Rivista Anarchica Online
L'anarchia della comunità
di Franco Melandri
I complessi rapporti tra individuo e società analizzati da una prospettiva libertaria
Non vi è dubbio che questa fine di secolo e millennio, non fosse che
per quel residuo di millenarismo che ancora
pervade in vario modo la nostra cultura, costringa chiunque senta l'esigenza di cambiamenti del mondo in cui
viviamo e della vita che conduciamo ad interrogarsi su questa stessa esigenza e su quanto la motiva. Meno di
tutti possono quindi sfuggire a tale compito gli anarchici, i quali, proprio per la radicalità della loro
proposta
e della volontà trasformativa che li anima, non possono che interrogarsi non solo, e non tanto, sul
significato
dei cambiamenti storico-sociali cui assistiamo, quanto sui fondamenti stessi del loro anarchismo. Lo scopo di
tale interrogazione dovrebbe essere, innanzitutto, rendere l'anarchismo quanto più
possibile "inattuale" in senso
nietzscheano, cioè quanto più possibile indipendente dai sussulti dell'"attualità". Una
indipendenza dall'attualità
che, fra l'altro, gli permetterebbe di depurarsi dalle scorie positiviste, hegeliane, storicistiche o beceramente
illuministiche che, pur se rivelatesi utili in certi momenti storici, oggi fanno velo alla radicalità della
questione
che l'anarchismo, nel suo stesso darsi, pone. E' solo facendo tale necessario lavoro di continua chiarificazione
e interrogazione che l'anarchismo può trovare un modo di "stare" nel presente che non significhi un banale
"addolcimento" o una, apparentemente contrapposta, "radicalità", di fatto residuale. Ambedue questi modi
di
porsi, infatti, non solo sono figli di quei "modi" del pensiero di cui l'anarchismo si deve liberare, ma sono proprio
il maggior freno alla possibilità che l'anarchismo riscopra se stesso e "diventi quello che è sempre
stato", cioè
"apertura" di una civiltà realmente altra rispetto a quelle storicamente compiutesi. Una "civiltà
altra" che non
significa tanto "contrapposta" all'esistente o a un aspetto di questo elevato architrave (come, banalizzando, quasi
sempre avviene), quanto possibilità di "abitare" continuamente e interrogativamente
quell'"accomunamento
originario" che ci fa "esseri umani". In questo cammino di ricerca e interrogazione uno dei primi
"luoghi" del pensiero su cui investigare non può che
essere quello del "essere in comune", cioè di quanto ci fa "individui" così come fa la
"società", senza il quale la stessa idea di libertà, che dell'anarchismo è
architrave, non avrebbe senso alcuno. E' questo il tema della
conversazione con Rocco Ronchi, un saggista e filosofo che al tema della comunità ha dedicato molte
delle sue
riflessioni e uno dei suoi ultimi libri: Luogo comune.
Il termine "comunità" è da sempre usato con significati diversi, spesso opposti.
Questo probabilmente
succede perché, quando ci si interroga su "che cosa" sia la comunità, ci si trova di fronte al
paradosso per
cui quanto più si tenta di definirla tanto più essa sembra imprendibile...
Il problema della comunità è un problema di antropologia filosofica, cioè di
definizione dell'uomo in quanto tale.
Porre il problema della possibilità della comunità significa evidentemente presupporre che la
comunità non sia
un dato, una evidenza, ma qualche cosa da raggiungere. Ma ritenere che la comunità sia un obbiettivo da
raggiungere denuncia di per sè una pre-comprensione dell'essere umano di tipo individualistico: si
dà per scontata
una concezione atomistica dell'uomo e su questa base si pone il problema dell'essere insieme, dell'essere in
comune. Occorre chiedersi, però, se tale impostazione sia fondata, o se, all'opposto, non si debba
rovesciare
questa prospettiva assumendo l'"essere in comune" come dato originario. La conseguenza di questo
rovesciamento è che la comunità, da problema che era, diventa una evidenza, ma è una
evidenza che si è occultata
e che va riattivata. Una possibile strada per riattivare questa evidenza è quella fenomenologica, la quale
mostra
come non sia pensabile alcun comportamento intelligente, alcuna forma di pensiero, se non nell'orizzonte di uno
spazio comunitario. Infatti c'è comportamento intelligente, c'è pensiero, solo nel momento in cui
appare una
relazione di rinvio, nel momento in cui, cioè, c'è un dito che indica qualcosa a qualcuno. Per dirla
con Heideggr,
il linguaggio, invece di essere uno strumento utilizzato dall'intelligenza, è l'accadere stesso
dell'intelligenza, ed
è soltanto là dove accade il linguaggio, soltanto là dove accade l'indicazione originaria,
che accade anche l'uomo,
il quale, quindi, si dà sempre in un "essere in comune" perché è all'altro che
si indica. La comunità è quindi, in
primo luogo, lo spazio aperto dall'accadere del linguaggio, dal darsi di quelle distanze che pongono in relazione.
Per questo essa è un dato sostanziale e non accidentale. Stiamo ribadendo un concetto antico: l'uomo
è
costitutivamente un essere sociale. Va però ancora sottolineato che quando diciamo che l'"uomo è
un essere
sociale" stiamo già parlando di uno degli oggetti che vengono indicati nello spazio aperto
dal linguaggio. L'uomo
come animale sociale è già uno dei risultati, una delle interpretazioni, di questa indicazione
originaria.
Dire che l'essere umano è originariamente "in comune"mi pare porti a due questioni. 1)
L'mpossibilità di
distinguere fra una comunità "naturale" e una società "costruita", e quindi l'illiceità di
questa distinzione,
che pure è alla base di molte teorie storiche e sociologiche; 2) l'infondatezza delle teorie basate sulla
concezione dell'uomo come individuo, cioè di tutte le teorie su cui si fonda la modernità politica...
Affermare l'originario "essere in comune" dell'uomo vuol certo dire contrapporsi radicalmente alla tradizione
giusnaturalistica, a quella contrattualistica, alla finzione dell'individuo libero e sovrano e quindi alle tradizioni
che sono alla base del liberalismo classico, il quale parte dalla finzione dell'individuo libero, che esisterebbe di
per sé e che solo in un secondo momento, per ragioni eminentemente utilitaristiche, entrerebbe in rapporto
con
l'altro uomo per fondare la società politica al fine di garantirsi quella sicurezza che non ha nello stato di
natura.
Allo stesso modo la celebre distinzione proposta da Ferdinand Tönnies fra comunità e
società va ripensata. Certo
essa è lecita dal punto di vista descrittivo, in quanto effettivamente sul piano storico o antropologico
possiamo
classificare le modalità in cui gli uomini vivono insieme. Conseguentemente, per esempio, possiamo
stabilire che
si dà comunità nel momento in cui il legame che unisce è di tipo affettivo, organico,
è la condivisione di
indiscutibili valori, mentre invece si dà società quando il legame è meccanico, basato
sull'interesse e sull'utile.
Dal punto di vista teoretico, invece, se la comunità nel senso prima accennato è il dato originario,
la società altro
non è che una modalità della comunità.
Si potrebbe forse dire che quanto viene indicato quando si parla di società altro non
è che la
consapevolezza del proprio essere in comunità?
La società è infatti l'"essere in comune" reso possibbble dalla interrogazione rivolta
all'accomunamento
originario, una interrogazione che non è possibile se non sul fondamento della consapevolezza di tale
accomunamento. Ma la comunità consapevole di sé è una comunità già
segnata dalla "crisi", dal momento che
la dimensione della consapevolezza rende oggetto del pensiero, del dibattito e, quindi, della
decisione (della krisis,
che in greco significa appunto decisione, giudizio) ciò che come tale non esisteva prima: non si dà
infatti una
comunità immediata, irriflessa, naturale. Questa sarebbe la comunità degli insetti e non degli
uomini e solo per
omonimia si potrebbe dire ancora comunità. La comunità umana è invece storica e come
tale essa è il dato
originario di un essere storico. Questo significa che su di essa da sempre pende l'ipoteca della possibile crisi, dal
momento che è proprio la crisi ad istituirla, a renderla visibile, ad inaugurarla. Tale crisi può
arrivare fino ad una
completa alienazione della comunità in una società di atomi legati soltanto da rapporti di scambio,
ma non può
arrivare ad annullare definitivamente il riferimento dell'esistenza umana ad una dimensione comunitaria,
perché
questo significherebbe semplicemente l'annullamento dell'umano. Se la comunità rappresenta la "terra"
su cui
cresce un'esistenza umana allora il riferimento alla comunità sarà necessario fintanto che ci
sarà "uomo". Questa
comunità potrà mostrarsi nella forma della nostalgia, dell'angoscia per qualcosa che è
andato perduto, ma non
può scomparire, perché se scomparisse l'uomo sarebbe sradicato e quindi morirebbe. E' per tutto
questo che
parlare di comunità non può significare il rinvio ad un insieme solido di certezze, valori, principi
condivisi, vale
a dire alla comunità in senso sociologico o antropologico. Parlando di comunità come radice
intendo piuttosto
qualcosa che, nell'oscillazione tra l'essere e il nulla, afferisce più al nulla che all'essere, cioè
rimanda di più allo
spazio e alla distanza che permette il rapporto, piuttosto che ai termini, ai "pieni" (certezze, valori, principi) che
sono istituiti da questa distanza. Ciò di cui stiamo parlando è, in un certo senso, il problema del
relativismo
culturale, il quale sostiene che vi è una incommensurabilità tra le varie culture, ognuna delle quali
sarebbe chiusa
in se stessa, nel suo insieme di valori, nella sua specificità. A me pare che questo discorso sia valido solo
parzialmente, perché la condizione di possibilità di ogni cultura è la stessa. Quando parlo
di comunità, infatti, non
intendo questa o quella comunità data, ma la radice che è alla base di esse, il loro fondamento,
perché quel vuoto
che rende possibile il rapporto è lo stesso, anche se storicamente è stato "riempito" in vario modo.
Con questo si
torna al discorso fatto prima: quando parliamo di comunità non parliamo di qualcosa che viene dopo
l'uomo, ma
della sua radice, della sua stessa essenza. Per questo, alla fine gli uomini sono "uno"...
Anche la nostra civiltà è fondata sull'idea che l'uomo sia "uno", quindi che via
sia una universale
"umanità" definita dal cartesiano "cogito ergo sum" e dalla potenziale articolazione razionale di tale
"cogito", tuttavia tale "umanità" non l'abbiamo mai trovata nelle civilizzazioni diverse dalla nostra...
Questo accade perché la logica universalistica è un modo, indubbiamente efficace, di abitare
quella distanza
costitutiva che mette in rapporto con l'altro. Lo spazio logico in rapporto non è altro, infatti, che un modo
di
articolare e di abitare la comunità come dato originario, come radice. Questa radice, che è
trascendentale, che è
cioè condizione di possibilità e che attraversa tutte le varie culture, non va intesa in senso logico,
bensì in senso
esistenziale. Un'idea di quanto intendo dire potrebbe darcela il fatto che, a ogni latitudine, gli uomini muoiono
e il pensiero dà voce, in modi diversi, alla mortalità dell'uomo e alla conoscenza che deriva da
questa esperienza.
Per cui quando si dice che il pensiero è per definizione comunitario in quanto indicazione e che quindi
l'"essere
in comune" per l'uomo è radice e non accidente, si sta dicendo una cosa banalissima, vale a dire che
bisognerebbe
pensare l'essere in comune come la stessa cosa dell'essere mortale. E' chiaro che poi ogni cultura elaborerà
le
sue interpretazioni della mortalità dell'uomo - quindi elaborerà degli specifici sistemi di valori
e significati che
giustificano e danno valore a questa mortalità -, la quale però resta assolutamente comune. Ed
è la consapevolezza
di questa finitezza, questo "essere per la fine", ad essere la radice trascendentale, quindi non empirica, di ogni
evento culturale, di ogni cultura, la quale poi riempie quel vuoto, quello spazio, con i propri sistemi simbolici.
L'ipotesi del relativismo culturale è basata sul presupposto dell'incommensurabilità e della totale
autonomia dei
"giochi linguistici", come li chiamava Ludwig Wittgenstein. Per Wittgenstein il significato di un qualsiasi termine
è dato dal suo uso all'interno di un determinato gioco linguistico. In un altro contesto, in un'altra pratica
di vita,
esso assume un altro significato irriducibile al precedente. La parola libertà, ad esempio, nella prosa di
un filosofo
cristiano del V secolo dopo Cristo non ha lo stesso senso che ad essa potrebbe dare un sostenitore del liberismo
economico ed è inutile tentare di rintracciare un significato generale che li comprenda in estensione
entrambi. La
possibilità di una comunicazione tra giochi linguistici radicalmente dissimili come lo possono essere
culture
lontane resta così preclusa (bisognerebbe limitarsi a una descrizione). Ora io credo invece che ci sia un
punto di
fuga da tutti i giochi linguistici, un punto di fuga che ci permette di parlare di essi e di porli in rapporto tra di loro.
I1 paradosso del relativismo culturale, che è ancora una forma di sguardo eurocentrico, sta, infatti, proprio
nel
fatto che il relativismo si dà solo ad un occhio che coglie il relativo, quindi ad un occhio che non
può essere
relativo, mentre se il relativismo fosse teoreticamente fondato non si potrebbe nemmeno parlare di relativismo.
Se non ci fosse questo evento di un singolare/plurale - singolare nel suo accadere, plurale nelle interpretazioni,
cioè nelle varie culture, nei vari modi di vita - non sarebbe poi nemmeno pensabile quello che è
un dato di fatto
quotidiano, cioè il dialogo tra le culture. Anche se, infatti, interpretiamo le varie culture e le varie
comunità come
giochi linguistici tra di loro separati, non possiamo negare che abbiamo assistito alla occidentalizzazione del
mondo, una occidentalizzazione che non è stata solamente lo sterminio degli altri popoli, ma anche
l'assimilazione e la riformulazione di determinati giochi linguistici. Ma se l'occidentalizzazione non è
stata
solamente lo sterminio dell'altro, se è stata anche l'"assorbimento" dell'altro, vuol dire che non era vero
che le
culture erano impermeabili tra di loro. C'è quindi un dato innegabile: la comunicazione accade ed il suo
accadere
presuppone il darsi di un luogo comune che non può essere collocato all'interno di un
ambito, ma deve essere un
luogo di transito, una "soglia". Questa soglia non può essere un valore, un significato, una pienezza, ma
deve
essere un "vuoto", una mancanza, perché, come dicevamo prima, solo la mancanza permette il rapporto,
l'articolazione, l'indicazione. Ma qual è questa mancanza agente in ogni latitudine e in ogni epoca? Per
quanto
sia funebre, quale altro nome si può dare a questa soglia se non l'"essere per la morte", cioè il
darsi della
consapevolezza di un inconoscibile - della morte, infatti, sappiamo che accade, ma non possiamo dire "cosa" essa
sia -, un inconoscibile che costituisce l'umano come tale? Non è forse lì, nell'apertura di una
consapevolezza
senza nome, che si trova il punto di fuga da ogni gioco linguistico? Non si trova lì la fessura attraverso
la quale
si sfonda il proprio gioco linguistico? Ecco perché, secondo me, ha senso quel percorso che afferma
l'esistenza
di un rapporto strettissimo tra morte e comunità (un rapporto che, fra l'altro, è anche quanto fonda
la filosofia
come tale, cioè come ricerca di una "sapienza"). Se, infatti, la comunità che è radice non
è quella comunità che
viene spacciata come tale da chi, come accade con i nazionalismi o i comunitarismi, la intende nel senso di una
interpretazione di questa soglia, è allora chiaro che la comunità/radice non può abitare
che quell'indicibile che
è la mortalità dell'uomo. E' nella mortalità dell'uomo che si trova la sua radice
comunitaaria, anche perché, come
dice il vecchio detto, la morte rende tutti uguali.
In questo abitare la mortalità, in questo darsi dell'umano alla luce della morte, possiamo
leggere la radice
del rito di passaggio praticato da molte culture. In questo rito devi simbolicamente morire perché solo
misurandoti con la tua stessa mortalità, quindi costituendoti su di essa, puoi poi essere parte viva e attiva
della comunità dei vivi, cioè di coloro che "sono" sapendo che non erano e sapendosi destinati
a non essere
più. Questo rapporto costitutivo, sempre presente e "abitato", fra morte e società si pone
però in rotta di
collisione con la concezione, fondativa per l'Occidente, per cui, invece, la comunità deve non tanto
abitare/governare la mortalità che la permea, quanto scacciarla definitivamente. E' una concezione per
cui la vita è il contrario della morte, e non ciò che si dà alla luce della morte stessa, ed
è per difendere
questa vita astratta - che quindi non è, ovviamente, la vita dei singoli esseri umani, ma la vita della
comunità stessa - che diventa necessario creare un "oltre" della comunità, cioè una sorta
di "quintessenza"
della comunità intoccabile dalla morte, che della morte si faccia sovrana. Questo, mi pare, è in
sostanza
quanto dice Hobbes nel Leviatano: il potere può difendere la comunità dalla morte
solo ponendosi fuori
dalla mortalità che la innerva, cioè ponendosi come immortale, quindi essendo veramente
quell'"assoluto
che si fa storia" di cui parlava Bakunin...
E' così, infatti. Il riferimento a Hobbes è importante, perché il Leviatano è,
da un certo punto di vista, la più
perfetta teorizzazione della "macchina sociale", cioè della società senza comunità e del
puro potere, di ciò che
deve a qualsiasi costo eliminare la paura della morte. Il Leviatano di Hobbes, proprio perché è
l'artificio contro
la morte e contro la paura della morte, può anche dispensarla pur di liberare dalla sua paura. E' per questo
che
può uccidere l'oppositore: perché esso riporterebbe dentro la città il demone della guerra
civile, cioè della morte
generalizzata. Il Leviatano si costruisce tutto sul rapporto negativo con la morte, e non a caso l'immagine che
Hobbes ha dell'uomo prima del Leviatano è l'immagine dello stato di natura, cioè della morte
generalizzata, ma
questo è un chiaro esempio di ideologia, di un movimento retrogrado del vero, cioè di una
proiezione nel passato
di quanto è divenuto possibile col Leviatano che è, appunto, il potere generalizzato di dare la
morte. Nel potere come lo ha inteso l'Occidente, c'è anche un altro punto critico: è qui,
infatti, che un mezzo diventa
un fine. Il potere, anche nella genesi teorizzata da Hobbes, nasce come mezzo, è ciò che mi
permette di fare,
quindi dovrebbe, logicamente, avere il suo fine fuori di sé, in quanto il potere permette di fare, ma il
potere, per
una sorta di alienazione, diventa un fine in sé, il mezzo diventa un fine. Questo processo, in forza del
quale i
mezzi diventano fini, è un modo abbastanza chiaro di sottrarsi al proprio destino, come una persona che
si
affanna a raccogliere denaro per vivere e poi, alla fine della vita, si rende conto che la vita è passata senza
che lui
se ne accorgesse. Come dice Elias Canetti in Massa e Potere, il potere, la ricerca del potere, la lotta
per il potere,
è una difesa ansiosa che, fondandosi sull'illusione di scacciare simbolicamente la morte attraverso l'opera,
la
monumentalità, la durata, permette di dimenticare, di accantonare, il problema fondamentale della morte.
Non
bisogna anche dimenticare, però, che in fin dei conti il potere è un puro differenziale: noi
parliamo sempre del
potere in senso positivo, come di una "cosa", di una istituzione, ma potere non è una "cosa",
è una differenza di
intensità. Nietzsche lo mostra bene: potere vuol dire "potere più di prima", quindi vuol dire
volontà di potenza,
cioè una volontà che non vuole solo perpetuare se stessa, ma accrescersi costantemente.
Ma questa volontà di potenza non è, in un certo senso, costitutiva dell'essere
umano? Se infatti io sono già
da sempre accomunato all'altro nella consapevolezza della morte comune, è pur vero che per me la morte
resta un evento assolutamente singolare. Nessuno può sostituirmi. Questa è la molla che mi
spinge a
distinguermi dagli altri, quindi ad essere sempre più "me stesso". Se cos" è, la questione diventa
come
"giocare" questa volontà, cioè come il potere/differenziale viene agito. In molte delle
comunità tribali
studiate dall'antropologia, in molte tribù pellerossa ad esempio, la volontà di distinzione del
singolo era
"giocata" in modo che essa fosse una sorta di autorappresentazione della comunità stessa, motivo per cui
i "capi" erano i "parlatori", cioè coloro che davano voce, quindi consapevolezza, ad un "essere" della
comunità e dovevano quindi sempre stare, con le parole e le azioni, nel "luogo sorgivo" della
comunità
stessa. Tutto questo, però, non accade più nel momento in cui, come teorizza Hobbes, il potere
viene posto
come legislatore di una vita opposta alla morte, tant'è che, con la modernità, tale sovranità
si nasconde,
si diluisce in un astratto "corpo politico"...
La differenza più evidente fra l'attuale capo di uno stato liberale e il capo tribù, o il re
medievale, è che il capo
di stato di una democrazia liberale è dotato di un potere che ha la caratteristica peculiare di non potersi
esercitare
come potere. Il potere, in uno stato democratico-liberale, non si può presentare come tale, come esercizio
arbitrario di una differenza e come esposizione a quell'esercizio, cioè come
sovranità, ma deve presentarsi in
modo neutro, deve risolversi soltanto nell'amministrazione di una funzione. Come dicevi, il potere, nella finzione
democratica, non è di nessun individuo - è di tutti quindi di nessuno - e chi esercita il potere non
può, di fatto,
esercitarlo, perché deve sempre farlo in nome della legge, dell'altro da sé. E' per questo che nel
mondo
occidentale, nei sistemi democratico-liberali, l'esercizio del potere fa gridare allo scandalo: non ci deve essere
esercizio del potere, perché questo esercizio rinvia in qualche modo alla presenza di una
soggettività che si
manifesta come tale, cioè come singolarità differente dalle altre. All'opposto, in una
comunità tradizionale
l'esercizio del potere è una esposizione di sé, è una testimonianza, un manifestarsi, un
rivelarsi, un mettersi in
gioco. Non è un caso che, nell'analisi della sovranità fatta, proprio sulla scorta di studi
antropologici, da Georges
Bataille, il sovrano è colui che deve essere messo a morte. Il re, cioè colui che deteneva la
sovranità, per cui
arrogava a sé la decisione sulla vita e sulla morte, coincideva anche con colui che, in certe condizioni,
doveva
essere sacrificato, proprio perché era quello che si metteva in gioco radicalmente. In questa messa in gioco
c'è
un aspetto che ha a che fare con quello che dicevamo prima sulla comunità, perché non c'è
comunità, non c'è
accomunamento, senza che questa messa in gioco coinvolga tutti i membri della comunità stessa. Non
è che la
comunità sia il paradiso, lo stato di natura roussoviano dove tutti gli uomini sono buoni: la
comunità, proprio
perché è la "terra originaria", è anche lo spazio di una messa in gioco radicale, uno spazio
in cui la soglia della
mortalità è continuamente frequentata.
La sovranità, quindi, è ciò che, nel momento in cui pone chiaramente
il problema del potere, pone
chiaramente anche la questione dell'infondatezza sia di questo che della comunità stessa. In tal modo,
però,
la sovranità altro non è che il modo di porre la comunità di fronte alla sua costitutiva
"anarchia"...
La parola anarchia è infatti chiarissima: etimologicamente an-arché vuol dire
"assenza di arché", cioè assenza
di fondamento. Abbiamo visto come il luogo originario dell'accomunamento sia una soglia, un vuoto e non un
pieno. Frequentare questa soglia, tornare al "caos" che precede l'ordine, significa rinsaldare il legame comunitario.
Fintanto che la comunità ha la forza di confrontarsi con questa an-arché originaria
essa resta libera e sovrana. Tale
sovranità viene invece minacciata nel momento in cui si fonda la comunità su un
arché, cioè sulla condivisione
di un principio ideologico che trascende la comunità ed i suoi singoli componenti. La presenza di un
valore
fondante ha un valore rassicurante, ma proprio per questo tende ad alienare la possibilità di una
condivisione
radicale dell'unico luogo comune. E' invece nell'angoscia tragica, nell'esposizione alla morte e nel rapporto con
essa - un rapporto che non esclude nessuno poiché ciascuno è chiamato ad esso nella propria
singolarità -, che
sta il fondamento, il cuore pulsante, di una comunità anarchica. E' questo il senso in cui ancora Bataille
parla della
comunità "acefala", quando, negli anni fra il '36 e il '39, cerca di indicare quanto possa contrattaccare il
fascismo
e il nazismo che stavano invadendo l'Europa.
Tutto questo ciriporta un po' al punto da cui eravamo partiti: senza comunità non
possiamo "essere" e
tuttavia oggi quella comunità ci sfugge. Secondo te è possibile, e come, fare dell'"essere in
comune", nel
senso in cui ne abbiamo parlato, una pratica?
Forse è possibe nel senso che indica Gilles Deleuze quando parla di "farsi minoranza" come speranza
rivoluzionaria, come modo di testimoniare a favore di un popolo a venire, cioè di un futuro possibile. Non
si tratta
tanto di proporre una visione delle cose alternativa al "potere", quindi una logica dell"'antagonismo" o della
"resistenza", come spesso si sente ripetere, perché in tal caso ci si definirebbe ancora a partire dall'altro,
al quale
si resiste e ci si oppone. Si tratta piuttosto di attuare costantemente una specie di "esercizio spirituale", vale a dire
una pratica di vita che prende inizio senza chiedere permesso a nessuno, che costruisce gli strumenti del proprio
sapere nella propria esperienza ed è affermativa, non reattiva. Direi anche che una tale esperienza vive
in una
condizione di felice oblio, di ignoranza e indifferenza nei confronti del potere, della "realtà". Tutto questo
è, in
un certo senso, quanto fa un pensatore indubbiamente libertario come Ivan Illich quando parla di
"comunità
vernacolare". Non credo che Illich pensi a tale comunità come a una forma di resistenza o, peggio, di
sopravvivenza, anche se è talvolta lui stesso a favorire questo tipo di lettura. Credo invece che intenda
la
"comunità vernacolare" come un modo orgogliosamente affermativo di esistere da parte di minoranze
consapevoli, come una decisione di essere e, indipendentemente da quello che ci circonda, di iniziare un tipo di
vita, di pensiero, di esperienza, di pratica. Si tratta, insomma, di fare la stessa operazione che fa chi diventa ateo.
Egli scopre che, in realtà, tutte le cose in cui credeva "prima" e che lo intimorivano sono solo degli idoli.
La
"politica", il "potere", sono un insieme di idoli, non hanno nessuna consistenza reale. Certo sono idoli che ti
possono uccidere, così come l'ateo può essere messo al rogo dalla Santa Inquisizione, ma se tu
li frequenti come
idoli non hanno più presa su di te ed anche se continuano in qualche modo a far parte della tua vita,
perché non
li puoi aggirare per un semplice atto della volontà, li puoi vedere in tutta la loro nullità e quindi
puoi cominciare
a vivere di conseguenza...
Bibliografia Il Leviatano di
Thomas Hobbes, Laterza l989 Luogo comune di Rocco Ronchi, EGEA l996 Massa
e potere di Elias Canetti, Adelphi l98l La sovranità di Georges Bataille, Il
Mulino l990 Dio e lo stato di Michail Bakunin, RL l970 Nove pensieri sulla
politica di Roberto Esposito, Il Mulino l993 Logiche e crisi della modernità di
AA VV, a cura di Carlo Galli, Il Mulino l99l Oltre la politica di AA VV, a cura di Roberto
Esposito, Bruno Mondadori l996 Nello specchio del passato di Ivan Illich, Red
l992 Conversazioni con Ivan Illich di David Cayley, Eleuthera l994 Che
cos'è la filosofia? di Gilles Deleuze e Felix Guattari, Einaudi l996 Comunità
e società di Ferdinand Tönnies, UTET l96l Ricerche filosofiche di Ludwig
Wittgenstein, Einaudi l967
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