Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 27 nr. 241
dicembre 1997 - gennaio 1998


Rivista Anarchica Online

Senza un moto di amarezza
di Corrado Stajano

"Capimmo subito che quella era una storia infinitamente grave...". La notte dell'assassinio di Pinelli nel ricordo di Corrado Stajano

Quella sera del 15 dicembre 1969. Giampaolo Pansa ed io eravamo a casa mia, in via Brera a Milano. In quei giorni, subito dopo la strage di piazza Fontana avevamo deciso di pubblicare un libro, scritto a più mani, per raccontare quel che la stampa e la televisione non dicevano. La versione ufficiale dei fatti, quella del "mostro" Valpreda che aveva preso subito corpo, ci sembrava falsa, costruita, insopportabile per il suo cumulo di contraddizioni, e noi volevamo tentare , con la nostra buona volontà e il nostro uso di ragione, di smontare quella tesi menzognera, fabbricata e prefabbricata. Quella sera dovevamo cominciare il nostro lavoro identificando le persone che avrebbero potuto scrivere della strage e dei fatti che l'avevano preceduta, dall'autunno caldo al 12 dicembre. Il libro, Le bombe di Milano, uscirà nell'aprile 1970, primo tra i libri di quella che allora si chiamava contro informazione: lo rifiutarono editori importanti, lo pubblicò Guanda, per la passione di un vecchio partigiano, Franco Osega, che dirigeva quella casa editrice.
Autori, Ermanno Rea, Giorgio Manzini, Camilla Cederna, Marco Nozza, Luca Boneschi, Marcello Del Bosco, Marco Fini, Aristide Selmi, Giorgio Bocca, noi due e un magistrato, con una firma inventata.
Stavamo dunque pensando ai nomi quando a Pansa venne in mente di telefonare alla Stampa, il giornale per il quale allora lavorava. Erano giorni di grande tensione, di grande passione, di grande partecipazione. Abbiamo avuto così, dal giornale, la notizia che un uomo, un anarchico, era caduto dal quarto piano della questura ed era probabilmente morto. Capimmo subito che quella era una storia infinitamente grave, che segnava con la violenza il conflitto tra potere e libertà, tra arbitrio e diritto.
Uscimmo di corsa in via Brera 17 suonammo il campanello di Camilla Cederna, le raccontammo, scese, venne con noi al Fatebenefratelli. Un barelliere della Croce Bianca che aveva trasportato l'anarchico all'ospedale ci descrisse l'uomo con la testa sfracellata e senza più battito del cuore: sui quarant'anni, giacca nera e pantaloni grigi, una barbetta non più di moda, il viso intelligente. Ci disse anche dove abitava, via Preneste 2, quartiere povero di San Siro, un casermone dell'Istituto autonomo case popolari. Si chiamava Giuseppe Pinelli, ferroviere manovratore dello Scalo Garibaldi.
Era ancora vivo. Camilla riuscì quasi ad arrivare alla porta della sala a pianterreno dove stava morendo. Sarebbe stato importante se fosse riuscita a vedere in quale stato era conciato. Un giornalista chiamò la polizia, Camilla fu costretta a tornare indietro.
Decidemmo di andare in via Preneste, per tentare di parlare con la moglie dell'anarchico, Licia Pinelli. Comparve appena dietro la porta, parlava piano senza incrinature nella voce, mascherava il turbamento, conteneva la sofferenza, nascondeva il dolore. Aveva saputo da poco, da altri due giornalisti, che suo marito era morto. Aveva telefonato in questura, le avevano risposto con arroganza; non avevano avuto tempo per avvertirla. Una signora anziana, la madre di Pino, sgusciò dalla porta per recarsi all'ospedale, ma questo lo sapremo dopo. Licia ci parlò di Pinelli, l'aveva visto l'ultima volta il venerdì 12 dicembre alle tre del pomeriggio. Finito il turno di notte, si era alzato a mezzogiorno e aveva fatto da mangiare per tutti. Gli piaceva stare in cucina, era uscito col motorino, doveva ritirare la tredicesima e poi andare al Circolo Ponte della Ghisolfa. I poliziotti erano arrivati verso sera in via Scaldasole. Pinelli aveva telefonato dalla Questura verso mezzanotte dicendo alla moglie di star tranquilla. Lei non era turbata. Era capitato altre volte che Pinelli fosse fermato o arrestato. Aveva ritelefonato a casa la domenica pregando di avvisare la Ferrovia. Verso le undici di quella sera, poi, aveva invece telefonato un questurino che voleva "il libretto chilometrico" del ferroviere.
Ce ne andammo. Sulla porta, nella notte, Licia Pinelli aveva dato un'altra lezione di dignità e di stile che ci aveva colpito molto.
Quando arrivammo in questura erano quasi le due di quella notte difficile da dimenticare. Il questore Marcello Guida ci comunicò quasi subito che avrebbe tenuto una conferenza stampa. Con lui, nello studio protetto da tendaggi, adornato di quadri ottocenteschi, c'erano il capo di gabinetto Palumbo, il capo dell'ufficio politico Antonio Allegra e il commissario Calabresi. I giornalisti erano cinque: noi tre, Renata Bottarelli, dell'Unità, e un quinto uomo di cui ho perso memoria.
"Il Pinelli, disse il questore, era il responsabile del Circolo Ponte della Ghisolfa. Gravemente indiziato di concorso in strage aveva gli alibi caduti. Un funzionario gli aveva rivolto contestazioni e lui era sbiancato in volto. Il dottor Calabresi aveva allora momentaneamente sospeso l'interrogatorio per andare a riferire ai superiori. Nella stanza si stava parlando d'altro, una pausa, quando il Pinelli ebbe uno scatto improvviso, si gettò verso la finestra socchiusa perché il locale era pieno di fumo, e si slanciò nel vuoto. Il suicidio, aggiunse, era una evidente autoaccusa".
Ci fu un momento di silenzio, poi qualcuno chiese chi era Pinelli. Rispose Calabresi: "Sembrava un uomo incapace di ricorrere ad atti di violenza, un uomo tranquillo, ma i suoi rapporti, le sue implicazioni politiche dovevano rivelare il contrario". Chiesi io quale era l'ultima domanda fatta a Pinelli, quali le ultime cose dette e se esistevano i verbali degli interrogatori. Nessuno rispose, ma senza mostrare imbarazzo. Ripetei la domanda, il questore disse soltanto che l'interrogatorio non comprometteva altre persone. Domandai se il fermo dopo le 48 ore era stato convalidato dalla magistratura. Il questore rispose di sì, poi seguitò a parlare dell'alibi caduto, disse che Pinelli era sospettato per gli attentati del 25 aprile a Milano e sui treni in agosto, parlò del movimento anarchico, della "Gioventù libertaria" di via Scaldasole, del circolo Ponte della Ghisolfa, dei gruppi romani che avevano altre etichette.
Erano più delle tre della notte quando uscimmo dalla Questura. Ricordo bene quel che provavo. Avevo l'impressione di avere assistito, in quella stanza del questore, a una scena di teatro, senza un moto di amarezza o di dolore per la morte di un uomo.

Stajano chi è
Corrado Stajano, giornalista e scrittore, si é particolarmente impegnato nella campagna di controinformazione all'indomani della strage di piazza Fontana. In quel contesto ci conoscemmo ed abbiamo mantenuto negli anni un cordiale rapporto disimpatia, aldilà delle differenti opinioni. Su questa rivista ricordiamo un'intervista sul suo bel libro Il sovversivo (1975), dedicato alla vita ed alla tragica morte dell'anarchico sardo Franco Serantini, lasciato morire senza assistenza nel carcere Don Bosco di Pisa (lo stesso nel quale sono attualmente detenuti - tra gli altri - Bompressi, Pietrostefani e Sofri) dopo esser stato selvaggiamente picchiato dalla polizia durante una manifestazione antifascista. Di Stajano ricordiamo - tra gli altri - La pratica della libertà (1976), La forza della democrazia (1977), Africo (1979), L'Italia nichilista (1982), Un eroe borghese (19991), Il disordine (1993) e Promemoria (1997).