Rivista Anarchica Online
Tempi spezzati
di Filippo Trasatti
Se chiedete ad uno studente delle superiori quale sia il problema che lo assilla di
più durante la mattinata
scolastica, probabilmente vi risponderà: l'ora succesiva; nel bene e nel male: la campanella dell'intervallo,
la
verifica, i giri di corsa nel cortile, comunque l'ansia per il dopo, come se quello che accade nel presente non
avesse poi tanta importanza. Fate la stessa domanda ad un insegnante delle stesse scuole e vi
risponderà quasi certamente che manca il tempo
per finire il programma, per interrogare, per le uscite didattiche, per lo scrutinio... Qulacosa insegnanti e
studenti hanno in comune: il problema del tempo in un'istituzione che sembra immersa
in un'apatica immobilità. L'apprendimento della regolazione del tempo è il segreto
dell'istituzione scolastica che i bambini del romanzo
di Peter Hoeg, I quasi adatti (Mondadori, Milano 1996, pag. 275, lire 30.000), scoprono
a costo della stessa vita. Peter, protagonista della storia, racconta dopo vent'anni l'esperienza della scoperta
della congiura del tempo alla
scuola sperimentale Biehl di Copenhagen. Ragazzo disadattato, ai limiti della delinquenza, orfano, passa la sua
vita infantile in collegi, finchè giunge alla scuola modello di Biehl, dove si cerca con un piano speciale
di
reintegrare i disadattati. Lì incontra una ragazza, Katarina, di poco maggiore di lui, e un bambino
più piccolo,
August e con loro dà vita a una sorta di piccola fragile e tragica famiglia. Tanto più meticolosa
nei collegi, ma
non diversa dalle scuole normali, è la regolazione del tempo. "Se uno riesce a rimanere alla scuola, se non
commette gravi violazioni o negligenze, ci resta per dieci anni. In questi dieci anni il suo tempo sarà
strettamente
regolato, solo di rado avrà un dubbio su dove stare o cosa deve fare. E gli rimarranno solo poche ore in
cui dover
decidere qualcosa da solo. Il resto del tempo sarà strettamente regolato. Suona la campanella e si sale in
classe,
suona e si scende, suona e si mangia, suona e si lavora, suona, mangiare, suona, fare i compiti, suona, tre ore
libere, suona, si va a letto. E' come se fossero stati costruiti dei tunnel stretti, uno ci cammina e non può
uscire,
sono invisibili, come il vetro appena pulito, uno non li vede se non ci va a sbattere. Ma se diventa cieco o gli si
affievolisce la vista, allora deve cercare di capire il sistema". Il meccanismo è perfettamente oliato e non
lo si
sente neppure funzionare finchè, per qualche motivo, s'inceppa oppure quando noi c'inceppiamo.
L'istituzione-scuola appare a questi bambini alla ricerca della verità, come un'istituzione che congiura
segretamente per la
dissipazione del tempo. Vite sequestrate, tempo rubato; certo, dicono gli istitutori, per fare del bene, per formare
degli adatti alla società. E gli adatti sono percisamente coloro che sanno stare al tempo, che scherzano,
studiano,
ballano, ridono e sanno rispondere a tempo debito. Per far questo, per rendere compiuta quest'opera immane nel
piccolo d'uomo ci vogliono anni, dieci o forse più. "Le giornate di un bambino - scriveva la
psicoanalista Maria Bonaparte - sembrano svolgersi in un certo senso
al di fuori del nostro tempo. Le giornate dell'infanzia sembrano eterne al bambino... Naturalmente gli adulti che
allevano il bambino gli impongono severamente la loro nozione del tempo...ma egli sente che l'imposizione, da
parte degli adulti, del loro tempo, è estranea al suo tempo che, per natura, è in un certo senso
infinito". Tante e
complesse sono le cose da imparare a proposito del tempo. Si deve saper leggere un orologio e un calendario,
distinguere tra tempo privato e tempo pubblico, aggirare le crisi nostalgiche ed evitare un'esaltazione troppo
accesa per il futuro. Soprattutto si deve imparare che si possono vivere contemporaneamente tempi paralleli e che
la continuità temporale ed esistenziale si può spezzare in qualsiasi momento, se la "realtà"
lo impone: ora faccio
questo, provo queste emozioni, mi comporto in questo modo; tra cinque minuti farò qualcos'altro (che
non ho
deciso), proverò altre emozioni (meglio nessuna, perchè le emozioni si sottraggono a una
manipolazione troppo
rapida: arrivano come saette, ma hanno la spiacevole abitudine di permanere), mi comporterò in tutt'altro
modo. In questo apprendimento del tempo spezzato, la TV con il suo stile a zapping ha una insostituibile
funzione di
rinforzo e amplificazione (visti i tempi di esposizione). Ciò che così viene acquisito, con dura
fatica e
amputazione della propria vita, non è nient'altro che la schizofrenia della normalità. Bisogna
imparare a muoversi
velocemente attraverso questi tempi paralleli e discontinui (la Confindustria direbbe: imparare ad essere flessibili).
I più veloci hanno la meglio, vivono nella competizione; i più lenti vivono ai margini, in un tempo
che si avvicina
alla stasi. Per i più lenti, il tempo lineare diventa ciclico: la ripetizione. I più veloci, in alcuni
paesi, possono
saltare le classi, arrivare prima alla meta perchè più veloci. D'altronde il tempo lineare,
puramente quantitativo della scuola moderna, rigidamente distribuito in scacchiere
orarie deve trasmettere l'idea falsa che tutto è attentamente programmato, che nulla di nuovo e inaspettato
accade,
nè può accadere. Potremmo chiamarla una progressiva contrazione del campo visuale del
possibile, finchè esso
si riduce ad una linea retta davanti a noi, netta e indiscutibile, com'è stata fino a poco tempo fa come la
geometria.
Sono i tunnel di cui parla Peter, tunnel trasparenti in cui sbatti la testa solo se sbandi. E se guardi indietro ti
sembra di vedere in mezzo a tanta oscurità qua e là qualche sparso barlume. La scuola non ha
storia nè memoria.
I ragazzi hanno ricordi legati a momenti particolari (la gita, l'autogestione, l'imprevisto che apre un'altra
possibilità) ma nessuna storia da raccontare (se non parallele, di tempi rubati, segreti o forae sognati),
nessuna
storia compiuta e sensata, proprio perchè l'organizzazione scolastica è fatta per spezzare le storie.
Finito l'anno,
restano i registri e i muri di tanti tempi vissuti e spezzati e nei pochi che conservano ancora un barlume di
sensibilità e di pietà per l'umana specie, una nostalgia profonda per persone vive e a volte
meravigliose che lì
come in un'enorme fornace hanno gettato a palate il proprio tempo per tener vivo un fuoco che è spento
da
sempre. In questo, e non certo nei parametri dell'ottimizzazione, la scuola condivide appieno il progetto del
capitalismo: sostituire a ciò che è vivo, ciò che è morto, a ciò che
è vuoto, ciò che è pieno, per poterlo meglio
inserire nella macchina, qualunque sia, purchè funzioni. Riprendersi il tempo è il primo passo
necessario per cambiare vita, prima ancora che per cambiare scuola. E'
possibile pensare a un nuovo spazio-tempo non-euclideo nella scuola? Imparare a pensare che il tempo è
elastico,
che sgorga essenzialmente dentro di noi e che gli orologi ci servono per relazionarci agli altri e non per essere
assoggettati all'orologio universale del dominio. E infine imparare con Bergson che non si può definire
la libertà
(se non si vuole cadere in una qualche forma di determinismo), ma che tutti riusciamo a sentirla quando e se
percepiamo il tempo che sgorga da noi come una fonte sempre viva, finchè viviamo.
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