Rivista Anarchica Online
Senza un moto di amarezza
di Corrado Stajano
"Capimmo subito che quella era una storia infinitamente grave...". La notte dell'assassinio di Pinelli nel ricordo
di Corrado Stajano
Quella sera del 15 dicembre 1969. Giampaolo Pansa ed io eravamo a casa mia, in
via Brera a Milano. In quei
giorni, subito dopo la strage di piazza Fontana avevamo deciso di pubblicare un libro, scritto a più mani,
per
raccontare quel che la stampa e la televisione non dicevano. La versione ufficiale dei fatti, quella del "mostro"
Valpreda che aveva preso subito corpo, ci sembrava falsa, costruita, insopportabile per il suo cumulo di
contraddizioni, e noi volevamo tentare , con la nostra buona volontà e il nostro uso di ragione, di smontare
quella
tesi menzognera, fabbricata e prefabbricata. Quella sera dovevamo cominciare il nostro lavoro identificando le
persone che avrebbero potuto scrivere della strage e dei fatti che l'avevano preceduta, dall'autunno caldo al 12
dicembre. Il libro, Le bombe di Milano, uscirà nell'aprile 1970, primo tra i libri di quella
che allora si chiamava
contro informazione: lo rifiutarono editori importanti, lo pubblicò Guanda, per la passione di un vecchio
partigiano, Franco Osega, che dirigeva quella casa editrice. Autori, Ermanno Rea, Giorgio Manzini, Camilla
Cederna, Marco Nozza, Luca Boneschi, Marcello Del Bosco,
Marco Fini, Aristide Selmi, Giorgio Bocca, noi due e un magistrato, con una firma inventata. Stavamo dunque
pensando ai nomi quando a Pansa venne in mente di telefonare alla Stampa, il giornale per il
quale allora lavorava. Erano giorni di grande tensione, di grande passione, di grande partecipazione. Abbiamo
avuto così, dal giornale, la notizia che un uomo, un anarchico, era caduto dal quarto piano della questura
ed era
probabilmente morto. Capimmo subito che quella era una storia infinitamente grave, che segnava con la violenza
il conflitto tra potere e libertà, tra arbitrio e diritto. Uscimmo di corsa in via Brera 17 suonammo il
campanello di Camilla Cederna, le raccontammo, scese, venne
con noi al Fatebenefratelli. Un barelliere della Croce Bianca che aveva trasportato l'anarchico all'ospedale ci
descrisse l'uomo con la testa sfracellata e senza più battito del cuore: sui quarant'anni, giacca nera e
pantaloni
grigi, una barbetta non più di moda, il viso intelligente. Ci disse anche dove abitava, via Preneste 2,
quartiere
povero di San Siro, un casermone dell'Istituto autonomo case popolari. Si chiamava Giuseppe Pinelli, ferroviere
manovratore dello Scalo Garibaldi. Era ancora vivo. Camilla riuscì quasi ad arrivare alla porta della
sala a pianterreno dove stava morendo. Sarebbe
stato importante se fosse riuscita a vedere in quale stato era conciato. Un giornalista chiamò la polizia,
Camilla
fu costretta a tornare indietro. Decidemmo di andare in via Preneste, per tentare di parlare con la moglie
dell'anarchico, Licia Pinelli. Comparve
appena dietro la porta, parlava piano senza incrinature nella voce, mascherava il turbamento, conteneva la
sofferenza, nascondeva il dolore. Aveva saputo da poco, da altri due giornalisti, che suo marito era morto. Aveva
telefonato in questura, le avevano risposto con arroganza; non avevano avuto tempo per avvertirla. Una signora
anziana, la madre di Pino, sgusciò dalla porta per recarsi all'ospedale, ma questo lo sapremo dopo. Licia
ci parlò
di Pinelli, l'aveva visto l'ultima volta il venerdì 12 dicembre alle tre del pomeriggio. Finito il turno di
notte, si
era alzato a mezzogiorno e aveva fatto da mangiare per tutti. Gli piaceva stare in cucina, era uscito col motorino,
doveva ritirare la tredicesima e poi andare al Circolo Ponte della Ghisolfa. I poliziotti erano arrivati verso sera
in via Scaldasole. Pinelli aveva telefonato dalla Questura verso mezzanotte dicendo alla moglie di star tranquilla.
Lei non era turbata. Era capitato altre volte che Pinelli fosse fermato o arrestato. Aveva ritelefonato a casa la
domenica pregando di avvisare la Ferrovia. Verso le undici di quella sera, poi, aveva invece telefonato un
questurino che voleva "il libretto chilometrico" del ferroviere. Ce ne andammo. Sulla porta, nella notte, Licia
Pinelli aveva dato un'altra lezione di dignità e di stile che ci aveva
colpito molto. Quando arrivammo in questura erano quasi le due di quella notte difficile da dimenticare. Il
questore Marcello
Guida ci comunicò quasi subito che avrebbe tenuto una conferenza stampa. Con lui, nello studio protetto
da
tendaggi, adornato di quadri ottocenteschi, c'erano il capo di gabinetto Palumbo, il capo dell'ufficio politico
Antonio Allegra e il commissario Calabresi. I giornalisti erano cinque: noi tre, Renata Bottarelli,
dell'Unità, e un
quinto uomo di cui ho perso memoria. "Il Pinelli, disse il questore, era il responsabile del Circolo Ponte della
Ghisolfa. Gravemente indiziato di concorso
in strage aveva gli alibi caduti. Un funzionario gli aveva rivolto contestazioni e lui era sbiancato in volto. Il dottor
Calabresi aveva allora momentaneamente sospeso l'interrogatorio per andare a riferire ai superiori. Nella stanza
si stava parlando d'altro, una pausa, quando il Pinelli ebbe uno scatto improvviso, si gettò verso la finestra
socchiusa perché il locale era pieno di fumo, e si slanciò nel vuoto. Il suicidio, aggiunse, era una
evidente
autoaccusa". Ci fu un momento di silenzio, poi qualcuno chiese chi era Pinelli. Rispose Calabresi: "Sembrava
un uomo
incapace di ricorrere ad atti di violenza, un uomo tranquillo, ma i suoi rapporti, le sue implicazioni politiche
dovevano rivelare il contrario". Chiesi io quale era l'ultima domanda fatta a Pinelli, quali le ultime cose dette e
se esistevano i verbali degli interrogatori. Nessuno rispose, ma senza mostrare imbarazzo. Ripetei la domanda,
il questore disse soltanto che l'interrogatorio non comprometteva altre persone. Domandai se il fermo dopo le 48
ore era stato convalidato dalla magistratura. Il questore rispose di sì, poi seguitò a parlare dell'alibi
caduto, disse
che Pinelli era sospettato per gli attentati del 25 aprile a Milano e sui treni in agosto, parlò del movimento
anarchico, della "Gioventù libertaria" di via Scaldasole, del circolo Ponte della Ghisolfa, dei gruppi
romani che
avevano altre etichette. Erano più delle tre della notte quando uscimmo dalla Questura. Ricordo bene
quel che provavo. Avevo
l'impressione di avere assistito, in quella stanza del questore, a una scena di teatro, senza un moto di amarezza
o di dolore per la morte di un uomo.
Stajano chi è Corrado Stajano,
giornalista e scrittore, si é particolarmente impegnato nella campagna di controinformazione
all'indomani della strage di piazza Fontana. In quel contesto ci conoscemmo ed abbiamo mantenuto negli anni
un cordiale rapporto disimpatia, aldilà delle differenti opinioni. Su questa rivista ricordiamo un'intervista
sul suo
bel libro Il sovversivo (1975), dedicato alla vita ed alla tragica morte dell'anarchico sardo Franco
Serantini,
lasciato morire senza assistenza nel carcere Don Bosco di Pisa (lo stesso nel quale sono attualmente detenuti -
tra gli altri - Bompressi, Pietrostefani e Sofri) dopo esser stato selvaggiamente picchiato dalla polizia durante una
manifestazione antifascista. Di Stajano ricordiamo - tra gli altri - La pratica della libertà
(1976), La forza della
democrazia (1977), Africo (1979), L'Italia nichilista (1982), Un eroe
borghese (19991), Il disordine (1993) e
Promemoria (1997).
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