Rivista Anarchica Online
Lettere ad una donna sull'anarchia
di Luce Fabbri
Nel rieditare il libro di Luigi Fabbri "Lettere ad una donna sull'anarchia"
(edito a Chieti nel 1905 da Camillo
Di Sciullo), i compagni di Samizdat hanno chiesto una breve presentazione a Luce Fabbri, figlia dell'autore.
Luce, che da oltre un sessantennio vive a Montevideo (Uruguay) - dove giunse con la madre ed il padre esule
antifascista - é una delle figure a nostro avviso più interessanti nel panorama anarchico
internazionale di questo
secolo. Sullo scorso numero abbiamo segnalato il suo libro più recente, la biografia di suo padre
pubblicata
dalle edizioni BFS di Pisa. Nel riprodurre questa sua simpatica presentazione, ci fa piacere porgerle i nostri
più sentiti auguri per il suo imminente 90° compleanno.
Mi si chiede di prologare una nuova edizione del piccolo libro «Lettere ad una donna sull'anarchia», che mio
padre dette alle stampe nei primi anni di questo secolo prossimo alla fine. Me lo chiedono coloro che si sono
proposti di riprendere, dopo tanto tempo, l'opera editoriale di Camillo Di Sciullo, l'anarchico abruzzese che fu
allora l'editore di questo lavoro nelle sue successive edizioni. Sotto l'egida di questo nome, essi hanno già
ripubblicato altri classici dell'anarchismo. Accetto con entusiasmo per la ragione ovvia che il libro m'interessa
affettivamente e inoltre lo credo ancora
valido, malgrado la gioventù dell'autore e il tempo trascorso, ma anche per un'altra: il nome e il ricordo
di
Camillo Di Sciullo mi sono molto cari. Ho voluto bene fin da bambina a quell'amico dalla barba brizzolata
e dal mantello ampio, inusuale allora, che gli
dava l'apparenza esotica del «vecchio della montagna». Veniva ogni tanto a trovarci a Corticella (dove abitavamo
allora, nei pressi di Bologna) e ci portava sempre in regalo un gran barattolo di miele di sua produzione, molto
migliore di quello che si comprava. Per noi ragazzi era soprattutto l'apicultore; con noi parlava sempre delle
api. Ricordo una volta che m'accompagnò in città (cominciavo allora il ginnasio) e, nella
mezz'ora che durò il viaggio
in tram da Corticella a Bologna, mi parlò sempre con entusiasmo dell'organizzazione del lavoro
nell'alveare.
Aveva una voce forte che si faceva sentire in tutta la vettura. E tutti i passeggeri tacquero ed ascoltarono con me
religiosamente quella specie di conferenza. «É una calunnia - diceva - parlare dell' «ape regina», quando
si tratta
della madre, tutta dedita alla sua opera creativa, che tutta la società delle «api operaie» cerca di proteggere
e
d'aiutare». Naturalmente, sapevo che Di Sciullo non era solo «l'amico delle api», perché poi lo sentivo
parlare con mio padre
dei problemi del movimento anarchico, di giornali, d'edizioni. Più tardi, dopo la sua scomparsa, ho potuto
valutare meglio la sua importanza per la storia della cultura libertaria, ma mai ho potuto separare,
nell'immaginazione, la sua figura dall'atmosfera dorata del miele e degli alveari. Ho sotto gli occhi la seconda
edizione di «Lettere ad una donna» (Chieti. Biblioteca del Pensiero. N° 11 - Tipografia editrice Di Sciullo. 1905)
E scrivo queste righe - inevitabilmente - più che guidata da un freddo e sereno spirito analitico, sotto il
doppio
segno dell'affetto per mio padre e per questa figura amica. É privilegio degli anarchici, tra le varie
tendenze del socialismo, quello di poter ripubblicare intatto un loro testo
di principio di secolo, dopo la lunga, tumultuosa e a volte terribile esperienza, che ha fatto cadere tanti idoli, che
ha minate tante convinzioni. Quando Malatesta rivendicava l'origine primaria, la semplicità e
l'immediatezza del
messaggio libertario, ne affermava nello stesso tempo la permanenza. É cambiato, certo, il linguaggio,
che era allora meno scaltrito che l'attuale, meno relativizzatore, in una parola,
più ottimista, quindi più cristallino. Era il linguaggio della cultura positivista dei primi decenni
del novecento,
tutta impregnata di scienza e progresso, quando ancora non c'erano state le due guerre mondiali, né il
totalitarismo
nero, né il totalitarismo rosso. Alcune affermazioni, che allora erano nuove ed audaci, oggi suonano ovvie,
quindi
prescindibili. Ma nessuna, in tanto tempo, è stata smentita dai fatti. Questo libretto, che Luigi Fabbri
considerava opera giovanile, pur facendo un discorso che, nei dati di fatto in
cui si appoggia, ci appare oggi abbastanza remoto e pur avendo, direi, il profumo della sua epoca, non è
solo un
documento storico, ma conserva anche - credo - una forza comunicativa, che viene dalla sussistente
validità della
sua critica a una società che ha accentuato - in ciò ch'è fondamentale - i suoi caratteri
negativi, e dalla passione
con cui tale critica e la proposta sostitutiva vengono presentate. Tutto il libriccino è un'esplosione
d'entusiasmo
e di fede. Ci si sente la gioventù del movimento anarchico e la forza affettiva che lo teneva insieme. «(...)
L'anima
socialista, formatasi in noi sotto la spinta dei bisogni e dello studio, (...) ci spinge ad affratellarci fra operai del
pensiero e dell'azione, per la resistenza e per la lotta, nel cammino verso la libertà anarchica, contro tutte
le
violenze, pronti a tutti i sacrifici. La solidarietà che ci unisce è qualcosa di così solido,
che noi tutti sembriamo
anelli d'una stessa catena, tanto la sorte degli uni interessa gli altri, tanto le gioie e i dolori della lotta sono comuni
a tutti, che da un capo all'altro del mondo uomini e donne ci chiamiamo col dolce nome di compagni» (p.
49). Questo sentimento ha accompagnato Luigi Fabbri durante tutta la sua vita. E i compagni si sono alternati
con la
famiglia per assisterlo negli ultimi momenti. Egli sognava un movimento anarchico che prefigurasse agli occhi
di tutti quella società del libero accordo verso cui tendiamo con tutti i nostri sforzi (pur sapendo che
dovremo
contentarci con realizzazioni parziali, alla misura umana, mai definitive, sempre superabili). E come soffrì
per
le feroci polemiche interne, nei momenti più oscuri dell'esilio! Momenti ch'egli non poteva prevedere
quando
scriveva queste «Lettere». Allora era giovane il secolo, era giovane la rivoluzione. Eppure, se gli esempi sono
quelli d'allora, gli argomenti e la meta sono ancora gli stessi. Oggi, come ieri, l'avversario è il potere.
Quella ch'è
morta è la fede nel progresso spontaneo e nel valore salvifico della scienza. Non ci crediamo più.
Tanto più è
necessario, oggi, credere in noi stessi.
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