Rivista Anarchica Online
La donna, il parto, lo stato
di Emanuela Scuccato
Dovunque, in Occidente come nel Terzo e Quarto Mondo, le donne non sono messe nella condizione di sapere,
di essere informate e quindi di poter scegliere consapevolmente il sistema "più giusto" per loro di far
nascere
IL PARTO COME STRUMENTO DI CONTROLLO SOCIALE Che il rapporto delle donne con la
tecnologia sia effettivamente un rapporto difficile è fuori discussione. Lo sanno
bene quante si sono occupate e tuttora si occupano di questo tema, sia dal punto di vista teorico che da quello
pratico. Se è vero, infatti, che in quanto monopolio dei diversi poteri economico-politici la tecnologia
resta, dal
punto di vista strettamente teorico e decisionale, a latere della vita della stragrande maggioranza delle donne del
mondo, è altrettanto vero che da quelle che sono le implicazioni stesse dello sviluppo tecnologico la loro
quotidianità è stata ed è stravolta fin negli aspetti più intimi. Lo mette ben
in evidenza ancora una volta la femminista americana Robin Morgan quando, intervistata dalla
giornalista e scrittrice Maria Nadotti, rievoca per esempio l'entusiastica teorizzazione della liberazione della
donna attraverso le gravidanze in vitro - un'ipotesi, questa, che viene formulata agli inizi degli anni Settanta dalla
studiosa americana Shulamith Firestone. "Oggi, a distanza di vent'anni, sappiamo che quelle tecnologie sono
state usate contro di noi", afferma recisamente
la Morgan. Su questo, però, le donne si interrogano già da qualche anno. Si tenta di capire
quali siano le strategie - perchè
di vere e proprie strategie si tratta - che sottendono i nuovi orientamenti della ricerca scientifica, specialmente per
quanto attiene alla riproduzione; ci si vuole rendere conto di quali siano i vantaggi e quali i pericoli delle nuove
frontiere della biotecnologia; soprattutto ci si chiede quali siano, in questo contesto, i reali margini di
libertà per
un'azione consapevole da parte dell'individuo. "...Esiste un moderno uso del termine "vita" come soggetto
sostantivo dove finiscono per confluire, mescolarsi,
nutrirsi, istanze religiose, nuove risorse tecnologiche e nuove forme giuridiche del controllo sociale...", scrive
senza mezzi termini la studiosa della "storia del corpo" Barbara Duden. Dunque: "controllo
sociale". Controllare il corpo delle donne ha sempre significato, infatti, poter esercitare un forte controllo
anche su tutti
coloro con i quali esse entrano in relazione. Spossessarle della gravidanza e del parto, attraverso tutta una rigida
serie di riti magico-propiziatori o, all'opposto, attraverso sempre più sofisticati, anche se non meno rituali,
interventi tecnologici, significa voler marcare culturalmente e socialmente i nuovi nati, omologandoli fin da subito
in un Sistema che non prevede libertà di scelta. A chi giova tutto questo? E a chi giova che in
virtù e con l'ausilio delle nuove tecnologie la donna sia oggi trattata semplicemente alla
stregua di "un sistema uterino di approvvigionamento", come scrive ancora Duden? Se poi, leggendo i
resoconti degli antropologi sui diversi sistemi di nascita nel mondo, ci lasciassimo prendere
da facili entusiasmi ed additassimo nell'uno o nell'altro il modello "più giusto" per partorire, peccheremmo
senz'altro di ingenuità. Infatti, chi può dire che nascere nella penisola dello Yucatan secondo tutto
un antico
rituale sia "più giusto" e naturale che nascere per esempio in Svezia, dove le donne, preventivamente
informate,
possono chiedere e ottenere tutti i farmaci che desiderano per alleviare le sofferenze del parto? L'unica che
avrebbe diritto di parola è, di nuovo, soltanto la donna, intesa nella sua individualità. Ma di
quale donna stiamo parlando? Di una donna che si è assunta tutte le sue responsabilità
decidendo di continuare ad essere "un soggetto cognitivo
e decisionale" anche in questa zona oscura che è il passaggio dalla non vita alla vita, come auspica la
filosofa del
linguaggio Marina Sbisà, oppure di una donna che ha optato per la totale deresponsabilizzazione e che
delega agli
specialisti non solo la gestione del suo corpo, ma anche la gestione in toto del complesso evento della
nascita? Sempre più spesso, oggi, le donne preferiscono delegare ad "altri" responsabilità che
sono soltanto loro. Per
esempio, accettando di firmare in ospedale i documenti che sollevano il personale medico - quello stesso che
dovrebbe peraltro garantire loro un parto SICURO E INDOLORE! - da qualsiasi responsabilità in caso
di
complicanze. Ma per quale ragione è accaduto che sempre più spesso si sia rinunciato ad un
nostro "mettere al mondo" in favore
di sistemi di potere che talvolta non rispettano i più elementari diritti della donna, del nuovo nato e anche
del neo-padre, in nome di un efficientismo che vuole RIPRODURRE alla perfezione l'indiscusso efficientismo
di
produzione e consumo che caratterizza la nostra società? Gravidanza e parto ipertecnologicizzati;
inseminazioni artificiali; gravidanze in vitro; questo, tra l'altro, lo
scenario della riproduzione che l'Occidente sta esportando nel Sud del mondo senza che mai si riesca a stabilire
un equilibrio tra quanto di positivo, dal canto loro, le tecnologie hanno indubbiamente da offrire. "...nella
maggior parte dei paesi esiste una completa dicotomia fra il vecchio sistema contadino di partorire e la
nuova ostetricia occidentalizzata, e i due sistemi coesistono senza apprendere l'uno dall'altro quel che di positivo
possono offrire", ribadisce l'natropologa inglese Sheila Kitzinger. In ogni caso, dovunque, in Occidente come
nel Terzo e Quarto Mondo, le donne non sono messe nella condizione
di sapere, di essere informate e quindi di poter scegliere consapevolmente il sistema "più giusto" per loro
di far
nascere. In relazione alla nostra cultura, la psicoanalista Silvia Vegetti Finzi parla addirittura di "rimozione di ogni
rappresentazione interiore della gravidanza e del parto". "Le immagini ci vengono tutte dal di fuori", scrive la
psicoanalista "e si proiettano su di uno schermo oscurato, che non sa trascrivere le sensazioni
endogene". Come a dire che le donne sono state scippate a tal punto della loro corporeità, da temere
di ascoltare il proprio
corpo. Da non fidarsene. Come a dire che si aspettano che sia qualcun'altro a dirgli come si fa e possibilmente:
come si fa nel modo più indolore possibile. Come si è potuti giungere a questo? Del
resto, se il parto è un momento di intensa fisicità, "un MOVIMENTO PROFONDO dell'energia
sessuale della
donna", come afferma l'ostetrica Verena Schmid, come non aspettarsi che la nostra come le altre società
irreggimentino la nascita in modo che nulla, sotto l'impulso di tale e tanta energia, possa sfuggire al controllo
sociale? "E' da tenere presente che l'umanizzazione della nascita rappresenta solo un primo passo verso un parto
diverso", scrive la Schmid. "Il prossimo dovrà essere la FEMMINILIZZAZIONE, ovvero la
SESSUALIZZAZIONE DEL PARTO". Ma se tutte le società, dalle più "semplici", secondo
la definizione della Kitzinger, fino alle più complesse,
tengono rigidamente sotto controllo la sessualità dei soggetti che ne fanno parte, come riappropriarsi della
nascita
e farne uno degli eventi clou del percorso verso un riconoscimento di sè come SOGGETTO
DIFFERENTE, non-omologabile in un unico Sistema e quindi, di conseguenza, non-omologabile in un unico
sistema di nascita? Come
continuare ad essere "un soggetto cognitivo e pensante", politicamente autocosciente, in quella - la gestazione -
che sempre più spesso viene considerata una parentesi nella vita di una donna? Infine: come impedire
che la tecnologia venga usata contro di noi, superando una volta per tutte quell'equazione
donnaugualenatura, da piegare e sfruttare, che ha permeato, secondo la storica Carolyn Merchant, tutto il pensiero
filosofico moderno?
IL DOPPIO LAVORO DELLA MATRONA: LEVATRICE E CONTROLLORA Il parto, in Europa,
è sempre stato fin dall'antichità faccenda di donne e si configurava come momento peculiare
della cultura femminile. A presiedere tutti i parti era la "matrona", una donna anziana della comunità
che veniva chiamata ad assitere le
partorienti in virtù della sua grande esperienza. "Si tratta di una figura assai complessa, che rimane ancora
offuscata, enigmatica, insondata, a causa delle pesanti interdizioni che l'hanno colpita", scrive la sociologa
Mariuccia Giacomini. Depositaria di una medicina popolare di matrice sostanzialmente femminile, figura
magico-religiosa che
presiedeva secondo un complesso rituale al passaggio di status sociale della neo-madre - da donna a madre,
appunto - e del nuovo nato - dal nulla a membre della comunità a tutti gli effetti - la "matrona", che si
ritrova
indicata nelle diverse tradizioni del nostro Paese anche come "comare", "levatrice", "mammana" e "raccoglitrice",
era circondata nelle sue funzioni anche da altre donne: parenti della partoriente, amiche o semplicemente vicine
di casa venute a partecipare all'evento. La cosa era considerata talmente ovvia che la stessa iconografia medievale,
a riprova di quanto detto, raffigura sempre la neo-madre, nelle diverse Natività, al centro dell'attenzione
di un
gruppo di donne. Secondo la COMARE di Mercurio, un'opera del 1596 cui la storica Claudia Pancino fa
riferimento per ricostruire
l'iter dell'assistenza al parto in quell'epoca, i compiti della levatrice in relazione alla maternità erano
essenzialmente tre: 1) "conoscere se le donne erano gravide"; 2) "saper discernere avanti che si facesse
il matrimonio quali fossero le donne feconde per poter produr
figliuoli...il che si conosceva e dalla quantità del temperamento e dalla disposizione de' membri
genitali"; 3) "aiutar le donne gravide, governarle intanti'l parto, nel parto e doppo 'l parto, tagliar l'ombelico
alle creatura
e governarle". Proprio tra il XIV e il XV secolo, contro la "matrona" viene però bandita una vera e
propria crociata. In quanto,
appunto, trait d'union con antiche credenze e culti pre-cristiani, n onchè esperte di medicina consultate
ogniqualvolta ce n'era bisogno all'interno delle comunità, dove venivano tenute in grande considerazione,
le
comari non potevano infatti non rappresentare un pericolo per i poteri religioso e politico che in quel momento
storico si stavano consolidando. "In tutti i luoghi studiati", afferma la Giacomini "le guaritrici accusate di
stregoneria risultano molto numerose".
In un primo tempo represse dunque come streghe, le levatrici passarono successivamente sotto tutela della Chiesa
e dello Stato che, tramite loro, ebbero modo di esercitare un certo controllo sulla società. Per poter
praticare il mestiere di comare, dal Concilio di Trento in poi, occorre - per esempio - che la donna abbia
l'approvazione del suo parroco e che si impegni a farsi veicolo di cristianizzazione attraverso il battesimo. Sul
fronte laico, invece, e da un punto di vista più tecnico, i Collegi dei chirurghi cominciarono ad esercitare
una certa
sorveglianza sulle ostetriche urbane nel Settecento, imponendo loro corsi di formazione ed esami, da sostenere
presso le nuove scuole per levatrici che erano ormai sorte in tutte le principali città del Nord
Europa. In Italia, la prima Fondazione di questo tipo sorse a Torino. "L'istituzione dell'ospedale per le
partorienti mirava
ad essere la base dell'istruzione delle levatrici", ci informa a questo proposito la Pancino, citando il Manifesto
del Vicariato del capoluogo piemontese del 19 giugno 1728. Tuttavia, l'ammissione all'Opera era molto ardua.
Per poter studiare da ostetrica bisognava presentare una supplica al direttore dell'ospedale corredata da un
certificato di buoni costumi rilasciato dal sacerdote della propria parrocchia e dal consenso scritto del marito.
Perchè, naturalmente, le aspiranti ostetriche dovevano essere sposate. Non solo. Le allieve dovevano saper
leggere
ed essere in gradi di pagare, oltre ad uno scudo d'oro che per consuetudine veniva regalato alla maestra al
momento dell'ammissione al corso, il vitto, che ammontava ad una "doppia" mensile. E' evidente, perciò,
che
gli ostacoli che erano stati creati all'esercizio di questo antichissimo mestiere, che affondava le sue radici nella
medicina empirica e nelle tradizioni popolari, finirono con l'estromettere proprio quelle donne che ne custodivano
i segreti, cioè le donne delle classi subalterne. Alla fine di sei mesi di corso, se l'allieva aveva
superato "l'opportuno esame", se aveva ottenuto dal rettore
dell'Opera i certificati attestanti la sua "abilità, obbedienza, attività prestata..." e rettitudine
morale, soltanto allora
essa poteva "tenere insegna d'ostetrice". La svolta autoritaria impressa nel Settecento al cammino della "matrona"
non è tuttavia scevra da lotte e resistenze da parte delle donne, che si scontrarono a lungo con gli ostetrici
maschi,
perchè la progressiva e massiccia medicalizzazione del parto non avesse il sopravvento sui valori
individuali
legati alla nascita. Ancora oggi si può dire che la partita non sia del tutto chiusa. Sulla figura dell'ostetrica,
sui
suoi compiti e sugli stessi modelli di assitenza al parto, si continuano a produrre numerose ricerche e riflessioni,
soprattutto da parte di chi questo mestiere lo esercita in prima persona.Ne emerge chiara l'esigenza di superare,
una volta per tutte, i ruoli di potere, per porsi nei confronti della donna-madre in una posizione di "assistenza
globale, individualizzata e sessuata", come scrive l'ostetrica Verena Schmid, e per sgombrare finalmente la scena
del parto "dalla creatività irrazionale, dalla fantasia, dagli atti di fede e dalle curiosità di
conoscenza dei singoli"
che l'hanno caratterizzata dalla Rivoluzione Francese in poi, come spiegano la ginecologa Anita Regalia e
l'epidemiologa Emanuela Terzian, così da "riconoscere alle donne la libertà di capire ed esprimere
ciò che la
gravidanza e il parto rappresentano nella loro storia e nella loro esperienza" personali.
BIBLIOGRAFIA
Cassandra non abita più qui Mari Nadotti
intervista Robin Morgan (A viva voce, La Tartaruga Ed. 1996)
Il corpo della donna come luogo pubblico Barbara
Duden (Bollati Boringhieri, 1995)
La nascita in quattro culture Atteggiamenti
e pratiche ostetriche a confronto Brigitte Jordan (I quaderni del nuovo nato, Emme Ed. 1984)
Figura e compiti dell'ostetrica: problemi aperti e possibilità di evoluzione di Verena
Schmid in Come sapere il parto Storia, scenari,
linguaggi a cura di Marina Sbisà (Rosenberg & Sellier, 1992)
Donne come madri Sheila
Kitzinger (Bompiani, 1980)
L'altra scena del parto di Silvia Vegetti Finzi in
Le culture del parto (Saggi Feltrinelli, 1985)
La morte della natura Donne, ecologia e
Rivoluzione scientifica. Dalla natura come organismo alla Natura come macchina Carolyn
Merchant (Garzanti, 1988)
Il bambino e l'acqua sporca. Storia dell'assistenza al parto dalle mammane alle ostetriche
(sec. XVI-XIX) Claudia Pancino (Franco Angeli, 1984)
Nè arte nè scienza: stereotipi e ambiguità dei modelli di assistenza
ostetrica di Emanuela Terzian e Anita Regalia in Come sapere il
parto a cura di Marina Sbisà (op. cit.)
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