Rivista Anarchica Online
La cultura non è merce
di Stefano d'Errico
Indebolimento della scuola pubblica, favoritismi ai diplomifici privati e confessionali, negazione della
continuità
didattica, ecc. La critica alla riforma Berlinguer da parte del segretario nazionale dell'Unicobas Scuola
La nascita dell'Unicobas Scuola è stata caratterizzata da una fortissima
spinta alla realizzazione di una "progetto
scuola" alternativo all'esistente che affiancasse l'agire rivendicativo, spesso meramente "salarialista", che aveva
caratterizzato i primi passi dei vecchi Cobas. L'Unicobas coglieva il segno di una profonda carenza,
imperdonabile per un movimento di insegnanti: il segno di una scissione schizofrenica che aveva lasciato ai
margini la discussione sul quotidiano della professione e della funzione docente, proprio nel momento in cui
più
alta si levava la richiesta di un suo pieno riconoscimento. Le resistenze che si incontravano allora sono
probabilmente da ascriversi al retaggio di trascorsi politici vissuti nel segno di un'ottica totalizzante, ove il
primato dell'economico ha spesso "limato" e sacrificato sull'altare di linee precostituite aspetti e meccanismi di
riproduzione del potere definiti a torto "sovrastrutturali". L'Unicobas colse l'occasione, unica ed irripetibile, di
tentare di ricomporre "l'animus" della categoria docente, ponendo apertamente all'ordine del giorno la ricerca di
un progetto di trasformazione radicale della scuola dal basso, che rischiava l'anonimato, respinto da una strategia
mirante a raccogliere i lavoratori dell'istruzione attorno ad una protesta di carattere esclusivamente normativo
e retributivo. Oggi la parte più cosciente della categoria sa bene che occorre sedimentare una forte
coscienza delle
"ragioni della protesta", percorrendo - a latere delle rivendicazioni sindacali - la via dell'occupazione e della
trasformazione attiva, sperimentale e provocatoria, degli ambiti della didattica, anche perché la scuola
assume
forza contrattuale proprio per la sua centralità sociale. Non si tratta quindi di un contenzioso separato,
anche se
in settori pur critici ed avanzati del mondo docente, permane ancora la sudditanza ad un percorso mutuato dalla
storia dei sindacati "ufficiali"; mere cinghie di trasmissione dei partiti, quasi ad accettare supinamente che il
dibattito sul "progetto" rimanga appannaggio esclusivo delle "forze politiche" e delle istituzioni, ad esclusivo
vantaggo delle alchimie parlamentari, in un'ottica che spoglia gli insegnanti di ogni ruolo attivo nella definizione
delle prospettive della scuola, prospettive che vengono calate ed imposte dall'alto. Un malinteso soggettivismo
di appartenenza politica che denota in realtà ancora una volta un "farsi massa" che, anziché
esprimere alterità,
veicola sudditanza all'autonomia del politico, secondo l'usato schema della divisione dei ruoli tra "sindacato" e
partito: al primo si destina la "vertenza" (oggi peraltro sacrificata interamente sull'altare delle
"compatibilità"
economiche), al secondo si "appalta" il "progetto", inteso come grande speculazione per "addetti ai lavori", nel
cui novero, paradossalmente, non rientrano i lavoratori impegnati sul campo, ma astratte elite abilissime nei giochi
di Palazzo, quanto mai impegnate in trincea, dipendenti da altre "compatibilità", quelle imposte dalle
segreterie
politiche. Inoltre, una sorta di "complesso di inferiorità" maturato all'ombra dell'operaismo sindacale di
maniera
(e di facciata), stimola parte dei docenti "impegnati" ad un missionarismo quotidiano anche encomiabile, ma che
li colloca ancora all'interno di un ingranaggio perverso, quali alacri esecutori di "riforme" demagogiche, concepite
per carpirne la buona fede ad uso e consumo di piani di privatizzazione della scuola che, con la scusa di favorire
l'occupazione, ne fanno una mera dependance dell'industria, con l'obiettivo ormai dichiarato di "sfornare"
soggetti acritici, duttili e "flessibili" per un mercato del lavoro senza piu' alcuna garanzia.
Metodologia e didattica Scopo del sindacalismo di base è invece quello
di svelare tali dinamiche, indotte da un complessivo progetto di
stampo autoritario teso a mortificare capacità e protagonismo di docenti e studenti in una condizione di
generale
estraneità o sudditanza. La falsa opzione fra il rampantismo di una "novelle vague" serva dei progetti di
ristrutturazione ed ormai refrattaria ad ogni solidarismo e stereotipi di malriposto impegno indefesso ed acritico
deve venire respinta. Occorre un confronto serrato sulla qualità (e sul "cui prodest") della scuola, secondo
i
termini di un dibattito che necessariamente si svolge sul doppio binario della salvaguardia dei veri obiettivi della
scuola di tutti e delle libertà sindacali, sul doppio binario della libertà di insegnamento e della
libertà di
apprendimento. Il confronto investe naturalmente metodologia e didattica, ed è il più consono
per costruire
gradualmente fisionomia e coscienza delle stesse sezioni sindacali di base, nello sforzo di avviare un processo
di autogestione della qualità del lavoro, oltre che delle forme di lotta, quale miglior veicolo per definire
demarcazioni ideali fra differenti modi di intendere la scuola. Ed è bene che le differenze (che non vanno
aprioristicamente intese come contraddizioni insanabili) emergano, non tanto per acquisire una linea univoca,
bensi' per potenziare quella "pluralità di interventi nell'unità d'intenti" essenziale nello sviluppo
di ogni prassi
collettiva, cosi'come in pedagogia. Gli argomenti sul tappeto aprono un ventaglio potenzialmente molto
ampio. Quali programmi, per quale sapere?
Quale didattica, cosa e come insegnare? È in discussione la stessa funzione della scuola: dal problema
(non solo
"quantitativo" ma anche politico) dell'obbligo e della sua estensione, alla questione (fondamentale)
dell'autorità
fra istituto formale ed alterità morale, fra sviluppo dell'attenzione critica, educazione e formazione, fra
istruzione
e socializzazione delle conoscenze, fra controllo sociale, autonomia individuale dello studente ed indirizzo. Infine
il punto focale di una valutazione che, scollegata dal piano degli interventi ed ancorata a criteri obsoleti, pare
sempre piu' feticcio fossile, in omaggio a conformismi di varia natura, una valutazione che non può essere
però
neanche avocata alla demagogia pura, quasi fosse un "servizio" che il docente deve produrre, subordinato in
ciò
al controllo di figure non professionali. Quindi vi sono inevitabilmente problemi inerenti la gestione politica dello
spazio scuola, oltre che delle strutture fisico-architettoniche, la contiguità fra scuola e società
civile, il passaggio
indotto del primato educativo dalla scuola alla televisione, l'assorbimento delle agenzie educative nella
realtà
sociale, l'interazione con gli studenti, soggetti attivi, e col territorio, e la loro partecipazione alla struttura
nell'ambito di una scuola che, a parer di molti, per rinascere deve strappare le condizioni per una reale
autogestione, onde, preservandone il carattere di massa e garantendo pieno diritto al'istruzione, si spezzi il giogo
che la vuole compressa fra stato e privato. Non ultimi, poi, rimangono gli aspetti legati al reclutamento
nonché alla valenza legale degli stessi titoli di studio. Tutti questi temi pongono al centro
l'inalienabilità della libertà di insegnamento, correlata con la libertà di
apprendimento, quindi impongono anche una presa di posizione sul principio della laicità dell'istruzione
pubblica,
ancora posto in forse dall'ingerenza confessionale nella scuola. Ma il nodo principale da affrontare è
senz'altro quello della ricerca educativa, compito non solo della pedagogia
universitaria ma, secondo la felice definizione di Giovanni Maria Bertin, della "scuola militante" in tutti i suoi
gradi. Una scuola lanciata verso il futuro, che invece di escludere, vagli criticamente e rilanci l'utopia, divenendo
il fulcro del rinnovamento civile della società, anziché mantenersi a rimorchio del sistema come
mero ricettacolo
passivo di norme, funzionamenti ed obiettivi. Come hanno più volte sottolineato Lamberto Borghi
ed altri, viviamo in un periodo storico in cui il pericolo di
una amministrazione totale e di una crescente massificazione costituisce il maggiore ostacolo per la cultura. Un
ruolo fondamentale lo gioca l'acquiescenza del Pubblico alla capillare penetrazione nell'Opinione della direzione
dei pensieri e dei sentimenti, emanante dai centri di potere. A questo punto la cultura come promozione della
capacità di dissenso è il bene più prezioso, non soltanto per le sorti dell'educazione, ma
per lo stesso avvenire
dell'umanità. Risulta chiaro, però, come la scuola, pur rivestendo immensa importanza, risulti
inadeguata da sola
ad assicurare il successo della formazione culturale. A ciò afferisce una più vasta problematica
sociale che non
può certo venire sottaciuta, in quanto problematica fondante, quella stessa che ha troppo spesso relegato
la scuola
a struttura di supporto di un apparato di dominio onde mantenere in vita, se non anche rafforzare, perenni
sperequazioni e divisioni di classe. Una delle questioni principali rimane il perpetuarsi della divisione sociale
del lavoro, che ha sede nella scuola
nella schizofrenica divisione-separazione di fondo fra lavoro intellettuale e manuale, fra ruoli dirigenti ed
esecutivi, e trova esempio lampante nel permanere di istituti di serie A e serie B, e di ordini di scuola definiti
secondo una assurda piramide gerarchica, ove si identificano (in assenza del ruolo unico docente), insegnanti di
serie A e serie B. Il progetto Berlinguer tende oggi a spezzare ulteriormente l'unità della categoria,
ed occorre aprire un nuovo
fronte di lotta; ma questo è possibile solo elaborando un progetto che si differenzi in modo compiuto in
termini
didattici, che sappia ribaltare le generalizzazioni interessate funzionali ad una logica di precarizzazione sociale,
di indeterminatezza e mobilità, il "fatti imprenditore di te stesso" e d'altra parte il feticcio delle
competenze
monoprofessionali ed il neo innatismo che lo sostiene, in grande fase di rimonta, secondo il quale addirittura il
ventaglio di competenze determinato dall'eredità genetica e sociale segnerebbe senza possibilità
d'appello la sorte
dei soggetti, la maggioranza dei quali sarebbero, senza deroghe, da avviare a forme di attività lavorative
semplici,
ripetitive, eterocontrollate.
Riforma Berlinguer Occorre recuperare i tratti essenziali del dibattito sulla
qualità della scuola, che va tradotto in una forte
rivendicazione di centralità della scuola di tutti. Non è un caso però se il combinato fra
riforma Berlinguer, Legge
Bassanini, Legge Finanziaria e Accordo sul Lavoro, per prima cosa, e senza vergogna, attaccano il ruolo pubblico
della scuola. Tanto che persino il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione (appena rieletto nel Novembre
scorso - 16.200 voti alle liste dell'Unicobas) dovrà cambiare nome in Consiglio Nazionale dell'Istruzione,
con
buona pace del termine "Pubblica" e della sostanza che questo rappresenta. Infatti obiettivo conclamato è
la
creazione di un "sistema nazionale integrato dell'istruzione", che comprenda a pieno titolo anche i diplomifici
privati e confessionali. La chiusura del cerchio viene poi messa in atto, con la scusa della cosiddetta
"parità", con
un sistema esplicito di finanziamento pubblico del privato: quello che non era riuscito a D'Onofrio e ad un
quarantennio di monopolio democristiano. Naturalmente il tutto è sostenuto da un forte attacco alla
libertà
d'insegnamento ed alla sovranità degli Organi Collegiali. Si intende imporre una riforma dei Consigli
Scolastici
Provinciali all'insegna del maggioritario: per far fuori i sindacati "incompatibili", i membri dei futuri Consigli
non saranno piu' eletti direttamente dalla categoria ma scelti dai Consigli Distrettuali ove, se non si avrà
il 51%
si verrà fatti fuori dal consociativismo CGIL, CISL, UIL, SNALS. Si sottopone il Collegio dei Docenti
all'autorità
del preside-manager, il cui contratto viene separato da quello dei docenti dal momento che assume lo status
dirigenziale, un dirigente scolastico cui viene assegnata in prospettiva anche la titolarità ad assumere
discrezionalmente il personale; si fa entrare il privato nella scuola come sponsor e committente, che in assenza
di adeguati stanziamenti da parte di un Governo che ha diminuito ancora i fondi per l'istruzione, potrà
imporre
i propri diktat, alla faccia della libertà d'insegnamento e d'apprendimento (e la chiamano "Autonomia
scolastica",
meglio sarebbe definirla Autogestione della miseria, anche se l'ha votata pure Rifondazione Comunista). Si
inserisce nell'obbligo (giustamente) l'ultimo anno di scuola dell'Infanzia (l'attuale Materna) ma, in assenza di
finanziamenti per l'istituzione di nuove scuole, lo si appalta al privato (suore) che ne gestisce piu' del 50%. Si
colpisce pesantemente l'ordine di scuola che più ostacola il privato, le Elementari, concentrando di fatto
su 4 anni
il personale che ora esiste su 5 e spostando in basso i due terzi degli insegnanti dell'attuale scuola media
nell'ultimo biennio del nuovo ciclo primario (che durerà 6 anni); poco importa se la preparazione non
è adeguata
e se la riforma manderà in "esubero" un insegnante elementare su cinque: per chi perderà la
titolarità è pronta la
riconversione (fatto nuovo introdotto dalla Legge Finanziaria, che investe ogni ordine e grado di scuola) su
cattedre di sostegno, con un corso di qualche mese ed alla faccia del diritto allo studio dei portatori di handicap,
sino ad oggi seguiti da personale specializzato con corsi biennali. Poi si fa rientrare dalla finestra il vecchio
avviamento professionale imponendo, già ai dodicenni, all'inizio del ciclo secondario (le Medie
spariscono),
precoci scelte "professionali". E se ancora non bastasse si danno in gestione gli studenti stessi a non meglio
definite "Agenzie", private o a capitale misto, longa manus dell'industria, che potrà utilizzare manodopera
a costo
zero con la scusa della "formazione" (e con buona pace dell' "istruzione" e del "sapere critico"). Si trasformano
(Patto sul Lavoro) gli attuali Istituti Tecnici e Professionali in meri Centri di Formazione Professionale alle
dipendenze degli Enti Locali; si trasportano gli Uffici di Collocamento dal Ministero del Lavoro anch'essi al
comparto degli Enti Locali e si consente che vengano affiancati da collocatori privati, venditori del "fumus" del
lavoro, speculatori di bassa lega. Si colpisce pesantemente la scuola Superiore, nell'ambito di un
innalzamento-farsa dell'obbligo a soli 15 anni di età (10 anni di obbligo, comprensivo della scuola
dell'Infanzia,
contro gli 11/12 della media europea). Segno dei tempi è il poco clamore che simili provvedimenti
annunciati hanno destato fra "esperti" ed intellettuali,
cosi' come nel recente passato a fronte di provvedimenti normativi (introdotti a colpi di circolari o per contratto)
che hanno sancito il ritorno ad un vero e proprio oscurantismo culturale, ad esempio tramite il blocco del tempo
pieno nelle elementari (Legge 148/'90), o tramite il definitivo affossamento (Decreto n.° 35/'93) del ruolo unico
docente (parità di inquadramento dalle materne alle superiori) insieme al tipo di scuola che presuppone.
Silenzio
sull'istituzione dell'insegnante a metà (part time) ed applausi alle "figure di sistema" (leggi dame e "dami"
di
compagnia dei capi di istituto). Silenzio sul seppellimento della continuità didattica, determinato
dall'accorpamento delle classi intermedie, in funzione di tetti numerici concepiti esclusivamente al risparmio e
sulla soppressione delle scuole dei piccoli centri, trattate alla stregua di rami secchi da tagliare. Nulla per far fronte
alle necessità di riadeguamento ed individualizzazione della didattica in un Paese con tassi di abbandono
e
mortalità scolastica da Terzo Mondo, con sacche di analfabetismo, non solo "di ritorno", assai
preoccupanti. Come
non richiamare ancora la questione valutazione? Abbiamo assistito a sforzi al limite del ridicolo da parte di
governi e sindacati, tutti presi a rivendicare in modo acritico il risultato della valutazione in decimi: la pagella,
assurta, per contrastare le lotte degli insegnanti, al ruolo di "bisogno minimo da garantire" anche in caso di
sciopero. Questo cocktail di mostruosità è stato trangugiato senza un sussulto dal mondo
accademico.
Il primato dell'etica Oggi si riapre, con l'opposizione a questa riforma, lo spazio
per rilanciare in termini non demagogici la battaglia
sulla scuola. Ma occorre ripartire da quell'idea di Scuola Pubblica che ha fatto appena in tempo ad emergere in
Italia agli albori della Prima Internazionale con il socialismo libertario, in antitesi, oggi piu' che mai, con la
Scuola di Stato, affermatasi anche nel movimento operaio con il socialismo autoritario. La Scuola di Stato
è
sottoposta alla ragion di Stato, e diventa poi ridicolo protestare contro moduli e programmi asettici ed acefali (vd.
tutto il baillamme sui programmi di storia): siamo ancora una volta in contraddizione con la libertà
d'insegnamento, una coazione dell'etica che di fatto condiziona l'ambito di ogni sperimentazione di base. Sul
piano della ripulsa di tale impostazione, alcune comunità cristiane di base hanno operato con congruenza
e
continuità nel dopoguerra: Don Milani docet. La sinistra istituzionale è invece ben lontana dal
recuperare il
primato dell'etica, ma mai come oggi operare tale scelta fu prioritario. Libertà critica ed autonomia
individuale
sono sempre stati elementi indispensabili alla formazione umana, in antitesi alla logica dell'intruppamento,
dell'omologazione ideologica, dell'alienazione. Se è vero che il fine non giustifica mai i mezzi, ciò
vale in
particolare per l'educazione. La scuola, pare addirittura banale, può fornire un apporto determinante alla
società
civile, aprire una nuova rotta, cominciando con il rigettare le imposizioni, con il riconvertire le rigidità
in
autogestione della didattica, mentre il personale scolastico ha imparato a rimettere in discussione i propri diritti
conculcati, scuotendo con la lotta le gabbie normative e salariali. Ma scardinare l'idea ormai dozzinale che
identifica la res publica nell'entità-stato non giova, se si appaia
"autonomia" con privatizzazione, come pretenderebbe chi vuole piegare sempre piu' la scuola alle esigenze di
un meccanismo di dominio "produttivo" accentrato ed accentratore, manageriale ed inumano: il contrario di ogni
progetto di ecologia sociale. La cultura non è merce.
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