Rivista Anarchica Online
Il processo
di Carlo Oliva
Visto come si sta mettendo la faccenda, corriamo decisamente il rischio, dopo tante lotte e tante speranze,
di essere costretti a sperare che Andreotti sia assolto
Quando è cominciato il processo Andreotti, alla fine di settembre, ero
all'estero: mi è stato risparmiato, quindi, il clamore
mediatico che, a quanto mi dicono, in patria ha accompagnato l'evento. Tutto quanto ho appreso, da sobri articoli
in
taglio basso sulle prime pagine dei rari quotidiani in lingua inglese che riuscivo a trovare, era che l'Italian
former P. M.,
Mr. Giulio Andreotti, 76, affrontava i suoi giudici per difendersi dall'accusa non di essere il referente
politico della mafia,
espressione che il medio lettore anglosassone difficilmente avrebbe capito, ma di aver protetto e sostenuto
l'attività della
mafia dalle sue posizioni di potere. Che era, in fondo, un'interpretazione abbastanza ragionevole del senso
dell'accusa,
anche se in Italia, naturalmente ci si affrettava a precisare che non per la sua attività di governo il Giulio
nazionale era
sottoposto a giudizio (ché altrimenti a Palermo non lo si sarebbe potuto processare, a scorno e dispetto
del Procuratore
Caselli), ma per quella di leader politico e capocorrente e che, in ogni caso, il processo era un
processo penale
assolutamente normale, senza alcuna sfumatura o caratterizzazione politica: distinzioni sottili, che sembravano
(e
sembrano) ispirate più alla necessità di procedura che a una logica giuridica qualsivoglia e che
avrebbero probabilmente
confermato i cronisti e i corrispondenti stranieri nell'opinione, largamente espressa nei loro articoli o in appositi
elzevirini
di accompagnamento, per cui l'Italia è per definizione il <<paese di Machiavelli>>.
Perché naturalmente il processo di
Palermo, riguardando, checché dicano i magistrati, dei comportamenti politici, è un processo
politico. Dei grandi processi
politici ha, anzi, certe caratteristiche tipiche, prima di tutte quella di coprire, con ovvia valenza simbolica, un
esponente
di una classe dirigente se non proprio sconfitta almeno preterita, o comunque sottoposta a un ricambio radicale.
Niente
di strano: da che mondo è mondo, i politici, qualsiasi nefandezza si suppone abbiano commesso, li si
processano solo
quando hanno perso il potere: prima, con tutto il dovuto rispetto per il mito dell'indipendenza della magistratura,
succede
piuttosto di rado.
Capro espiatorio Ma attenti: il processo Andreotti,
per quanto politicamente suggestivo, non è il processo al regime democristiano, non
è il Processo che in uno dei suoi momenti di più lucida e alta ingenuità chiedeva il povero
Pasolini. Un ricambio, per
quanto radicale, del ceto politico o della classe dirigente non significa necessariamente una rottura nella
continuità di un
sistema politico (nel senso che un Craxi può essere confinato ad Hammamet e il craxismo può
restare vivo o vitale), e
infatti il senatore Andreotti non viene processato per quello che manifestamente ha fatto, ma per quello che si
sostiene
abbia fatto in occulto. Non per essere stato un pilastro del sistema democristiano, la cui legittimità e
moralità di fondo
tutti si guardano bene di mettere in discussione, ma perché lo si accusa di aver fatto, per così dire,
a latere, gli interessi
della mafia. Il che, in un certo senso, è un modo di affermare che gli interessi della mafia e quelli del
potere ( del potere
democristiano, ma non solo di quello) sono ovviamente distinti e che quello di mescolarli è un
comportamento
eccezionale, anzi delittuoso, che è una tipica petizione di principio che mal si concilia con ogni
consapevolezza storica
del fenomeno. E significa, in parole povere, che l'ottimo Giulio rischia di diventare il classico capro espiatorio,
la cui
auspicata condanna significherà l'assoluzione di molti, moltissimi altri. Anche questa è una
caratteristica dei processi
politici, che spesso vengono intentati, più che condannare qualcun altro, per assolvere se stessi.
Solidarietà nazionale Bé, direte voi,
Andreotti se l'è voluta. Sì, certo, e più di quanto appaia a prima vista, visto che l'impianto
dell'accusa si
regge in buona parte sulle classiche delazioni dei <<pentiti>>, come a dire su quella legislazione
premiale della cui
disastrosa introduzione nel nostro sistema giudiziari i governi Andreotti dei tempi della solidarietà
nazionale sono stati
largamente responsabili. Il senatore a vita si sarà ormai reso conto che la legislazione premiale ha una
logica che, al di
là delle affermazioni di facciata sulla necessità che ogni chiamata di correità sia
validificata dai mitici <<riscontri>>, rende
praticamente indiscutibili tanto il ruolo dei pentiti quanto la gestione che ne fanno le procure. Ma ben poca
soddisfazione
possiamo trarre dal fatto che certe procedure assurde si siano ritorte contro chi ne è stato fautore.
Soprattutto
considerando che, visto come si sta mettendo la faccenda, corriamo decisamente il rischio, dopo tante lotte e tante
speranze, di sperare che Andreotti sia assolto.
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