Rivista Anarchica Online
Fin che la barca va...
di Maria Matteo
Che cosa ha determinato la vittoria elettorale dell'Ulivo? Quale ruolo sta giocando Rifondazione? E poi...
Fin che la barca va, lasciala andare... fin che la barca va, tu non remare.
Così suonava il ritornello di una canzone
assai gettonata una ventina d'anni orsono: la interpretava una tonda Orietta Berti dalla voce pastosa e dall'aspetto
giulivo. Tale canzone mi è sempre parsa l'emblema di un'Italia conservatrice e fatalista, poco disponibile
al
cambiamento, non per incapacità di figurarsi un mondo migliore ma per timore che se delineasse uno
peggiore. Era l'Italia della Democrazia Cristiana sempre al governo, l'Italia in cui ogni nuova consultazione
elettorale aveva
esiti che parevano fotocopiati da quelli precedenti, l'Italia che si pensava rivoluzionaria perché, pur
all'interno
di una compagine governativa a maggioranza Dc, ad un presidente del consiglio democristiano succedeva un
repubblicano od un socialista. Quest'Italia pareva definitivamente scomparsa due anni orsono quando, sparite
nella bufera di tangentopoli
formazioni politiche che avevano retto la repubblica sin allora, nel giro di un paio di mesi un industriale
d'allevamento craxiano ormai privo di solide tutele istituzionali si inventò un partito sul modello di
un'azienda
e riuscì a mettere in piedi un'alleanza di centro-destra che vinse le elezioni. Tale risultato è stato
di recente
ribaltato nella consultazione dello scorso 21 aprile in cui un raggruppamento di ex-democristiani, ex-comunisti,
ex-socialisti, sostenuto in modo decisivo dai neo-comunisti di Bertinotti si è assicurato una discreta
maggioranza
parlamentare. Dopo le elezioni del 27 marzo di due anni fa sostenni sulle pagine di questa rivista che la
vittoria delle destre era
dovuta atre fattori fondamentali: in primo luogo l'emergere prepotente di una destra sociale, in grado di proporsi
quale argine ad un sempre più diffuso senso d'insicurezza che trasversalmente attraversa tutto il corpo
sociale;
in secondo luogo il bisogno che tutto cambiasse perché tutto restasse come prima; ed infine la
capacità di
utilizzare al meglio il nuovo meccanismo elettorale. Non paia un paradosso o il mero gusto per la boutade
ma ritengo che gli stessi tre fattori siano stati nella
consultazione elettorale del 21 aprile. Due anni orsono Berlusconi riuscì a mettere in piedi un'alleanza
elettorale che teneva insieme la Lega
secessionista e i post-fascisti nazionalisti mentre i suoi avversari si presentarono divisi; quest'anno l'Ulivo ha
saputo giocar meglio le proprie carte costruendo un cartello che includeva parte delle forze cattoliche, stringendo
patti di desistenza con Rifondazione e godendo del fatto che la Lega, presentandosi da sola e mantenendo una
solida base elettorale, ha di fatto sottratto consensi al Polo. Su di un piano più strettamente politico,
nonostante il terremoto che ha squassato i partiti che hanno segnato la
scena istituzionale della prima repubblica, il desiderio di continuità pare essere nella costituzione genetica
di gran
parte del corpo sociale: l'elettorato tende quindi a premiare chi promette cambiamenti senza preconizzare
rivoluzioni. Naturalmente ciò non significa che le forze politiche possano esimersi dall'esibire quella
che in termini eleganti
è una certa tensione utopica e più rozzamente l'arte di spararle grosse. Anzi Berlusconi con la
favola del milione
di posti di lavoro e Prodi con il non meno fantastico miraggio del mantenimento dello stato sociale hanno
incassato più di un film di Spielberg. A tanta gente piacciono le fiabe, purché siano quelle
sin troppo note e familiari dell'infanzia, capaci di infondere
speranza per il futuro senza sollevare inquietudini. Così chi promette un avvenire dorato vince la partita
mentre
la perde chi, più realisticamente, parla di tagli e sacrifici. Il Berlusconi del fantastico milione due anni
dopo si
trasforma nel propugnatore del liberismo più selvaggio, della cancellazione definitiva di servizi e
garanzie; il
D'Alema della politica di rigore per il risanamento dell'economia diviene il paladino dello stato sociale. La gente
si fa due conti in tasca e, sia per fatalismo o per convinzione, punta sul miglior offerente sperando di sfangarsela
meglio. L'Ulivo il 21 aprile, così come il Polo due anni prima, è riuscito a dar la sensazione
d'essere in grado di
porre un argine all'insicurezza sociale diffusa, che è uno dei più netti segni distintivi di
quest'ultimo periodo. Tale
insicurezza, che è anche all'origine dei tanti fenomeni di razzismo e xenofobia verificatisi recentemente
nel nostro
paese nonché del perdurante successo elettorale della Lega e della buona affermazione della Fiamma di
Rauti,
induce la gran parte del corpo elettorale a riconoscersi in una compagine moderata, poco propensa ad
avventurismi di sorta, sensibile alle problematiche sociali ed abile nell'elidere e smorzare i conflitti. La carta
dell'anticomunismo che risultò efficace nelle elezioni di due anni fa lo è stata assai meno in queste
ultime
consultazioni, dopo un anno in cui le forze dell'Ulivo pur non essendo al governo hanno sostenuto ed in parte
orientato le scelte dell'esecutivo del più eccellente Fregoli politico dell'ultimo periodo, l'ineffabile
Lamberto
Dini. Il sostegno ad un governo di destra ha conferito una solida patina di rispettabilità ai «temibili»
nipoti del Migliore,
che hanno saputo condurre una campagna elettorale con assai maggior pacatezza dei loro rissosi ed irascibili
avversari, le cui polemiche nei confronti della magistratura e del capo dello stato hanno conferito un'aura
«sinistra» e sottilmente eversiva. Difetto imperdonabile in una competizione dove tutti il più possibile
tentavano
di fornire un'immagine rispettabile, impresa non facile in una scena politica in cui capi e gregari di ogni
formazione appaiono a vario titolo inquisiti, sotto processo, se non addirittura condannati. con buona pace del
povero Craxi che, evidentemente, avrà difficoltà a capire come mai a lui tocchi l'esilio ad
Hamammet mentre il
suo compare di Nusco torna trionfalmente a sedersi in parlamento. Non potendo quindi scherzare con i fanti
i nostri eroi han preferito rivolgersi ai santi, tentando di legittimarsi in
più alto loco, accusando, ovviamente, l'avversario di transazioni diaboliche. «Epiteti» quali ateo ed
anticristiano
sono più volte ricorsi nella recente campagna elettorale, senza peraltro che nessuno schieramento riuscisse
ad
aggiudicarsi il sostegno della Conferenza Episcopale Italiana che con «laica» saggezza si è ben guardata
dallo
schierarsi, poiché comunque fossero andate le cose il Vaticano aveva in ogni caso ribadito il proprio
primato
morale sulla politica e ne avrebbe quindi, inevitabilmente, riscosso tutti gli ovvi vantaggi materiali. Qualcuno
potrà forse storcere il naso di fronte al quadro sin qui tracciato di un'Italia sostanzialmente
conservatrice, poco incline ai grandi cambiamenti, ammantata di perbenismo ipocrita qual'è l'Italia di
Berlusconi
e Prodi, poiché in questa nostra allegra penisola v'è anche un'altra Italia, l'Italia che in misura
crescente non è
andata a votare, quella che è scesa in piazza per difendere le pensioni, per opporsi al decreto razzista di
Dini in
materia d'immigrazione, quella che non crede alle favole e tenta di costruire percorsi d'autonomia dall'istituto.
Area di opposizione V'è senza dubbio un'area abbastanza vasta che
si esprime nei sindacati di base e nei centri sociali, nei comitati
antirazzisti ed in quelli ambientalisti, nelle associazioni di mutuo soccorso e in quelle di solidarietà con
il terzo
mondo. Negli ultimi anni Rifondazione si è candidata a rappresentare e coagulare quest'area di
opposizione tentando di
fornirle una sponda istituzionale, pur mantenendo una significativa presenza nel sociale. La capacità di
egemonizzare sostanzialmente l'opposizione di piazza più volte dimostrata da Rifondazione non pare
essersi
incrinata, nonostante le profonde ambiguità della sua compagine parlamentare nei confronti del governo
Dini.
Il patto di desistenza stretto con l'Ulivo ha indubbiamente pagato sul piano elettorale, dove il Prc ha visto
considerevolmente aumentare i propri consensi. Battere le destre, asse centrale della propaganda del partito
di Bertinotti è risultato un imperativo categorico
straordinariamente efficace in settori sociali in cui l'antifascismo è ancora un valore fondante. È
nondimeno
difficile credere che la delega ricevuta dal Prc sia una delega in bianco, poiché l'area di consenso dei
neo-comunisti ha anche di recente dimostrato una significativa capacità di autonomia dal partito. La
grande
partecipazione al corteo antirazzista del tre febbraio, nonostante l'improvvisa defezione di Rifondazione ne
è stato
un segnale più che eloquente. Sarà quindi interessante verificare nei prossimi mesi come il
Prc saprà conciliare la vocazione movimentalista
con il proprio ruolo istituzionale. Non credo che sia necessaria la sfera di cristallo per prevedere che alcuni nodi
finiranno con il venire al pettine non appena Prodi avrà varato la propria collezione primavera-autunno
di
manovre e manovrine e Bertinotti e soci si ritroveranno a svolgere una non facile funzione di mediazione.
Naturalmente non si può escludere che il Prc finisca col giocare efficacemente il ruolo di ammortizzatore
dei
conflitti e che ci attendano quindi alcuni anni di terrificante pace sociale. Occorre tuttavia che una non
irrilevante area di opposizione si riveli una variabile interamente dipendente da
Rifon-dazione, un'ipotesi che al momento si può ancora ritenere pessimista, poiché negli ultimi
anni si sono
venuti sia pure faticosamente consolidando alcuni percorsi di autorganizzazione ed autogestione in cui emerge
una spiccata sensibilità libertaria non facilmente disciplinabile ad una politica di concentrazione. La
crescita ed il rafforzamento di tali percorsi è la scommessa forte che ci attende per i prossimi mesi, una
scommessa che occorrerà giocare non solo sul piano della resistenza ma su quello ben più
complesso di una prassi
autonoma ed immediatamente concreta in materia di riappropriazione del diritto materiale alla salute, alla casa,
all'educazione che non sia difesa dello stato sociale ma creazione di strutture autogestite fuori e contro la logica
statalista che ancora attraversa tanta parte della cosiddetta sinistra.
|