono fino alle lacrime. Quella
che
potrebbe essere un'azione bella e rassicurante se fosse una madre a lavare un bambino, è invece
profondamente
triste. Perchè? Perché la nudità di un corpo invecchiato ci sembra così tragica
e scandalosa? Forse perché si
tratta di una nudità assoluta - come assoluti sono il dolore e l'irrecuperabilità della vecchiaia
- laddove la
gioventù o la bellezza vestono la nudità di grazia, o di sfida, o di liberazione (ricordate Paradise
Now?). E quasi
trent'anni dopo Paradise Now Judith ci fa capire in che cosa consista la tragedia della nudità che tutti
noi
abbiamo colto nelle tante immagini di sopraffazione e violenza che sono stampate nella nostra memoria
collettiva: i campi di sterminio, i manicomi ... Immagini di vergogna senza colpa. E' una scena che supera di
gran lunga lo standard della comunicazione fra palcoscenico e platea per aprire squarci di autenticità
pari - per
forza e verità - a certi momenti «crudeli» del Living Theatre: la scena della tortura nelle Sette
Meditazioni,
quella della peste nei Mysteries. Judith è consapevole del contenuto artaudiano di questo spettacolo,
che
trasforma, con la sua presenza, facendo esplodere la sofferenza che la nostra società nasconde attraverso
i suoi
tanti infingimenti. Tutta la nostra civiltà e l'intero nostro costume sociale tendono a superare e
mascherare lo
scandalo della vecchiaia, o attraverso un'operazione di rimozione collettiva (chissà perché i
vecchi non figurano
mai fra le categorie deboli da proteggere) o costruendo, della vecchiaia, immagini rasserenanti e
bamboleggianti, sublimandola in raffigurazioni da fiaba. Al contrario, Judith dà alla vecchiaia di
Maudie una
voce straziata, restituendone la condizione crudele e non sublimata. Sì, c'è dolcezza, ironia e
buffa intemperanza
«infantile» nel ritratto di Maudie, ma è il modo in cui il vecchio adotta strumenti di seduzione nei
confronti del
giovane, per trattenerlo presso di sé. (Il pensiero di Maudie: «Jane! Vieni a vivere qui con me. Pulisci
tutto come
vuoi tu. Dài. Trovati un posto tuo e non mollarlo mai ... »). Per poi odiare quella richiesta e la sua
debolezza
e negarla in un nuovo impeto di umor burbero. «Orrore, orrore, orrore», urla Maudie ripetutamente. E non
è mai
allo scandalo della vecchiaia che si riferisce, ma a quello del suo rifiuto, alla necessità della
dissimulazione, che
è il solo modo per farsi accettare. Maudie che si rifiuta di morire, che aveva voluto morire una
volta, da giovane, quando le era stato sottratto il
figlio - allora sì che stava male, non adesso, che sta vivendo con Jane «il periodo più bello della
sua vita» -
Maudie è incomprensibile perché non si concepisce che la vita sia tale, a pieno titolo,
finché c'è. Jane lo capirà,
e diventerà altrettanto incomprensibile. «E dopo? Stasera, domani dove andrà a finire questo
fagotto di energia?
Questo furioso fagotto di energia? Così?» fa il gesto delle cose che si volatilizzano, come faceva Maudie
per
dire di certe cose che c'erano ai suoi tempi e che lei ricorda e poi via, se ne sono andate. Irrimediabilmente.
«Così? E' più di quanto io riesca a credere ... ». E non è così infatti. Alla morte
di Maudie sopravvive il
racconto. E l'ultima scena dello spettacolo ritorna indietro, a un momento prima dell'ospedale. A casa di Maudie,
anche se, per la prima volta, Judith siede all'altra estremità della passerella, nella zona di Jane, proprio
attaccata
al pubblico; perché Maudie se ne è andata, ormai, ma Jane ne trattiene presso di sé le
storie. Prendono il thé e
Maudie racconta, come al solito. Questa volta parla di quando era a servizio da un'attrice del Liric Theatre di
Hammersmith, una donna libera, niente uomini, niente bambini, la cena tenuta in caldo da Maudie, la sera,
quando tornava a casa da teatro; e una volta le disse: «Siediti Maudie, mangia qualcosa con me, non so cosa
farei senza di te. Lo sai? Questo è il periodo più bello della mia vita». E' uno spettacolo
sulla solidarietà, ha detto Judith, il rapporto fra Jane e Maudie spiega come dovrebbero andare
le cose in tutta la società, a tutti i livelli. Quello che capiamo subito di questo discorso è che
i forti dovrebbero
aiutare i deboli. Quello che Judith ci spiega con la straordinaria interpretazione che ci regala in questo spettacolo
è che, reciprocamente, i deboli, le persone che la nostra società emargina e costringe a
nascondersi, hanno
qualcosa di altrettanto prezioso da regalare. Da loro si può imparare a riconoscere lo splendore laddove
nulla
sembra luccicare, dove non c'è glamour né seduzione. Lo splendore di una vita che quando sta
per spegnersi
è in grado di illuminarne altre, anche imprevedibilmente, come accade alla bella e ambiziosa Jane, che
finisce
per mettere in discussione tutto per riconoscere la bellezza altrove, nell'autenticità della vita in tutti i
suoi
aspetti, orrori compresi («Joyce! Lo vuoi capire? E l'unica cosa vera che mi è successa da un sacco di
tempo!»).
«Creare orrore e liberare il sentimento»: questo, secondo Julian Beck, doveva essere il compito dell'attore, alla
ricerca di un personale «splendore in cui tutto acquista coerenza».
Gli "alfieri"
Gli "alfieri" sono un organismo teatrale attivo ad Asti fin dal 1971 e professionale dal 1978 (con la
denominazione "Magopovero"). Da sempre l'attenzione e il lavoro del gruppo sono rivolti ad un teatro
dell'utopia e dei bisogni sociali
dell'uomo. Per questo il Living Theatre è stato fin dall'inizio un loro costante punto di
riferimento. Gli "alfieri" negli anni hanno alternato la produzione di testi di Luciano Nattino, scritti spesso
in collaborazione
con Antonio Catalano (Moby Dick, Galileo, Scaramouche, Van Gogh, Creature, Alberi, Nessuno,
ecc.) Con testi
di autori contemporanei (Samuel Beckett, David Mamet, Victor Haim, Gérard Gélas, Raymond
Cousse, ecc.). Il nucleo artistico permanente è di sei persone (più tre che si dedicano al
lavoro organizzativo), ma attorno al
lavoro teatrale della compagnia ruotano annualmente altre otto/dieci persone tra attori e tecnici. Il primo
di ottobre '94 è stata inaugurata la "cascina degli alfieri", su una collina nel cuore del Monferrato, una
vera e propria "casa del teatro" dove, oltre agli appartamenti personali degli "alfieri", ci sono camere per
ospitare altre persone, uffici, sale comuni e soprattutto uno spazio teatrale dove realizzare spettacoli, studi,
laboratori. Fuori della casa c'è un grande parco con un teatro a gradoni d'erba. Maudie e
Jane è il primo progetto teatrale italiano al di fuori del Living cui Judith Malina ha voluto
partecipare.
Gli "alfieri" hanno voluto tenacemente la sua presenza, realizzando così un progetto che sembrava
impossibile.
Questo perché il Living è stato un momento decisivo per la loro formazione e per le loro scelte,
e perché Judith
ben poteva rappresentare (seppure con ventidue anni di meno) il carattere e l'energia di Maudie. Il testo di
Maudie e Jane è di Luciano Nattino, tratto dal romanzo Il diario di Jane
Somers di Doris Lessing.
Regia di Luciano Nattino. Impianto scenico di Maurizio Agostinetto. Luci di Rocco Colaianna e Adriano Salvi.
Produzione Alfieri Società Teatrale in collaborazione con Altomonte Festival.
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