Rivista Anarchica Online
La cura è la maschera dell'amore
di Filippo Trasatti
Tutti ci ricordiamo probabilmente di quei giorni della nostra infanzia in cui malati,
con il morbillo o l'influenza,
siamo stati costretti a rimanere in casa oppure addirittura a letto. La preoccupazione non era la malattia in se
stessa, poco più di un nome e qualche disturbo, ma quella di non poter uscire a giocare, di dover
rinunciare anche
solo per qualche ora al mondo per il letto. E quando si ha fretta di vedere, toccare, comunicare
l'immobilità
forzata è insopportabile; è forse per questo che i bambini bruciano le malattie,che noi ci
trasciniamo per giorni,in
una vampata. E il medico? Un uomo di potere, metà stregone e indovino, metà papà
buono (quand'era buono)
che scrutava, palpava, capiva e sentenziava sul nostro futuro, il tutto nel giro di cinque minuti. Così
almeno io,
e credo molti della mia generazione, siamo cresciuti nella transizione tra il medico di famiglia tradizionale (una
figura un po' mitica) che ormai andava scomparendo e il medico di massa che stava avanzando, travolto da folle
di mutuati, sempre più distante dal corpo e dal paziente. Se si dovesse fare una storia senza grandi pretese
del
rapporto medico-paziente nella seconda metà del nostro secolo, credo che ci si potrebbe basare su tre
indicatori
grossolani, ma efficaci: la distanza che il primo pone tra sé e l'altro, il tempo della visita, la
quantità e la qualità
del contatto fisico. Proprio delle trasformazioni che ha subito la figura del medico nel corso del secolo, nell'epoca
della massificazione e della razionalizzazione tecnica tratta il libro di Karl Jaspers, Il medico
nell'età della
tecnica, (Cortina, Milano 1995, 2a), con un'ottima introduzione di Umberto
Galimberti, che raccoglie alcuni saggi
scritti dal filosofo e psichiatra tedesco negli anni Cinquanta. Nonostante gli oltre quaranta anni di età,
durante i
quali i mutamenti e le conquiste nel mondo della medicina sono stati rapidissime e straordinariamente evidenti,
i saggi di Jaspers non sono affatto invecchiati, perché toccano alcuni problemi che sono alla radice stessa
della
professione medica: la scissione corpo-anima, la comprensione della malattia, il rapporto tra salute e medicina,
la critica delle terapie dell'anima. La medicina, come una delle tante appendici gloriose della Scienza, non
può essere in alcun modo criticata e
coloro che ci provano si espongono a una ritorsione volgare e miope, che suona come una minaccia più
o meno
velata: vedrai quando ti ammalerai... No, costoro vorrebbero la pura e cieca obbedienza; il mito dell'esperto, della
professionalità diventa un comodo schermo difensivo, per evitare ogni critica e ogni cambiamento. Per
rompere
questa crosta impenetrabile, qualcuno ha provato a lanciare un macigno. Ivan Illich cominciava così, con
un
apparente paradosso, il suo celebre libro sulla medicina: «la corporazione medica è diventata una grave
minaccia
per la salute». Jaspers è lontanissimo da questo stile provocatorio e irriverente; cita sì più
volte la massima di
Montaigne, quasi altrettanto cattiva: «se ti ammali non chiamare il medico: ti troveresti con due malattie»; ma
lo
fa prendendone le distanze, un'osservazione pungente valida per il passato. I progressi medici sono un dato di
fatto che non si può trascurare, né tantomeno negare, ma da soli non danno il senso di che cosa
è veramente la
medicina. Jaspers vorrebbe riportare il medico alla sua antica vocazione, alla duplicità fondamentale che
lo
caratterizza: da un lato la conoscenza scientifica e l'abilità tecnica, dall'altro l'ethos umanitario.
Tratteniamo il
sorriso, e distogliamo il pensiero dai medici abbronzati, dai denti scintillanti, impegnati a macinar soldi per farsi
la barca. Per fortuna non ci sono solo quelli e mi illudo che non siano solo i soldi la motivazione fondamentale
che spinge alla professione medica. Magari non dichiarata, perché appunto oggi farebbe sorridere i
più, questa
motivazione umanitaria continua da qualche parte a sopravvivere. Mentre la scienza e la tecnica possono essere
insegnate «l'umanità non è pianificabile. Si tramanda grazie alla sua personalità,
impercettibilmente, istante dopo istante, attraverso il suo modo di agire e di parlare, attraverso lo spirito che
regna in una clinica, in quell'atmosfera
silenziosa e pur tacitamente presente che è necessaria all'esercizio della professione medica ». (2) Il bravo
medico
che ha appreso le necessarie conoscenze scientifiche e tecniche può certamente diagnosticare la malattia,
intervenire («il meno possibile, limitandosi a rimedi razionalmente giustificati», aggiunge Jaspers, impugnando
il rasoio di Occam), ma curare implica qualcosa di più. La specializzazione, che da una parte ha permesso
progressi tecnici considerevoli, ha portato progressivamente allo spostamento di attenzione in un percorso
unidirezionale dall'individuo, al malato, dalla malattia alla patologia. Qualcosa di simile, notiamo solo per inciso,
avviene nel campo dell'educazione, dove si vorrebbe un educatore sempre più tecnico, esperto di problemi
didattici, di patologie dell'apprendimento. Ed è proprio da qui che nasce l'insoddisfazione, la sensazione
che la
medicina, nell'epoca dei suoi eclatanti successi sia in crisi. Sia ben chiaro, questa crisi è colta soltanto dai
più
avvertiti e non è neppure qualcosa di esclusivo del nostro tempo. «Da secoli, di pari passo con il
progresso, si
parla di crisi della medicina, di riforme, di superamento della medicina classica, di rifondazione dell'intera
comprensione della malattia e della condizione medica».(45) Per risalire alle radici di questa crisi,
bisognerebbe ricostruire la storia dello sguardo medico nella clinica occidentale, come hanno fatto da punti
di vista diversi Illich
e Foucault. Il passaggio dal corpo vivo, al corpo morto come modello per il corpo vivo; le metafore del
corpo-macchina e quella più aggiornata del corpo-computer hanno profondamente modificato la
percezione della
malattia, non solo nel medico e nella medicina, ma anche nel paziente. Le persone imparano a interpretare il
proprio corpo attraverso gli sguardi degli altri, in particolare quelli del medico, dell'esperto che scrive sulle riviste
in rapida espansione che parlano di salute. Il salutismo come modello di vita non è solo un mito di
cartapesta per
i mass-media. Anche nella definizione di salute dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms)
sentiamo che c'è qualcosa che
non va: «uno stato di completo benessere fisico, spirituale, sociale», molto meglio del nirvana buddista!
Più
ampliamo il concetto di malattia, più persone peschiamo nella rete; al limite la salute si trasforma in un
ideale
irraggiungibile verso il quale tutti, in quanto in qualche modo malati, cercano di dirigersi. Jaspers propone
sì un
ampliamento dello sguardo medico, ma ripiegandolo verso l'interno, senza trionfalismi, con un senso dei limiti,
che dà la misura profonda dell'umanità comune. «Questo sguardo medico ha il senso della
situazione. Si
preoccupa della naturalità dell'uomo nel suo ambiente. Non permette che la visita del malato si risolva
in una
congerie di risultati di indagini di laboratorio, ma è in grado di valutare tutto questo, di utilizzarlo e di
tenerlo
sotto controllo. (...) Torna a caratterizzarlo qualcosa dell'atteggiamento ippocratico, che tiene presente il corso
della vita ed è in
grado di plasmare il rapporto del malato con la sua malattia. Conosce il significato permanente delle disposizioni
igieniche e dietetiche. Con l'andare del tempo riesce ad avere col malato quel rapporto personale la cui
trasparenza rende più facile il morire». (10) E' quello che Platone definiva (aristocraticamente) «medico
libero
per i liberi» in contrapposizione al «medico schiavo per gli schiavi». Questo è il senso della cura che non
si limita
a spiegare ed eliminare la patologia, ma si preoccupa di comprendere e di dare un contesto e un senso
all'individuo che ha una malattia, qualsiasi essa sia. Altrimenti il divorzio dal corpo, com'è nella maggior
parte
dei casi, diventa inevitabile: il corpo diventa solamente un ostacolo, il centro del dolore, l'ospite delle patologie
che dobbiamo rimuovere, cioè corpo iatrogeno. In questo mutamento di prospettiva però si
cela anche il pericolo più grande, che Jaspers individua, ma a cui non
dà rilievo adeguato, e che oggi con il diffondersi della medicina psicosomatica è diventato
più evidente. Viktor von Weizsncker, uno dei padri della moderna medicina psicosomatica, ha cercato
di ricondurre ad un unico
campo unitario, ciò che era stato separato: l'organico e lo psichico. In una formula citata da Jaspers
può essere
riassunta la sua visione psicosomatica: «ogni processo organico, come ad esempio un'infiammazione,
l'ipertensione, il dimagrimento, l'edema, dev'essere inteso come simbolo, non come funzione». (19) Ciò
significa
che la malattia non è solo perturbazione di tessuti e organi, ma ha anche un senso che sta al malato e al
medico
insieme cogliere e comprendere. Il linguaggio organico va decifrato e con l'aiuto del medico interprete, tradotto
nel linguaggio dell'anima. Ed ecco il passaggio decisivo, lo scivolamento pericoloso cui accennavo. La malattia,
tradotta nel linguaggio dell'anima, ci dà un elemento per la comprensione della nostra vita; essa ci
dà un segnale
che dobbiamo interpretare, che serve al nostro cambiamento, è un bene per noi in quanto ci spinge a
rivedere ciò
che non va. La malattia, per usare un'espressione di Susan Sontag, diventa allora «metafora» che rimanda alla
malattia morale, alla nostra responsabilità verso gli altri, noi stessi e il mondo. Noi siamo in fondo
colpevoli per
le nostre malattie, per azioni e omissioni, in misura direttamente proporzionale secondo la gravità. Allora
se un raffreddore presuppone un peccato veniale, l'Aids o il cancro rivelano in realtà il nostro peccato
mortale contro
la vita. Questo è l'assurdo, o forse non come sembra: una concezione «umanizzante» della medicina,
si risolve in una
ritorsione delle responsabilità e delle colpe contro l'individuo, che resta ancor più solo a dibattersi
tra il male
fisico e il «male morale». Siamo alla più bieca utilizzazione del dolore a fini terapeutici, per la sua
rigenerazione spirituale. Dobbiamo certamente dare un senso alla malattia, o meglio imparare a convivere
in modo diverso con
le malattie, ma senza sovraccaricarle di un assurdo valore morale punitivo, con un determinismo becero
ammantato di terminologia psicoterapeutica. Cambiare l'immagine e l'immaginario della malattia non è
cosa da
poco: significa confrontarsi con il limite, con il nostro atteggiamento superficiale verso la morte, toccare le nostre
ansie e paure più radicate; implica una rivoluzione culturale e sociale, altro che psicosomatica.
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