Rivista Anarchica Online
Punti di partenza
di Carlo Oliva
Riscoprire il valore dell'autoorganizzazione politica e sociale per dare un senso alla "vittoria" della sinistra
Sarebbe facile, e in confortante sintonia con eventuali ortodossie residue dei lettori
e dei collaboratori di questa
rivista, affermare che le elezioni del 21 aprile non hanno cambiato nulla né nulla avrebbero comunque
potuto
cambiare. Sarebbe facile, perché non è necessario affermare che da nessun governo è
possibile attendersi nulla
di buono (che non è, sia chiaro, una proposizione cui chi scrive si considera estraneo) per prevedere che,
comunque, ben poco abbiamo da aspettarci dal prossimo governo Prodi, in cui la presenza di moderati, burocrati,
commessi del capitale e sentinelle dei «poteri forti» non dovrebbe, stando alle prime indiscrezioni postelettorali,
essere minore di molto a quella di tutti i governi che abbiamo conosciuto, compreso quello di Berlusconi. Ma
se sarebbe ingenuo (oltre che gravemente antianarchico) aspettarci grandi cambiamenti sul piano istituzionale
e su quello delle politiche di governo, non è detto che qualcosa non possa cambiare, o non sia già
cambiato, a un
altro, e forse più interessante, livello. Io, per esempio, nonostante anni e anni di sforzi per indurire il mio
cuore
e mettermi in qualche modo al riparo dal contagio delle illusioni dei miei simili, devo confessare che sono stato
toccato dall'evidente commozione, dalla tensione emotiva che trapelava nei commenti a caldo del «popolo di
sinistra». Chi ha seguito, per esempio, la massa di telefonate che si sono riversate ai microfoni di Radio Popolare,
a Milano, nei giorni immediatamente successivi all'annuncio dei risultati, o ha notato e cercato di valutare gli
atteggiamenti dei partecipanti alle manifestazioni del 25 aprile e del 1° maggio, ha avuto parecchio da riflettere.
Non che mancassero completamente gli scettici o i prudenti (c'era persino qualche rarissimo insoddisfatto), ma
in complesso quasi tutti erano sicuri di avere vinto, finalmente, e felicissimi di dichiararlo. Alla radio, una signora
che dalla voce non sembrava proprio giovanissima si è spinta al punto di confidare in diretta a uno
stupefatto
conduttore che questa prima volta (la volta, intendeva, che la sinistra aveva vinto), era ancora più bella
di
quell'altra prima volta là, che, se ho capito bene cosa intendeva dire, in sé non è un
paragone particolarmente
felice, perché sappiamo tutti che non succede così spesso che quella prima volta là sia
soddisfacente da tutti i
punti di vista, ma, insomma, quel che conta è farsi capire e quella signora si è fatta capire
benissimo. E gli altri
pure. Al punto di far venire persino a un vecchio scettico come me il dubbio che tutti costoro avessero in un certo
senso ragione. A questo punto, il problema è quello di cercare di capire in quale senso possano avere
ragione. Perché vincere
è sempre meglio di perdere, naturalmente, e aver fatto un dispetto a Berlusconi e soci fa piacere
comunque, ma
non saranno poi in molti a pensare che ci sia un particolare motivo di rallegrarsi per aver mandato in parlamento,
collegio per collegio, una tale massa di riciclati, ex democristiani, azionisti bolliti e revisionisti vari, per non dire
dei tanti sinceri nemici del popolo che hanno cominciato subito dal 22 mattina le grandi manovre per scaricare
Bertinotti, con i cui voti non si erano peritati di farsi eleggere, per imbarcare Buttiglione (operazione,
quest'ultima, che, a giudicare da quanto è accaduto nella scorsa legislatura non dovrebbe richiedere sforzi
particolari). I conti prima o poi tornano sempre e nessuno dovrebbe dimenticare che la storia politica del buon
Prodi, per quanti meriti possa aver acquisito nei dibattiti televisivi, resta quella di un ex boiardo di stato che ha
vissuto anche l'interessante esperienza di fare il ministro con Andreotti, e che il suo buonissimo vice si è
distinto
soprattutto per aver trasformato un quotidiano politico, quale che fosse, in un contenitore di videocassette,
avviando un processo che ha dato una bella spinta alla crisi dell'idea stessa di giornalismo nel nostro paese e al
generale rimbambimento da video. E naturalmente chi ha solo un minimo di memoria storica, o semplicemente
ha vissuto gli anni '70 e '80, ha tutti i motivi per diffidare dalla politica finanziaria e fiscale dell'ex sinistra Dc
e di quella giudiziaria dell'ex Pci (i cui eredi, vale la pena di ricordare, non allignano soltanto nel Pds). Stringi
stringi, resta del tutto evidente che la nuova maggioranza non è soltanto debole dal punto di vista
parlamentare,
ma è alquanto inaffidabile in molte delle sue componenti. E allora? Allora, forse, quelli che, pur
presumibilmente consapevoli di tutto questo, dichiaravano coram populo
la propria felicità (che non è una dichiarazione da poco) volevano dire semplicemente che politica
è più
complicata di quanto sembri. Che si può essere contenti di come sono andate le cose senza avere la
necessità
d'identificarsi né con Dini né con Prodi (e neanche, va da sé, con Veltroni o Bertinotti).
E non solo perché quello
di intendere i rapporti tra rappresentati e rappresentanti in termini di identificazione è un vecchio errore
da cui
la crisi delle ideologie storiche dovrebbe averci messo abbastanza al riparo: perché, soprattutto, ciascuno
è libero
di investire dei propri valori chi e cosa vuole, ed è poco ma sicuro che i vari Dini, Prodi e Veltroni sono
stati eletti
più in base ai valori in cui si riconosceva chi li ha eletti che a quelli che proponevano loro e che questo
qualcosa,
in un modo o nell'altro, deve contare. Naturalmente questa è, più che altro, una petizione di
principio, e comporta una quantità di rischi, rischi cui gli
anarchici e i libertari sono particolarmente attenti, ma che non sarebbe male fossero presenti anche agli altri. Tanto
per cominciare, gli eletti, una volta portato a casa il risultato, possono far finta di niente e continuare per la loro
strada come se nulla fosse: ne hanno tutte le possibilità. Possono tradire, prima che il loro programma,
la propria
base elettorale: gli basta aspettare che i fedeli di Buttiglione scoprano che l'opposizione è in sé
qualcosa di poco
cristiano, o che si decida a correre in loro soccorso quell'integerrimo ex magistrato che ha fatto eleggere un
portavoce nell'Ulivo e un cognato nel Polo e che non ha ancora deciso se degnarsi di accettare un posto di
ministro con gli uni o di proporsi come leader carismatico agli altri. Possono nominare i ministri più
indecorosi.
Posso fare davvero di tutto. Ma, dipendendo la loro sopravvivenza anche dal legame con chi li ha eletti, non
è
detto che ci riescano, soprattutto se chi li ha eletti non deciderà di ritirarsi a vita privata fino alle prossime
elezioni, ma riuscirà a escogitare qualche tecnica di tallonamento a vista, un qualche strumento per fargli
sentire
costantemente il fiato su collo: se riscoprirà - in sostanza - il valore dell'autoorganizzazione politica e
sociale,
e saprà porne qualche forma inedita come precondizione all'esercizio della delega rappresentativa. Che
non è
facile, certo, e forse neanche probabile, ma è l'unica prospettiva su cui fondare la soddisfazione di avere
vinto. Vittorie di questo genere, ahimè, sono sempre soltanto un punto di partenza. Che gli dei ce la
mandino buona.
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