Rivista Anarchica Online
Ma che genere di scienza!
di Emanuela Scuccato
Senza sottovalutare i diversi problemi che le donne di scienza si trovano ad affrontare proprio in quanto donne,
sta emergendo l'esigenza, espressa anche in altri ambiti di ricerca, per esempio artistica, di sperimentarsi
gender-free, cioè al di là del genere
Il 1986 rappresenta per alcune donne di scienza italiane una data spartiacque. Dal
seminario di presentazione della
ricerca "Donne scienziate nei laboratori degli uomini", tenutosi a Bologna nel dicembre di quell'anno, emerge
infatti per la prima volta l'idea di un Coordinamento nazionale che favorisca la comunicazione tra quante
già si
occupano di scienza a vari livelli e quante, invece, a questo mondo si avvicinano per la prima volta, con alle spalle
esperienze diverse e però una grande curiosità in proposito. È anche l'occasione per
molte ricercatrici di uscire dall'isolamento del laboratorio per confrontarsi con altre
scienziate sia su questioni inerenti l'ambito più strettamente professionale, come per esempio il calo dei
finanziamenti per la ricerca o la miniriforma dell'Università (legge 382), comuni a uomini e donne, sia
per
interrogarsi a vicenda sull'"estraneità che le donne di scienza sentono nei confronti della loro disciplina"
- come
all'epoca rilevavano Rita Alicchio e Cristina Pezzoli, due delle curatrici del seminario, entrambe ricercatrici
presso la Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali dell'Ateneo bolognese. Già in
precedenza, alla fine degli anni Settanta, il Collettivo "Donne e Scienza" di Torino aveva lavorato in questo
senso, ma è soltanto in quest'ultimo decennio, sulla scorta del disastro nucleare di Cernobyl e anche delle
sempre
più numerose traduzioni di opere di studiose di lingua inglese, in particolare di Evelyn Fox Keller e di
Carolyn
Merchant, per citare le più conosciute, che un numero sempre più cospicuo di scienziate italiane
ha incominciato
a discutere pubblicamente in merito al complesso rapporto di interazione tra le donne e il mondo della
scienza. "Non si può nascondere, in primo luogo, che un'indagine intitolata "Donne scienziate
nei laboratori degli uomini"
abbia tra i suoi scopi quello di mettere in luce aspetti di malessere o di disagio", dichiaravano le autrici della
ricerca. Ed è proprio dal disagio, finalmente espresso e lanciato nelle apparentemente tranquille e
sicure acque della
ricerca scientifica, che scaturiscono come infiniti cerchi concentrici gli interrogativi. "... Cosa vuol dire per
noi appartenere ad una comunità di donne? ... Al di là del disagio e bisogno di autonomia e
nonostante l'adeguamento, è possibile individuare un modo di
fare scienza al femminile? ... In quale misura la differenza di genere si riflette sui contenuti e metodologie
del lavoro condizionando quindi
tutta la conoscenza? ... il riconoscimento della differenza sessuale porta a pensare alla necessità di
costruire strumenti concettuali più
consoni alle donne?" - erano alcune delle domande alle quali l'incontro di Bologna dava la
stura. Naturalmente questi quesiti erano e sono tuttora affatto irrisolti, poiché il contributo di filosofe,
critiche e storiche
della scienza, spostando continuamente gli orizzonti della ricerca, non solo ci dà la possibilità
di fruire di sempre
nuove chiavi di accesso ai problemi, ma talora tende anche al superamento di quelle teorie - il pensiero della
differenza sessuale per esempio - che alla lunga potrebbero rivelarsi dei veri e propri laccioli mentali. A
questo proposito, l'intervento di Elisabetta Donini, docente di Fisica presso la Facoltà di Agraria
dell'Università
di Torino, in Donne di scienza: esperienze e riflessioni (Centro di Documentazione Donne di
Bologna, Rosenberg
& Sellier, 1988), mi è sembrato particolarmente articolato e stimolante, nonché di grande
attualità. Partendo dal dato della "generizzazione " della scienza, cioè "dalla attribuzione di
un genere (maschile) alla
scienza", su cui, tra le altre, indaga a fondo - e in maniera alquanto originale per il taglio psicologico (Freud e
Piaget i riferimenti principali) e la spregiudicatezza intellettuale dei suoi studi - la fisica e biologa Evelyn Fox
Keller, Donini, pur riconoscendo l'utilità e il valore degli approfondimenti in questo senso, propone di
andare
oltre "la prospettiva della differenza" anche in questo ambito, sia perché "troppo rigida" sia perché
"consente di
percepirsi solo nello scarto dicotomico". Scrive infatti la studiosa: "(La prospettiva della differenza n.d.r.)
volta al plurale, può invece parlare delle
differenze tra le donne: ma allora torniamo proprio a quell'attenzione alle soggettività multiformi... e a
quell'interesse per le storie individuali che nel caso specifico delle riflessioni sulla scienza ha portato alcune
femministe a sviluppare la critica dei valori di oggettività e universalità ad essa
attribuiti". L'attenzione alle diverse soggettività femminili, derivata dalla convinzione per Elisabetta
Donini che "la
locuzione 'identità di genere'" ha "la valenza programmatica dell'invenzione piuttosto che quella
definitoria della
scoperta", è densa di significati. Rappresenta, a mio avviso, un improvviso scarto rispetto a tanto pensiero
femminista, troppo spesso autoreferenziale e fossilizzato in alcuni dictata che, seppure patrimonio
di indiscutibile
valore nella storia del Movimento, non dovrebbero fare ostacolo al prosieguo del cammino di liberazione,
intrapreso sì dalle donne per sé, ma importantissimo per chiunque intenda riconoscere e disfarsi
delle proprie
catene. Senza sottovalutare i diversi problemi che le donne di scienza si trovano ad affrontare proprio in
quanto donne,
oltre naturalmente a tutte le pressioni nefaste cui è normalmente sottoposta gran parte della
comunità scientifica
- la sfrenata competizione per aggiudicarsi gli esigui finanziamenti disponibili è forse la causa maggiore
di stress!
-, sta sostanzialmente emergendo sempre più chiaramente l'esigenza, espressa anche in altri ambiti di
ricerca, per
esempio artistica, di sperimentarsi gender-free, cioè al di là del genere. Ci sono
dei rischi in questo? Purché non si perdano di vista i pericoli insiti "nelle culture punitive",
cioè in quelle culture che "insistono
sull'obbedienza senza badare alla propria anima", secondo la definizione della psicanalista Clarissa Pinkola
Estés,
le quali potrebbero avere facilmente buon gioco nei confronti del singolo che non sapesse accortamente
individuare "trappole, gabbie ed esche avvelenate", io credo di no. Se è quindi auspicabile che le
ricercatrici trovino il tempo di interrogarsi sul "mito" (E.Fox Keller) della neutralità
della scienza, e soprattutto quante si occupano di scienze cosiddette "dure" (matematica, fisica, chimica) trovino
il coraggio di mettere in discussione la pervasività del modello chimico-fisico - sicuramente androcentrico
nella
sua pretesa "che il reale (naturale e umano) possa essere ridotto a una somma di fenomeni isolati e riproducibili
a piacere mediante gli esperimenti di laboratorio o le simulazioni al calcolatore", come scrive ancora Elisabetta
Donini -, sarebbe forse altrettanto auspicabile che accanto a questo lavoro di analisi e introspezione, le vicende
umane e professionali di alcune scienziate, come per esempio quelle del premio Nobel 1983 per la Medicina,
Barbara McClintock, potessero diventare oggetto di riflessione per tutte le donne che desiderano intraprendere
un cammino di liberazione da ogni stereotipo, di qualsivoglia natura. "... perché la McClintock non
solo non ha scelto l'appartenenza al genere femminile come il riferimento fondante
della sua vita e della sua pratica scientifica", scrive Donini riflettendo sulla biografia della biologa americana,
scopritrice della trasposizione dei geni nel mais, "ma se ne è anzi intenzionalmente distaccata,
perseguendo un
ideale gender-free". "... per la McClintock è stato decisivo percepirsi come un'anomala
e rafforzare la propria singolarità dissociandosi
non come donna dagli uomini ma come un'organicista convinta da un ambiente dominato invece dal paradigma
riduzionista della biologia molecolare". "Con ciò ella ha praticato per anni un cammino faticoso e
solitario di eccentrica...", considera la Donini. E aggiunge: "(Barbara McClintock n.d.r.) non ha espresso la
sua spontaneità di donna ma la ricerca tenace di
modalità alternative nel guardare il mondo". Ma quali sono stati, se ci sono stati, i costi che la
genetista americana ha dovuto pagare in termini di vita privata
per raggiungere i suoi obiettivi scientifici? Che contraddizioni, anche metodologiche, ha dovuto affrontare come
scienziata nell'approccio con un modello di mondo imperniato sul dominio della natura? Che cosa ha significato
per la McClintock sperimentarsi gender-free? dove l'ha portata tutto questo? Infine: si tratta
forse di un caso destinato a restare isolato in un ambito - quello della ricerca - sempre più
rigidamente strutturato e condizionato da fattori esterni, politici ma soprattutto economici? Alle donne di
laboratorio la parola!
Bibliografia DONNE DI SCIENZA: ESPERIENZE E RIFLESSIONI, Centro
Documentazione Donne di Bologna a cura di
Rita Alicchio e Cristina Pezzoli (Rosenberg & Sellier 1988) ALICE ATTRAVERSO IL
MICROSCOPIO, Il potere della scienza sulla vita delle donne a cura di Luciana
Percovich (La Salamandra 1985) DONNE CHE CORRONO COI LUPI, Il mito della Donna Selvaggia di
Clarissa Pinkola Estés (Frassinelli 1993) IN SINTONIA CON L'ORGANISMO, di Evelyn Fox Keller
(La Salamandra 1987 Biografia di Barbara Mc
Clintock)
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