Rivista Anarchica Online
Noi, Veltroni e gli albanesi
di Carlo Oliva
Nessuno è tenuto per principio a trovare simpatici gli albanesi (o gli zingari,
i marocchini o...), ma quando si tratta
di rapportarsi con costoro è tenuto, se alla sinistra vuole ancora riferirsi, a cercare nel suo patrimonio
storico quei
valori che possono consigliarlo di superare quell'eventuale antipatia. Per esempio, quello della tolleranza
Brutti tempi, per la sinistra, quelli della crisi albanese. Non solo per lo sgradevole
senso d'impotenza da cui
ci
siamo sentiti prendere tutti di fronte a quanto accadeva dall'altra parte del Canale di Otranto e sulle nostre coste
inevitabilmente si riverberava. Non solo perché il soggetto principale di questa impotenza è
sembrato essere a
molti proprio quel governo che della sinistra avrebbe dovuto essere l'espressione, e che altro non ha saputo fare
che cacciarsi nell'alternativa, ideologicamente un po' fastidiosa, tra blocco navale in difesa dell'ordine pubblico
italiano e intervento militare in difesa dell'ordine pubblico albanese, che non è cosa che da un governo
"di
sinistra" ci si dovrebbe aspettare, per quanta poca fiducia nei governi in genere si sia abituati a nutrire. Non solo
perché nel vuoto di iniziative che così drammaticamente si evidenziava si sono affrettate a
inserirsi, secondo una
logica del tutto prevedibile, le autorità militari, in cerca, come sempre, di una funzione e di una
visibilità in base
a cui giustificare la loro esistenza. Non solo per i disastri cui tutto questo ha portato, a partire dal tragico
speronamento del venerdì santo. Ma soprattutto perché quella crisi è stata l'occasione di
una specie di
sgradevolissimo esame di coscienza. Perché dalle file stesse dello schieramento progressista si sono levate
voci
e opinioni che non avremmo voluto sentire. Eppure le abbiamo sentite tutti, o almeno ne abbiamo sentito
riferire. I sondaggi di opinione. I servizi giornalistici.
Le telefonate a "Italia Radio". I microfoni aperti di "Radio Popolare". La quantità di interventi di persone
che tutto
autorizzava a sentire, almeno in senso generico, dalla nostra parte e che richieste di dire la loro in tema di
solidarietà e assistenza ai profughi albanesi, dichiaravano in presa diretta che loro di albanesi fra i piedi
proprio
non ne volevano. Che di aiutarli o di solidarizzare con loro proprio non ci pensavano. Che ogni paragone con gli
emigranti italiani del passato era improprio e fuorviante, perché i nostri maggiori raminghi per il mondo
erano
bravissima gente, lavoratori seri e coscienziosi, pronti a integrarsi nella società che li accoglieva e ben
lieti di
contribuire al suo sviluppo, mentre gli albanesi, in genere, sono una banda di lazzaroni assai trucidi con cui meno
si ha a che fare meglio è (e non parliamo, naturalmente, delle albanesi). Onde una disponibilità
diffusa, e neanche
tanto inespressa, ad accogliere con entusiasmo gli inviti che da tutt'altre parti si levavano a ributtarli tutti in
mare. E come si reagisce di fronte a dichiarazioni del genere? Le si lascia cadere come qualcosa che non ci
riguarda,
perché chi le esprime, al di là delle etichette e delle definizioni correnti, con la sinistra non ha
evidentemente
niente a che fare, o le si assume come prova del fatto che la sinistra, oggi, non si lascia più condizionare
dai vecchi
tabù, anche a costo di lasciar spazio anche al razzismo e all'intolleranza? La domanda può
sembrare ingenua (nel senso di troppo facile), specie su queste colonne, ma è un fatto che, da un po'
di tempo a questa parte, la tendenza
a lasciar cadere come zavorra i vecchi valori e le vecchie certezze è talmente diffusa, nella sinistra, che
non si
capisce perché non allargarla a queste manifestazioni estreme. Non ha scrupolo di farlo, per esempio, il
leggendario Walter Veltroni, ulivista doc e vicepresidente del consiglio (almeno alla data della consegna di questo
articolo), che in un dotto articolo in prima pagina del Corriere della Sera (giovedì 3 aprile
) non si perita a
considerare anche quelle voci come interne al suo schieramento. Certo, dal suo punto di vista, l'affermazione
è un po' interessata. Anche lui e i suoi colleghi di governo, in
occasione dei provvedimenti presi per fronteggiare la crisi albanese, sono stati accusati con una certa energia di
aver smarrito l'identità ideologica originaria e l'accusa evidentemente gli brucia. Lui di sinistra si
considera
ancora. Solo che adesso "la sinistra deve governare" e governando, si sa, si imparano tante cose. Si impara "la
distanza tra le parole e i fatti". Si impara a dire delle "verità scomode", per esempio in tema di pensioni
o di
rigidità del lavoro. Si impara che non esiste più, anche per chi sta da quella parte, "una sola
verità". Perché
(attenti) "il popolo di sinistra che invoca sicurezza a San Salvario è diventato di destra? Lo sono diventati
gli
ascoltatori di Radio Popolare? Lo è Giuliano Amato, che vuole riconoscere i diritti dell'embrione? Lo
è Livia
Turco, che non vuole la liberalizzazione della marijuana?" E potrebbe - dice - continuare a lungo in quella che
è una vera e propria esemplificazione a discarica (non troppo lontana da quella che in linguaggio
processuale si
chiama "chiamata di corrreità"), ma non è priva di interesse. Tanto che può valere la pena
di dedicargli un
minimo di analisi. Lasciamo perdere, per l'occasione, Giuliano Amato e Livia Turco: il discorso ci porterebbe
troppo lontano. E
lasciamo perdere anche il problema di cosa sia diventato Walter Veltroni, che più di tanto non ci interessa.
Ma
il fatto è che il bravo giovane coglie, probabilmente senza rendersene conto, il cuore del problema,
quando scrive
che la ragione stessa della sua vita politica è la volontà di coniugare "il massimo di
radicalità con il massimo di
realismo". Vuol dire, naturalmente, che anche il più zelante rivoluzionario deve tener conto della
realtà e che se
lui di rivoluzioni ne ha fatte pochine è colpa della realtà che si è trovato davanti (sinistra
intollerante compresa),
che potrebbe anche sembrare una cosa sensata, ma forse lo è solo fino a un certo punto. Perché
il poveraccio non
si rende conto che quella di realismo, in politica come altrove, non è una categoria ovvia come sembra.
In effetti, il giorno che i Veltroni di questa terra si renderanno conto che la Realtà non è
qualcosa di dato una volta per tutte
chissà da chi, un dato a cui non si può far altro che sottomettersi con quanto più zelo si
trova, ma qualcosa che
va anch'esso definito e costruito, perché gli unici valori che ci si trovano sono quelli che ci abbiamo messo
noi,
sarà un gran giorno per tutti. In fondo chi vuole il cambiamento (e la rivoluzione è solo un tipo
di cambiamento
un po' più radicale di altri), vuole sempre qualcosa che non c'è, visto che se ci fosse non ci sarebbe
motivo di
darsi da fare per realizzarlo. E da questo punto di vista il vecchio slogan sessantottesco che esortava chi volesse
essere realista a chiedere l'impossibile non era solo un paradosso. Ma Veltroni, si sa, all'epoca era ancora un
bambino. Il fatto è che la sinistra non è un contenitore in cui chi c'è c'è,
qualsiasi idea gli apssi per il capo. "Essere di
sinistra" è un impegno, non un'appartenenza (e il discorso, naturalmente, vale per tutti, compresi gli
anarchici,
cui finora nessuno ha pensato di chiedere cosa pensino degli albanesi, e speriamo bene). E' un impegno
difficile, certo, e anche contraddittorio, perchè è vero che su una quantità di problemi si
finisce
per avere delle opinioni diverse e per proporre diverse soluzioni. E', in sostanza, un tipico impegno di
schieramento. Il che significa che su ogni problema ci impone di schierarci, e che quello che ci distingue dagli
altri sono solo i valori su cui ci schieriamo. Nessuno è tenuto per principio a trovare simpatici gli
albanesi (o gli
zingari, i marocchini, i meridionali, i neri e via andare), ma quando si tratta di rapportarsi con costoro e di
organizzare la propria convivenza con loro è certamente tenuto, se alla sinistra vuol ancora riferirsi, a
cercare nel
suo patrimonio storico quei valori che possono consigliarlo di superare quell'eventuale antipatia. Per esempio,
quello della tolleranza, che non è una manifestazione di buonismo, ma è il concetto su cui, da
Voltaire in poi, si
è costruito l'edificio della democrazia occidentale. Se si trascura questo elementare dovere civico, si
finirà sempre
con il ridursi, stringi stringi, alla difesa della Realtà data. Quella in cui di albanesi e altri estranei tra i
piedi non
ce ne sono, ciascuno è libero di dar sfogo alla propria intolleranza e a dispiegare il suo egoismo, ma per
fortuna
i vari Veltroni sono (o potrebbero essere) vicepresidente del consiglio. Che, con rispetto parlando, non mi sembra
poi un ideale così affascinante.
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