Rivista Anarchica Online
Autonomia e libertà in Paul Goodman
di Pietro Adamo
Una concezione politico-sociale (e non solo) con cui vale la pena fare i conti.
Attivismo «creativo» e attivismo «trasgressivo»
«Per natura io non sarei fatto per la politica»: il rifiuto dell'azione politica tradizionale, nel contesto delle cosiddette
democrazie occidentali, è ovviamente uno dei princìpi ispiratori dell'anarchismo goodmaniano. Ma, come
per non pochi
altri anarchici, l'azione propriamente politica non si riduce alle semplici operazioni di voto e delega della rappresentanza,
ovvero alla sfera delle «funzioni coercitive dello Stato». A questa «politica della coercizione» Goodman oppone una teoria
della «politica naturale» che si configura come un'estensione nell'ambito comunitario dei poteri creativi e immaginativi
dell'individuo: le iniziative del privato in campo sociale «che non sono usuali, che affrontano un'opposizione iniziale e
che devono guadagnarsi l'accettazione, sono politiche». Adattando una delle idee cardine dell'anarchismo classico,
Goodman postula l'esistenza di una sfera sociale in cui ogni singolo sia libero di proporre esperimenti innovativi: in una
«società libera» ciò non potrà configurarsi come una «politica coercitiva», perché, «se
l'idea fosse erronea [...], allora il
libero giudizio della gente resisterà con sicurezza, dal momento che in campo ci sono magari altre idee positive».
Nella scena contemporanea questo genere di attivismo è reso possibile dall'esistenza di aree di libertà,
intese non solo come
zone franche dal punto di vista sociale, ma anche come zone in cui può esplicarsi la libera azione del pensiero. A
parere
di Goodman non sono pochi gli esempi di come, nel corso della storia, «siano sorte grandi cose dall'ambito dell'economia
quotidiana e dell'esistenza domestica». L'azione politica dei libertari consiste quindi nell'esercitare la loro creatività
in
spazi sociali e intellettuali in cui è possibile combattere il cosiddetto «sistema organizzato»: «ogni proposta nuova
e
radicale, relativa al campo della cultura e delle istituzioni», scrisse in Growing up Absurd, «inventa e scopre
una nuova
proprietà della natura umana», contrapponendosi così alla coercizione artificiale e alla «politica innaturale»
dello stato. Del resto, i libertari hanno a disposizione anche uno strumento di intervento più immediato e diretto
nel loro confronto con
il potere consolidato. In uno dei momenti più critici della sua carriera - la stesura del May Pamphlet
nel corso del 1945
- Goodman indicò il fondamento di una politica libertaria nell'«incoraggiare un aumento di quelle precise azioni
e atti per
cui le persone sono di fatto sbattute in galera», fornendo - in questo caso - una giustificazione teorica della renitenza alla
leva. Non si trattava di un semplice invito alla trasgressione generalizzata - tanto, notò, «non credo che il nostro
piccolo
numero intaserebbe le prigioni» - ma invece della richiesta che si prendesse atto della relazione tra la coercizione giuridica
e quegli atti che minavano, in se stessi, la struttura del «sistema organizzato». Nel May Pamphlet Goodman
si sforzò di
mettere al servizio della nozione di «società naturale» - ovvero di una società fondata sulla crescita
spontanea e articolata
della comunità - le sue nozioni psicanalitiche e antropologiche, conferendo nuova attualità alle idee di
Kropotkin.
Appropriandosi di un termine di Auguste Comte, Goodman sostenne che la Società moderna (con la maiuscola)
era fondata
sulla «sociolatria», ovvero sulla «preoccupazione che le masse alienate dalla loro natura più profonda sentono
per il corretto
funzionamento della macchina industriale che dovrebbe assicurar loro un più alto tenore di vita». Il tratto
caratteristico di
questo tipo di organizzazione sociale consiste nell'introiezione, da parte dei cittadini, dei meccanismi repressivi: «la
separazione tra gli interessi naturali e la condotta istituzionale non è solo il segno della coercizione, ma è
anche
potentemente distruttiva per la società naturale». Il libertario deve infine saper distinguere tra gli atti «dannosi per
qualsiasi
società» (per esempio l'omicidio) e quelli invece «dannosi» solo per i poteri costituiti. Tuttavia le
argomentazioni di Goodman si imperniano su una «liberazione» individuale, sui processi che conducono
innanzi tutto alla maturazione etica dei singoli. Lo scopo della riflessione è di produrre «un allentamento della
propria
disciplina [sociale]»: Una volta libero dal pregiudizio sugli atti criminosi, il libertario deve sempre agire di
conseguenza. Se qualcosa suona vero
per la sua natura, se sembra importante e necessario per se stesso e i suoi compagni nel momento presente, lo faccia con
gioia
e buona volontà morale. [...] Azione autonoma vuol dire vivere nella società attuale come fosse una
società naturale. Alla base dell'azione politica deve quindi trovarsi la consapevolezza del contrasto tra l'etica
naturale del «mutuo
appoggio», dei vincoli comunitari e dell'autonomia del singolo e le convenzioni sociali di cui il «sistema organizzato» si
serve per mantenere il suo ordine fittizio. In questo senso le giustificazioni dell'intervento nelle faccende «politiche» si
colorano, nell'ottica di Goodman, di profonde motivazioni etiche sul piano individuale: il libertario sceglie l'attivismo in
primo luogo per rispetto nei confronti di se stesso e delle sue nozioni di «società naturale». La sua azione diventa
così
«espressione delle sue potenzialità più profonde» e più vere. Nel contempo, essa deve essere
pragmatica: la trasgressione,
per trasformarsi in politica, deve essere applicata, e non configurarsi come pura liberazione della mente. Contrapponendosi
a «Croce e agli altri idealisti hegeliani», nei suoi quaderni Goodman scrisse di «sentirsi corrotto dalla libertà dello
spirito,
dallo studio di troppe opere di verità e bellezza, dalla mancanza di attenzione per la cultura popolare, dal non aver
preso
sul serio la politica spuria». L'alternativa era ciò che egli stesso aveva definito personalist politics:
una estrinsecazione
pratica - si tratti di un intervento «creativo» o di uno «trasgressivo» - della moralità individuale. Il punto di
riferimento
è Thoreau, insieme a quella tradizione di dissenso protestante che tanta parte ha avuto nel modellare l'anarchismo
americano.
Dall'antinomianesimo alla Personalist Politics
Anche in questa prospettiva Goodman rientra pienamente nella tradizione libertaria statunitense: per lui, come per gli
esponenti dell'anarchismo americano ottocentesco, l'esperienza della Riforma è uno dei punti cardine dello sviluppo
della
modernità e dello stesso ethos libertario. Si tratta di una delle «premesse dei tempi moderni»: il suo
ruolo è stato quello
di «liberare i singoli dalla dominazione dei preti» e di condurre poi alla «tolleranza della coscienza privata». L'argomento
non sorprende: negli Stati Uniti l'esperienza della fondazione della nazione e dei suoi valori è inestricabilmente
connessa
all'eredità puritana, sia nei suoi aspetti «autoritari» sia nei suoi aspetti «liberatori». I riferimenti alla tradizione
del
libertarismo protestante attraversano quindi anche l'opera di Goodman con effetti epifanici. Nei suoi quaderni, dopo aver
esposto alcune riflessioni su Emerson e Thoreau, l'ebreo Goodman annotò: «Comparo quindi la nostra situazione
alla
Puttana di Babilonia che affrontarono i Riformatori». Il suo romanzo forse più autobiografico, Making
Do (1963), si chiude
su una nota di speranza, con un invito a continuare nella battaglia e nella sperimentazione sociale, espresso non
paradossalmente da una citazione del sermone che il predicatore separatista John Robinson predicò ai Padri
Pellegrini in
partenza per l'America nel 1620. Nella cultura americana i temi associati al versante libertario del protestantesimo
radicale - autonomia della coscienza
individuale, obbligo morale del giudizio privato, valorizzazione del pluralismo, apologia dell'indipendenza delle
comunità
religiose (da cui i corollari dello sviluppo di un'etica antistatalista e della maturazione di un ethos
decentralista) -
ricompaiono costantemente. Lo stesso Goodman, con la sua usuale intuizione storica, ha distinto gli effetti storico-culturali
prodotti dalla Riforma istituzionale e dalla «maggior parte delle sette» - che hanno consegnato l'individuo a una
laicità
consumistica e alla cieca sottomissione a un presunto «sistema economico razionale» - da quelli prodotti per esempio dalle
«Chiese congregazionaliste», parte integrante della «storia» dell'anarchia. I suoi riferimenti a quella parte del patrimonio
culturale dell'anarchismo americano legato al radicalismo protestante sono rilevanti. Nel contesto dell'analisi dell'azione
politica libertaria, due aspetti saltano agli occhi: il riferimento alla tradizione antinomiana come base intellettuale per la
trasgressione delle norme costitutive del «sistema organizzato» e l'interpretazione dell'intervento del singolo su base
«personalistica». Nella prospettiva di Goodman la consapevolezza dell'irrilevanza etica delle norme sociali e politiche
e della loro
funzionalità agli scopi del «sistema organizzato» è uno degli elementi che definisce l'identità
libertaria. Ciò che
contraddistingue l'azione degli anarchici è il loro superiore rispetto per le regole dell'associazione naturale, che
conferisce
loro un'«abitudine alla libertà» contrapposta all'«abitudine alla coercizione», nello stesso modo in cui
l'antinomiano
concepiva la liberazione come la maturazione personale di un'etica «trasgressiva» (rispetto alle regole del cristianesimo
ortodosso) che gli concedeva libertà d'azione inusitata. Nel May Pamphlet il debito nei confronti di questo modello
teologico-politico è esplicitato: Il caso è uguale alla vecchia distinzione in teologia tra la legge
antica e la nuova. Nella prima sono tutti colpevoli, nella
seconda tutti si possono salvare con facilità. Vediamo nei fatti che chiunque abbia ancora vita ed energia sta
continuamente
manifestando una qualche forza naturale, ritrovandosi di fronte una coercizione innaturale. Se questa «manifestazione»
si configura come obbligo morale, l'azione politica diventa un'esigenza specificamente
individuale, à la Thoreau. Di fatto, questa è una delle principali caratteristiche di Goodman.
Taylor Stoehr, che ha curato
le edizioni postume dei suoi scritti, ha dichiarato che parte del fascino personale di Goodman derivava dalla coerenza con
cui egli cercava di mettere in atto la sua teoria dell'azione politica libertaria: da un lato «creatività» progettuale,
dall'altro
aperta «trasgressione». Uno degli aspetti più notevoli del suo stile e del suo pensiero è la costante presenza
del suo «io»
nelle pagine da lui scritte: Goodman ha sempre più accentuato questo elemento nei suoi libri, trasformando
l'impersonale
prosa del May Pamphlet nelle divagazioni aneddotiche di New Reformation (La nuova
Riforma).
Etica libertaria e sperimentazione fallibilista
Questa concezione dell'attivismo politico, che si esplica in progettualità pratica e in trasgressione sociale,
prefigura uno
sviluppo del mutamento graduale e costante. Nonostante la piena comprensione del contrasto tra la vocazione riformista
libertaria e l'ideologia rivoluzionaria abbia preso forma completa solo nel momento di massima frizione con le frange
leniniste del Movement, sin dai primi anni Quaranta Goodman si dichiarò convinto che «una
società libera non può essere
l'imposizione di un ordine nuovo al posto di quello vecchio: è [invece] l'ampliamento degli ambiti di azione
autonoma fino
a che questi occupino gran parte del sociale». A suo parere ciò richiedeva un confronto continuo tra l'«innovatore»
-
soggetto/oggetto di una irrinunciabile personalist politics - e la comunità che rappresentava il suo
reale punto di
riferimento. L'innovazione stessa - ovvero il vettore di cambiamento sociale specificamente «libertario» - era
contemporaneamente un atto di scoperta e un atto di conservazione: il suo punto di riferimento era una «natura umana»
immutabile, per lo meno nei suoi tratti essenziali. L'azione degli anarchici si configura quindi come una
sperimentazione continua, un tentativo costante e ininterrotto di
proporre «progetti pratici e analisi utopiche» ai gruppi sociali dominati dalla sociolatria, nel tentativo di portarli
progressivamente dallo stato di Società a quello di comunità. In questo senso il libertario non rinuncia alla
sua autonomia,
né contamina la sua purezza di «eletto», se si impegna con tutte le sue forze in un confronto diretto con gli
strumenti che
il «sistema organizzato» ha forgiato a sua difesa. Nel capitolo finale di Growing up Absurd Goodman elenca
in bell'ordine
gli elementi costitutivi - mentalità, miti, istituzioni, esperienze educative - della Società, enucleandone sia
le
interpretazioni «sociolatriche» sia le potenzialità in senso libertario, descrivendo in pratica le sfere in cui è
necessario
impegnarsi per valorizzare l'approccio comunitario. Goodman insisterà ripetutamente nel concettualizzare
l'azione anarchica come azione millenarista piuttosto che utopista
- anche in questo mediando probabilmente la terminologia dalla tradizione del protestantesimo radicale - intendendo con
questo la ricerca di una soluzione «nel qui e ora», nell'ambito dei «gruppi naturali essenziali» per il libertario. Questa
azione deve essere sperimentale e pragmatica, non deve rinunciare ai suoi obiettivi, ma non deve parimenti rinchiudersi
in una logica massimalista: «sin dall'inizio i problemi e i fini ispirano e danno energia a un'iniziativa, creando mezzi e
metodi; il problema o il fine viene trasformato e precisato mentre l'iniziativa viene sviluppata». Ed è in questa
operazione,
in questo continuo adattamento di logiche, mezzi e metodi alla situazione concreta e ai fini, che l'etica anarchica trova un
punto di equilibrio tra il rapporto con il «sistema organizzato» - reso necessario dalla volontà di «agire» su di esso
e dalla
disponibilità ad «usare» in senso libertario gli strumenti che esso ha pervertito con la sua logica sociolatrica - e
la
conservazione dell'identità libertaria stessa. La concezione dell'intervento sociale di Goodman, sperimentale e
«utopica»,
sembra riflettere quello spirito fallibilista che ha per molti versi modellato le dottrine epistemologiche e politiche di alcune
delle comunità protestanti più estremiste. Per i fallibilisti non vi era modo di giungere a verità
ultime e definitive; tutte le
strade restavano aperte; solo la controversia, la disputa, il conflitto, assicuravano la crescita della conoscenza e quindi il
miglioramento continuo. Goodman sembra sposare in pieno istanze di questo genere, etiche prima ancora che
epistemologiche e non rare nella tradizione anarchica. A suo parere è necessario «evitare la concentrazione del
potere
proprio perché gli uomini sono fallibili». La funzione delle istituzioni è quindi quella di incoraggiare la
sperimentazione;
esse non si fondano affatto sul bisogno di ordine, ma piuttosto sulla loro «utilità nello sviluppo delle
potenzialità
dell'intelligenza, della grazia e dell'intelligenza umana»: da questo punto di vista esse sono solo «deliberati esperimenti
sociali». Era questa la prospettiva di alcuni padri fondatori. Madison, per esempio, spiegava nel seguente modo - sempre
secondo Goodman - «i vantaggi del decentralismo»: «ogni unità autonoma può sperimentare; se
l'esperimento fallisce, solo
una piccola unità subisce il danno, mentre le altre possono evitarlo; se ha successo, lo si può imitare con
vantaggio di tutti».
L'insistenza di Goodman sul principio della libertà di discussione e di pensiero, che in questa ottica sperimentale
ed
«utopica» si rivela decisivo per la crescita della comunità, rivela non solo il suo rispetto per le conquiste della
civiltà
liberale, ma anche il suo debito nei confronti della tradizione libertaria protestante: Per Milton, Spinoza o Jefferson,
la libertà di discussione era la forza della società. La loro teoria era che la verità aveva potere,
all'inizio debole, ma saldo e cumulativo, e nel libero dibattito la condotta corretta sarebbe emersa e avrebbe vinto.
Né si aveva
altro metodo per giungere alla verità, dal momento che non c'era altra autorità che potesse decretarla se
non il popolo. E quindi
per avere una politica saggia era essenziale che chiunque dicesse la sua; e più erano disparate le prospettive e
profonde le
critiche, tanto meglio. Questa posizione goodmaniana antidogmatica si è dispiegata appieno proprio sulla
questione dell'identità libertaria. Non casualmente: ancora in New Reformation il «riformista»
è stato costretto a difendersi dall'accusa di
«collaborazionismo». E tuttavia già nel May Pamphlet, e in particolare in Reflections on
Drawing the Line (Tracciare il
limite), l'obiettivo principale era il tentativo di identificare questa problematica barriera. Goodman la definiva qui
in
termini «sperimentali» e individuali. Ogni libertario, fermo restando il suo impegno verso il cambiamento in senso
«creativo» e/o «trasgressivo», traccia una «linea di confine» personale, frutto dei «conflitti interiori» che plasmano la sua
personalità, della sua singolare storia privata, irriducibile a quella di chiunque altro: «qualcuno
testimonierà nei loro
tribunali, ma non pagherà le tasse; qualcun altro scriverà una lettera, ma non muoverà un passo;
un altro ancora sarà
disgustato dal semplice pane e digiunerà». Il ragionamento giunge al culmine ancora con un'argomentazione
antinomiana:
«l'uomo libero» non ha alcun bisogno di «tracciare la linea» nelle «assurde condizioni che ha disdegnato fin dall'inizio»,
poiché per lui - liberato da pregiudizi e autonomo nelle elaborazioni - i limiti posti dalla «coercizione innaturale»
dello
Stato sono analoghi alle altre «forze distruttive della natura bruta». In altri termini, la «linea» viene tracciata interiormente,
quasi immunizzando il libertario dai nefasti influssi del «sistema organizzato».
La comunità che non abbiamo
Nella conclusione di New Reformation Goodman tornò ai temi di Communitas,
proponendo ai giovani di concentrarsi sui
temi dello sviluppo delle libertà locali. La sua filosofia di decentramento urbanistico era per certi versi alquanto
semplice:
semplificare e disperdere (citato naturalmente Ernst Schumacher, il futuro autore di Piccolo è bello).
I problemi tecnici
erano superabili: «liberi cittadini» potevano facilmente risolverli, adottando criteri di riduzione dell'amministrazione, di
federazione tra comunità, di controllo dal basso delle burocrazie. Tale progetto pratico di ristrutturazione politica
e sociale
della comunità metteva l'accento sull'eliminazione delle pastoie che lo Stato centralizzato e la burocrazia mettevano
al
libero sviluppo della professionalità, del mercato del lavoro, della vocazione dei singoli. Questa prospettiva
pragmatica,
fondata sul decentramento e la regionalizzazione, era incompatibile con la concezione dell'attivismo prevalente nel
Movement, in cui il fine ultimo sembrava essere la conquista del «potere» in senso tradizionale. «I problemi
del traffico,
dell'ammasso di spazzatura, dell'inquinamento, della densità, del rinnovo urbano, della divisione in zone e l'uso
di
tecnologia urbana» sono centrali per rendere vivibili le città, affermò Goodman, ma «richiedono un tipo
di pensiero
professionale e di azione politica» diverso da quello dei giovani militanti. Anche in questo caso l'argomento si avvita al
tema della comunità. Si tratta ovviamente di un elemento centrale nelle elaborazioni di Goodman, si tratti di
pedagogia o
urbanistica, di economia o politica, di autonomia individuale o di norme sociali. Non sorprendentemente, nei suoi testi e
nel complesso dei suoi interventi, nonostante innumerevoli suggerimenti, prescrizioni e descrizioni, manca una trattazione
esauriente - verrebbe quasi da dire: sistematica! - della sua concezione di comunità. Dobbiamo quindi ricostruirne
le
caratteristiche basandoci sulle indicazioni frammentarie e a volte vaghe presenti nei suoi testi e nei suoi interventi. Per
quel che riguarda l'identificazione dell'ente «comunità», i punti di riferimento sembrano essere due, il primo di
carattere
intellettuale, il secondo di carattere storico. Pëtr Kropotkin nel Mutuo appoggio e in Campi,
fabbriche, officine aveva
fornito un paradigma di comunità che ha ispirato generazioni di pensatori, da Ebenezer Howard a Patrick Geddes,
da Lewis
Mumford a Ralph Borsodi, sino a Ernst Schumacher e Murray Bookchin. Kropotkin aveva auspicato la formazione di
«piccole unità territoriali» autonome, unite tra loro da vincoli di associazione e federazione e fondate su una
concezione
del lavoro che metteva l'enfasi sulla sua integrazione armonica, e senza coercizione, con le altre attività umane.
Urbanisti,
architetti, sociologi, filosofi e «utopisti» vari hanno usato la visione di Kropotkin per valorizzare questo o quell'aspetto
della comunità. Nel 1948 Goodman doveva anch'egli riconoscersi esplicitamente in questa «scuola» nella sua
celebrazione
del cinquantenario di Campi, fabbriche, officine. Se Kropotkin e coloro che ne erano stati ispirati
rappresentano uno dei
poli immaginativi della comunità di Goodman, l'altro è dato dalla concreta esistenza nell'America del
passato di «piccole
unità territoriali» che per alcuni versi soddisfacevano i criteri indicati nel Mutuo appoggio e in
Campi, fabbriche, officine.
Come abbiamo visto, Goodman riteneva che nell'America coloniale, e ancor più in quella degli Articoli di
Confederazione,
si fosse sviluppato uno spirito libertario e antigerarchico che aveva modellato interrelazioni sociali, stili di pensiero,
modelli di convivenza e una particolare concezione della vita comunitaria, e che, a suo dire, era sempre pronto a riemergere
nelle complesse vicende dell'ethos americano, sino alla «piccola anarchia» di Berkeley. Se l'enfasi sul decentramento e
i suoi corollari pratici costituisce il tratto più appariscente del progetto di ricostruzione comunitaria di Goodman,
la sua
insistenza sui valori dell'individualità e del conflitto ne è forse l'aspetto più originale. Come
abbiamo visto, Goodman per
certi versi immaginava la comunità come una palestra per sperimentazioni sociali, politiche, economiche, sessuali,
ecc.;
in questo locus della mente gli individui avrebbero dovuto interagire esplicando al massimo le loro
potenzialità e la loro
creatività, offrendo i propri peculiari contributi, si trattasse di invenzioni tecniche, soluzioni sociali, nuovi stili di
vita. Nel
contempo i membri della comunità, consapevoli della natura «fallibile» di ogni istituzione e di ogni
progettualità, avrebbero
esaminato razionalmente e senza pregiudizio le proposte che venivano avanzate. Nonostante qualche mancanza - non mi
sembra che negli scritti di Goodman sia presente una riflessione specifica e articolata sugli spazi del dissenso nella sua
comunità ideale o, di converso, sui metodi e gli strumenti legittimi che quest'ultima potrebbe usare per liberarsi
degli
«esperimenti» non graditi - questo modello riflette una nuova consapevolezza della natura della società complessa:
la
«comunità» goodmaniana, pur fondata sulla condivisione di legami primari, è altresì basata sul
riconoscimento che la
differenza costituisce anch'essa un valore fondante e positivo. Le esperienze comunitarie tradizionali potevano a volte
divenire «tiranniche, illiberali e statiche»: l'alternativa era il rifiuto
della «provincialità» e del «conformismo» e l'adozione di una mentalità «cosmopolita e razionalista,
postcentralista e
posturbana», non aliena dal produrre novità e innovazione. Da questo punto di vista il riferimento era il kibbutz
israeliano
(in cui forse venivano riposte troppe speranze). La proposta di Goodman, per quanto non del tutto precisata ed elaborata,
è ancora oggi viva e vitale. I tentativi di dar vita a comunità autonome nell'ambito della controcultura non
hanno dato
risultati troppo felici: come ha scritto Ronald Creagh, storico del movimento comunitario, «il rigetto dei leader, la loro
assenza, il rifiuto anarchico di riconoscere un'autorità al gruppo in quanto tale, persino di ricercare il consenso,
la
diffidenza rispetto all'opinione collettiva, non hanno quindi portato al superamento dei problemi». Le comuni che
più
debbono all'ethos anarchico sono state spesso un fallimento. Non a caso Murray Bookchin, che ha partecipato
personalmente a esperimenti comunitari (tra cui quello celebre di Cold Mountain Farm), ha costruito la sua recente ipotesi
di «municipalismo libertario» su una serie di premesse e di analisi che mostrano palesi assonanze e affinità con
quelle
esposte da Goodman trent'anni fa. Il caso di Bookchin è emblematico. All'interno dello stesso movimento libertario
pare
oggi registrarsi un nuovo interesse per i progetti di trasformazione sociale a «spizzichi». In una situazione storica in cui
le speranze rivoluzionarie in senso «classico» appaiono irrimediabilmente impraticabili, i libertari cominciano a misurarsi
con i dilemmi posti dalla società tardoindustriale usando metodologie pragmatiche non lontane dall'ideale di
Goodman:
non pochi iniziano a pensare che per giungere a una società giusta sia prima necessario avere una società
tollerabile. E
questo pare un obiettivo tanto realistico quanto utopico.
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