Rivista Anarchica Online
L'inquisitore remissivo
di Carlo Oliva
Dopo Galileo la Chiesa "riabilita" Darwin. Troppo tardi? Non è solo quelsto, perchè sotto sotto...
Tempi duri per i laici. Hanno iscritto da sempre nelle loro bandiere la difesa della
libertà di pensiero, contro le
tentazioni di oscurantismo nascoste, talvolta, nelle visioni trascendentali del mondo, ma i bastioni eretti attorno
a questa rispettabile convinzione non sembrano solidi come una volta. Da un lato, capita sempre più
spesso di
vedersi ritorcere contro quello stesso ideale, utilizzato da chi meno ci si sarebbe aspettato che lo facesse per
introdurre nella nostra cittadella ideologica le forme più ambigue di irrazionalismo («Il pensiero è
libero, no? E
allora perché non posso credere che...»). Dall'altro, ed è peggio, il nemico, quel nemico la cui
presenza è sempre
tanto tranquillizzante quando si comincia a nutrire qualche problema di identità, si rifiuta di attenersi al
ruolo che
gli viene assegnato. Il papa, quello stesso papa sul cui solido neomedioevalismo ci sembrava di poter
tranquillamente contare, continua a riservarci brutte sorprese. Non pago di aver riabilitato Galileo, adesso ha fatto
pace addirittura con Darwin. Ha scritto, in un documento rivolto alla Pontificia Accademia delle Scienze (!), che
«oggi le nuove conoscenze conducono a riconoscere nella teoria dell'evoluzione più che un'ipotesi». Per
cui, in
sostanza, è inutile negare che «il corpo umano ha origine dalla materia vivente ad esso preesistente», e
al buon
cristiano basterà concentrarsi sulla proposizione successiva, per cui «l'anima spirituale,» comunque,
«è creata
immediatamente da Dio.» Come a dire che a un certo punto della sua storia biologica, a un qualche tipo di
scimmione abbastanza evoluto per essere considerato nostro progenitore sarebbe stata infusa, per intervento
divino, l'anima umana. Una soluzione un po' tirata per i capelli, ma accettabile da ambo le parti, che ha spinto
i principali organi di stampa a inalberare, con grande rilievo, titoli del genere di «Woytila a Darwin: qua la
mano»,
«La Chiesa riabilita l'evoluzionismo» o anche «Scienza e teologia: due diversità si incontrano
sull'uomo», che
non andrebbe neanche tanto male se non fosse che le cose hanno, per guisa di dire, due manici, per cui è
praticamente inevitabile un simmetrico «Cari scienziati, la ragione non è tutto». E adesso, noi cosa
facciamo? Gli rispondiamo che è troppo tardi, che su dottrine che si presentano come
scandalose e innovative, come quella evoluzionista, bisogna schierarsi quando sono, appunto, scandalose e
innovative, senza aspettare che siano ormai digerite e assimilate dalla scienza normale e pacificamente insegnate
nelle scuole elementari di mezzo mondo? O gli spieghiamo, come ha fatto uno scienziato serio come Alberto
Oliverio sul Corriere della sera del 27 ottobre scorso, che la sua ipotesi è troppo facile, magari un po'
semplicistica, perché gli sviluppi contemporanei della biologia spingono a postulare un tipo di darwinismo
diverso
di quello cui pensa lui (il papa, dopotutto, non è obbligato a tenersi aggiornato sui progressi della ricerca),
un
darwinismo cui quella proposta di mediazione va troppo stretta, visto che l'uomo ci appare sempre di più
il
risultato di un'evoluzione multipla e incrociata e comunque condivide troppa parte del suo patrimonio genetico
con altri organismi animali e vegetali perché si possa parlare di una sua unicità biologica? O
facciamo finta di
niente, limitandoci a constatare che in quella presa di posizione, in fondo non c'è nulla di nuovo,
perché, magari
in forma meno esplicita, è la stessa su cui la chiesa si è attestata da tempo, per cui ci faccia il
piacere di non
rompere le scatole? É quello che gli ha risposto, con tutto il dovuto rispetto, un cattolico «progressista»
come il
cardinale Martini (intervista a Repubblica del 1° novembre), secondo cui «già alla fine degli anni '40,
dai gesuiti
di Gallarate, il padre Marcozzi ci insegnava l'evoluzionismo». E anche se nel prosieguo il bravo arcivescovo di
Milano preferisce ignorare con eleganza tutte le domande sul perché la Bibbia contenga
quell'imbarazzante
racconto sull'origine del mondo e dell'uomo, rifugiandosi in eleganti ovvietà del tipo «fondamentalmente
la
Genesi esprime le verità che il popolo ebraico riteneva fossero all'origine della sua conoscenza di
sé», si capisce
che dal suo punto di vista nulla impedisce di leggere le Scritture in forma simbolica, anche se le residue speranze
che nutre di diventare papa a sua volta non gli permettono di dirlo esplicitamente. Forse il commento
più interessante alla presa di posizione del papa lo ha espresso, quattro anni prima che venisse
formulata, Paul Feyerabend. Nella seconda delle sue lezioni trentine del '92, raccolte in volume quest'anno da
Laterza sotto lo strano titolo di Ambiguità e armonia, l'autore di Contro il metodo osservava che «persino
il Papa,
che sa essere molto aggressivo se interpellato sui diritti delle donne o sui meriti della teologia della liberazione,
assume un contegno umile, remissivo e decisamente codardo quando si tratta di questioni scientifiche. A quanto
pare la scienza è una forza irresistibile» (cit., p. 67). Affermazione che suona debitamente paradossale,
ma non
lo è più di tanto. In fondo nulla o nessuno costringono il papa, o qualsiasi altro esponente
ecclesiastico, a
rinunciare al ruolo tradizionale dell'inquisitore per proporre certi complicati compromessi, che avranno forse il
merito di chiudere vecchi contenziosi, ma lo fanno a spese della credibilità del magistero (perché
i pontefici
precedenti, checché se ne dica, avevano su Galileo e Darwin tutt'altre opinioni) e lasciano comunque
aperto il
fianco a critiche di ogni genere. Chi ha dato ha dato e il passato si può sempre storicizzare: lo stesso
Feyerabend,
che era notoriamente un ragazzaccio, ha fornito (in Addio alla ragione) fior di elementi con cui giustificare la
condanna di Galileo e se non ci avesse prematuramente lasciato ne avrebbe senza dubbio elaborato degli altri per
dimostrare che Darwin, nel contesto in cui è apparsa L'origine della specie, aveva torto marcio. E per chi
nutra
sincere preoccupazioni teoretiche, be', i credenti hanno in mano un potentissimo jolly con cui conciliare la propria
fede con qualsiasi scoperta scientifica. Un Dio onnipotente può organizzare la Sua creazione come meglio
Gli
pare, utilizzando a Suo arbitrio le più singolari strategie cosmiche e biologiche, big bang e selezione
casuale
compresi. Non sta certo a noi chiederGliene conto. Finché sarà possibile ipotizzare un rapporto
speciale e diretto
tra il padre eterno e l'umanità, che è in definitiva quello che conta, la religione potrà
sopravvivere senza problemi
a qualsiasi trasformazione dei paradigmi scientifici. Qualcuno ha ipotizzato, un po' per gioco e un po' no, che
l'unico vero guaio potrebbe nascere in una situazione stile Incontri ravvicinati, dal contatto con un'altra
«umanità»
e suppongo che in Vaticano si seguano i progressi dell'astronomia e dell'astrofisica con le dita debitamente
incrociate, ma l'ipotesi è abbastanza lontana, e poi, chissà, non è detto. Anche a degli
extaterrestri non troppo
simili a quelli di Independence Day potrebbe aprirsi la via di un'assimilazione al rango di nostri fratelli e se per
avventura non conoscessero «il vero Dio», offrirebbero comunque occasione di rinverdire la venerata tradizione
missionaria... No: chiudere quei contenziosi è facile. A rigore non li sarebbe nemmeno dovuti
aprire. Eppure la Chiesa è periodicamente costretta a condannare e ad assolvere, a pronunciarsi
solennemente e a cercare
di far dimenticare i suoi pronunciamenti, e non solo in ambito scientifico, come chiunque può verificare
con una
semplice lettura del Sillabo. Vi è costretta dalla tenace volontà di restare nel mondo, dal rifiuto
di accettare un
ruolo puramente spirituale. Non a caso il problema, in ambito cristiano, riguarda soprattutto la Chiesa cattolica,
che non ha imparato, come hanno dovuto fare i suoi confratelli orientali sotto la Turcocrazia e come hanno
parzialmente voluto fare i riformati in nome della modernità, a disinteressarsi, almeno in linea di
tendenza, della
gestione degli affari terreni. Il papa, per essere tale, deve poter dire la sua su tutto, anche se non può
più
permettersi di entrare in polemica con il mondo su tutti gli argomenti che la tradizione gli offre. É stato
osservato
(da Filippo Gentiloni sul Manifesto del 3 novembre) che il pronunciamento su Darwin significa una presa di
distanza dai vari fondamentalismi, cristiani e non, che dall'assunzione «alla lettera» dei rispettivi libri sacri
traggono consenso popolare e validificazione ideologica. In effetti, sappiamo che proprio su Darwin il
fondamentalismo protestante combatte una delle sue battaglie emblematiche. Ma l'esigenza che sta alla base del
lento processo di aggiornamento ideologico che l'attuale pontefice, al pari dei suoi predecessori immediati e
remoti, conduce è, in sé, abbastanza «fondamentalista»: è quella di mantenere alla propria
chiesa il ruolo
tradizionale di interprete (e giudice) di ogni possibile ideologia in ogni possibile campo dell'operare umano. I
tempi sono quelli che sono: la Chiesa oggi non gode più il monopolio della validificazione, né
quello, ad esso
strettamente connesso, delle comunicazioni di massa. Deve saper convivere con altre istituzioni totalizzanti. Il
che significa saper venire, se del caso, ad accomodamenti e compromessi di varia natura, saper cedere su Galileo
per poter resistere su qualcosa d'altro, per esempio sui temi che cita Feyerabend, quelli su cui, al momento, il papa
sa essere «molto aggressivo» (e su cui, tra parentesi, ritrova immediatamente la concordia con tutti i
fondamentalisti). Perché il controllo dell'ideologia è fonte massima di potere ed è questa,
naturalmente, la posta
in palio.
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