Rivista Anarchica Online
I diritti umani violati
di Salvo Vaccaro
Migrazioni di massa, mine anti-uomo e pena di morte. Analizzando i dati 1997 viene fuori che...
E' strano rilevare come un segmento di storia umana, come quello odierno, non veda
guerre dichiarate ormai da
un decennio, eppure come non mai le popolazioni inermi sono oggetto di contesa tra i vari padroni della terra,
ostaggio di mire di dominio e carne da macello per spostare equilibri politici. Si può dire che sotto
ogni latitudine, distribuite a macchia di leopardo, ogni giorno si compiono stragi, si eseguono
vendette, si sequestrano persone, si tortura più o meno lecitamente nelle carceri (come in Israele, dove
è legale
una pressione fisica sul detenuto se ciò serve a prevenire attentati: inutile dire che il criterio della
prevenzione e
la misura della coercizione sono lasciati nel vago), si imprigiona senza garanzie, si censura la comunicazione, si
condanna a morte. Da un anno all'altro, le zone a rischio non sono affatto mutate: dall'Algeria all'Afghanistan,
dalla Colombia a
Timor Est, dall'Africa equatoriale (Nigeria, Ruanda, Congo, Sudan) a Myanmar, il fosco panorama è
sempre lo
stesso, poiché i tempi di reazione della comunità internazionale non sono sincronizzati sui tempi
dei diritti umani
a rischio, ma su quelli di una politica ancora incerta e confusa a livello mondiale e delle sue istituzioni, Nazioni
Unite in testa. Il mio intervento, invece, tratterà tre grossi problemi relativi alla tutela dei diritti
umani, balzati per vari motivi
all'onore delle cronache: la questione dei profughi, il bando delle mine anti-uomo, la pena di morte.
Popolazione in fuga Da sempre due sono le ragioni principali per cui le
popolazioni migrano da una terra ad un'altra: la miseria (il cui
indicatore è l'economia ma non solo) e la guerra. La povertà non è segnata solo dal
degrado delle risore
economiche, ma anche dal collasso di un sistema ecologico (ad es. deforestazione, inquinamento delle falde
acquifere), dal mutamento geoclimatico (ad es. desertificazione delle terre fertili), dalla trasformazione sociale
del tessuto di vita (ad es. l'urbanizzazione delle bidonvilles ai margini delle invivibili metropoli contemporanee
con decine di milioni di abitanti ad alta densità di concentramento), dallo spostamento di lavoro derivato
dai
processi di globalizzazione (ad es. la delocalizzazione delle industrie). L'allargamento della forbice tra ricchezza
e povertà nel mondo, salito negli ultimi trent'anni, ha come effetto carestia, fame, malnutrizione,
così come
l'abbassamento degli standard sociali relativi alle infrastrutture (ad es. l'accesso e la distribuzione delle acque
potabilizzate, o le cure sanitarie), agli apparati produttivi (ad es. il rinnovamento delle colture). Miseria,
quindi, ma anche morte violenta. Lo sfaldamento del modello statale - effetto indiretto della fine del
bipolarismo che giustificava una moltitudine di stati "clienti" dell'una o dell'altra cordata nella periferia degli
imperi - provoca l'arrembaggio di bande armate alle risorse di una nazione o di un territorio. Il potere viene
cercato a qualunque costo, non solo per l'ovvio salto di qualità di clan, fazioni, ceti o altro, ma anche
talvolta
come unica fonte di sopravvivenza (una volta cessate le regalie e le rendite di posizione), in quanto nella logica
pur sempre statuale del consesso mondiale, occupare la posizione di potere legittimo, non importa con quali mezzi
e quale consenso pubblico, significa diventare interlocutore riconosciuto delle diplomazie e, soprattutto, delle
agenzie di assistenza umanitaria. Ecco perché, a differenza dei conflitti "disciplinati" del passato, oggi
i popoli
sono contesi direttamente come ostaggi dalle forze in cerca del potere: perché spesso è solo
attraverso le
sofferenze della popolazione che passa l'accreditamento di nuove élites e la destinazione di soccorsi e aiuti
umanitari in beni e denaro, che contribuiscono ad alimentare, in prima istanza, la ricchezza di quelle stesse
élites
spesso responsabili delle sofferenze, le quali accaparrano beni e gestiscono in via diretta e con pressioni
ricattatorie notevoli, il locale mercato nero dei beni, come dimostra il caso dell'embargo alla ex
Jugoslavia. Per sfuggire a tale sorte, da sempre le popolazioni hanno fatto ricorso alla sola via disponibile:
la fuga di massa,
la migrazione. Non sempre le ragioni suddette sono sufficienti per ottenere lo status di profugo secondo i criteri
delle convenzioni internazionali, anzi, tutt'al più una qualche forma di assistenza umanitaria temporanea,
anche
se di fronte a masse enormi i dettati dei codici non dovrebbero prevalere sulle questioni di coscienza civile ed
etica. E comunque la logica (se così si può dire) dei grandi numeri pone sempre problemi di
ordine pubblico, di
ricezione, di accoglienza, di sostegno di prima necessità. Poi subentrano le analisi politiche e le strategie
di
contenimento, di chiusura a riccio dei paesi ricchi del nord di fronte a tali fenomeni non individuali, come con
il Trattato di Schengen che fa dell'Europa una fortezza assediata che pensa di risolvere con il respingimento alle
frontiere un problema epocale nato peraltro dalle politiche del nord del pianeta nei riguardi del sud povero e,
demograficamente parlando, sovrappopolato (rispetto alle capacità di soddisfacimento dei bisogni, non
in termini
assoluti). Uno dei problemi più inquietanti e spregevoli è lo sfruttamento della
"neceessità" di fuga da parte di
organizzazioni criminali senza scrupoli, che depredano le vittime potenziali in stato di bisogno (e pertanto con
scarsa possibilità di contrattazione) degli ultimi risparmi per trasportarli altrove. Tutti abbiamo sotto gli
occhi le
numerose tragedie che avvengono nel bacino del Mediterraneo, con derelitti sbarcati clandestinamente,
abbandonati in mezzo alle acque, ingannati sui luoghi di destinazione, lasciati in piena odissea alla mercè
di
organizzazioni complici che avviano uommini, donne, bambini alla prostituzione, al traffico di armi e di droga,
al commercio di organi. La massa di denaro così raccolta costituisce una accumulazione illecita di
capitali da riciclare per business
altrettanto illeciti, come è ipotizzabile: sono decine di milioni i profughi che sono costretti, dalle politiche
proibizioniste, a spostarsi clandestinamente, e dunque sono decine di miliardi i fiumi di soldi che arricchiscono
bande criminali, che mimetizzano armi e droga in questo flusso umano di "corrieri" inconsapevoli e
ricattabili. Caso diverso è la fuga da territori in guerra, dove i conflitti armati spingono chi
può ad abbandonare tutto per
rifugiarsi nei paesi vicini. Qui lo status di profugo è generalmente riconosciuto quando si può
dimostrare una
persecuzione individuale da parte di regimi dittatoriali o che comunque fanno della violenza la politica prioritaria
di consenso. Non va sottovalutato, oltre al ruolo della criminalità internazionale, l'uso che dei profughi
di guerra
fanno le parti coinvolte. Come è evidente nel recente caso dei Kurdi, sia le organizzazioni partigiane che
gli stati
direttamente coinvolti utilizzano le popolazioni in fuga per dissimulare o, di contro, per bucare l'accesso blindato
che impedisce ad una data questione di imporsi come problema urgente e prioritario per le Nazioni Unite,
spingendo gli stati forti a interessarsene, a prendere in considerazione un loro ruolo nella vicenda pur restando
esterni (e la fuga diventa una pressione che evoca la fine della loro esteriorità al problema), a richiedere
inchieste
internazionali, trattative, accordi di tregua, rispetto dei diritti umani, ecc. D'altro lato, c'è chi addirittura
richiede
i nominativi dei profughi sfuggiti alla repressione per meglio perseguitarli direttamente o attraverso i familiari
rimasti. Alcuni stati, poi, affermano semplicemente l'inesistenza del problema dei profughi di guerra
perché il
conflitto non è riconosciuto in quanto tale, bensì ridotto a mere questioni di ordine pubblico
interno, e quindi
protette dal diritto statuale internazionale di non ingerenza. In questi anni, l'Onu è dovuto intervenire
più volte per far fronte alla questione di profughi di guerra, specialmente
da quando sono saltate le "regole" di condotta bellica, che almeno sino ai conflitti tra stati registravano scontri
tra truppe armate con danni relativamente limitati ai civili. Oggi invece che è mutato il contesto e la
strumentalità
del conflitto, i profughi sono oggetto di cura da parte dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati
(ACNUR, o United Nations High Commissioner for Refugees = UNHCR). Fondato nel 1950, assiste oltre 30
milioni di individui nel mondo, di cui oltre 20 sono profughi. Ma un numero forse superiore è già
stato costretto
ad abbandonare le proprie case e residenze per rifugiarsi all'estero, pur senza ricevere alcun aiuto da enti di
assistenza, e quindi con scarsa visibilità della loro precaria condizione. Dotato di un budget annuo
superiore al miliardo di dollari Usa, l'ACNUR impiega oltre 5000 persoone per curare
l'assistenza dei rifugiati nel mondo, di cui oltre 4000 sono inviati sul campo. Suddivisi per grosse aree
geografiche, ci sono in fuga 12 milioni di africani e 8 di asiatici; di questi, solo una minima percentuale richiede
l'asilo presso paesi esteri che li ospitino, e tra i richiedenti solo un 16% circa viene accolto come profugo con
diritto d'asilo. America e Europa sono le terre di accoglienza privilegiate; il nostro continente rilascia circa 50mila
permessi di soggiorno per motivi umanitari, su oltre 300mila richieste di asilo e, come detto, solo il 16% accettate
(dati 1994-95, fonte UNHCR). L'Alto Commissario dell'Onu per i Rifugiati, la giapponese Sadako Ogata,
ha di recente approntato una scaletta
di temi da affrontare per risolvere la piaga delle popolazioni in fuga: ridurre la povertà nel mondo
(secondo le
stime della Banca Mondiale, circa il 25% della popolazione mondiale vive al di sotto della soglia di
sopravvivenza); pacificare i territori bagnati dal sangue dei civili; interrompere il commercio mondiale di armi,
privando quanto meno di armi leggere, fra gli altri, i soldati babies di ogni banda armata; rintracciare un legame
originale tra cultura locale e processi di formazione di una sfera dei diritti individuali e di cittadinanza, protetta
giuridicamente su scala nazionale e internazionale, mettendo l'accento non solo sulla democraticità delle
procedure elettive, ma anche e soprattutto sulla dimensione di liberalismo politico, e non solo economico;
maggiore responsabilizzazione dei governi, chiamati a rispondere davanti a un (costituendo?) Tribunale Penale
Internazionale permanente di ogni violazione dei diritti umani inferta alla popolazione assoggettata alla
sovranità
statuale e, in genere, a ogni cittadino del pianeta; rendere più efficace l'apparato di protezione e assistenza
ai
profughi nel mondo, in qualunque terra trovino quell'asilo umanitario e momentaneo che salvi loro la vita.
Mine anti-uomo Se si crede che un conflitto finisce con la pacificazione firmata
in qualche sede di prestigio, ebbene è un grosso
errore. Anche quando gli eventi bellici sono cessati e le armi tacciono, il pericolo per le popolazioni non è
finito,
anzi. Sempre in virtù del fatto che oggi le guerre non obbediscono ai codici dottrinari che si insegnano
nelle
Scuole di guerra di ogni paese civilizzato (invito il lettore a mettere le virgolette dove meglio crede), a pace
firmata i lutti non finiscono e gli effetti si fanno vedere e sentire nei milioni di ordigni sepolti in campi minati che
vengono ripuliti con il classico metodo della sperimentazione: il primo che inciampa sopra una mina, per arare
il terreno o per aprire un sentiero, ottiene l'indubbio risultato di (contribuire a) bonificare il terreno. Le mine
anti-uomo sono un cancro che divora le polazioni oltre lo stato conflittuale; divorano civili inermi, che
lavorano o che giocano, come le centinaia di migliaia di bambini che perdono gli arti inferiori, quando non ci
lasciano la vita. Secondo una statistica della Croce Rossa internazionale, solo un 13% delle vittime sono dovute
all'uso di mine in combattimento; lavoro, viaggi, gioco o comunque altra attività non militari sono le
occasioni
maggiori di saltare su una mina anti-uomo. E' estremamente semplice minare un campo, specie se non si lasciano
indicazioni e segnali utili allo sminamento. Le mine anti-uomo sono piccole, spesso di plastica, ben mimetizzate,
magari a forma di giocattolo o para-naturale (un frutto per esempio, un oggetto della natura insomma); ne esistono
ben 360 modelli, dal costo minimo di L. 5000 al massimo di L. 50mila. Tre i tipi principali: esplosive, che si
nascondono a pelo di terreno in modo da esplodere quando vengono calpestate; a frammentazione, perché
esplodendo rilasciano schegge altrettanto micidiali per ledere organi interni e arti superiori; saltanti,
perché una
prima carica li fa saltare in aria per poi esplodere a frammentazione. I 35 paesi produttori (Cina, Russia e Stati
Uniti in testa, l'Italia ha sospeso la produzione con la Legge 374/97, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il
3.11.1997; ma il business è anche appannaggio dei paesi poveri, quasi a lancinarsi a vicenda: India,
Pakistan,
Perù, Egitto, Myanmar, mentre gravi e fondati sospetti gravano su Cipro, Namibia, Messico, Filippine,
Venezuela)
ne sfornano 5-10 milioni all'anno, e i mercanti d'armi, spesso gli stessi produttori, sovente industrie di stato, ne
commercializzano ogni cinque anni dai 2 ai 5 milioni. Nei 67 teatri di conflitto attualmente presenti sul pianeta,
si stima una presenza occultata di 110-120 milioni di mine anti-uomo. Le cifre sono impressionanti: 2000
vittime al mese, 50mila negli ultimi due anni, praticamente un caso ogni 20
minuti. Ne fanno maggiormente le spese gli africani: nei 18 paesi in cui è in corso o è cessato un
conflitto arrmato
di qualsiasi natura, si stimano 50 milioni di mine anti-uomo (Egitto con 23 milioni e Angola con 15 ne sono i
"capifila") Oltre 30 milioni sono le mine distribuite sul teatro asiatico (Afghanistan, Cambogia e Cina con circa
10 milioni ciascuna), più di 26 milioni nel Medio Oriente (16 in Iran e 10 in Iraq, eredità del
lungo conflitto
reciproco), una decina di milioni solo sul territorio della ex-Jugoslavia. Solo due anni fa è stata stilata
una Convenzione sulle mine anti-uomo che impegna gli stati aderenti a vietare la
produzione, l'uso, la conservazione e il commercio (Ginevra, 3 maggio 1996), che è stata firmata da 121
paesi
nel corso della Conferenza Internazionale di Bruxelles (22-27 giugno 1997) e ratificata ad Ottawa il 4 dicembre
1997 (esclusi però proprio Stati Uniti, Russia e Cina, maggiori produttori, oltre a India, Pakistan, Turchia,
Egitto
e, unico paese europeo, Finlandia). Il risultato diplomatico è dovuto agli sforzi, inizialmente esclusivi,
e poi
principali, della Campagna Internazionale per il bando delle Mine Anti-uomo (ICBL) e della sua portavoce, la
statunitense Jody Williams, che ha ritirato, insieme a una vittima cambogiana inchiodata a vita su una sedia a
rotelle, il Premio Nobel per la Pace 1997 conferito alla ICBL. Ma non si pensi che si sia raggiunto il traguardo
agognato. Il Trattato prende atto di buone volontà, ha raggiunto
un compromesso sulle mine anti-uomo cosiddette intelligenti, quelle cioè che si disinnescano
automaticamente
se non "usate" entro 120 giorni (ci sono modelli a disinnesco automatico entro 30 giorni, ad esempio quelli
lanciati da mezzi aerei), che incentiverà la produzione e quindi contribuirà a ricompensare le
perdite degli affari.
Tra l'altro, è opportuno precisare che il costo dello sminamento di ogni mina varia da 100 a 1000 volte
il prezzo
di mercato, e per via delle tecnologie sono spesso le medesime ditte che fabbricano mine anti-uomo ad
aggiudicarsi gli appalti di bonifica del territorio, lucrando così due volte (come è avvenuto in
Mozambico nel
1994, un esempio tra altri). E' inutile sottolineare come la presenza delle mine anti-uomo costituisca una
ipoteca su ogni ipotesi di
ricostruzione a conflitto cessato, drenando ingenti risorse per le cure sanitarie di alta specializzazione (reparti
chirurgici, spesso situati in zone non urbane, con rischio di infezioni diffuse, e vasto uso di protesi artificiali per
ridare un barlume di speranza di locomozione a uomini e donne, giovani e vecchi).
Pena di morte Il 9 dicembre 1994, per soli 8 voti di scarto, l'Assemblea
Generale delle Nazioni Unite ha bocciato una moratoria
della pena di morte, alias assassinio legale di stato: 36 sì, 44 no e 74 astenuti. Ça va sans dire,
hanno votato contro
o si sono astenuti: Usa, Cina, Irak, Iran, Libia, Sudan, Yemen, Egitto, Algeria. In questi paesi, ma anche in altri
che non si sognano di essere coerenti con la risoluzione che pure hanno votato (ad esempio l'Arabia Saudita), la
pena di morte continua ad essere praticata legalizzando la vendetta. E ciò nonostante ogni statistica seria,
in
qualsiasi condizione sociale, abbia dimostrato l'insussistenza del fattore deterrente che, secondo i sostenitori della
pena di morte, ne motiva il ricorso per ridimensionare il crimine e tutelare l'ordine pubblico. Maggiore fortuna
ha avuto una risoluzione avanzata dall'Italia a Ginevra il 3 aprile 1997, che ha raccolto 27 sì, 11 no e 14
astenuti. In realtà, assistiamo a un rigurgito di barbarie delle orde tribali, non a caso antesignane delle
bande di guerrieri
fondatori di stati, secondo gli studi dell'antropologia più avvertita. La pena di morte non serve a nulla se
non a
ribadire con violenza la presenza invalicabile del dominio di stato nell'immaginario di ciascun cittadino. Infatti
anche stati civili e democratici come gli Usa sono capifila della punizione capitale. Ogni paese ha una tradizione
particolare cui riferirsi per legittimare la propria scelta, così come in ogni cultura è possibile
"pescare" un
elemento arcaico con cui riattualizzare la violenza sacrificale che fonda il dominio statuale (secondo il noto
antropologo René Girard). La pena di morte ha visto riempire nello scorso anno le prime pagine anche
in Italia, con enorme mobilitazione
e ipocrita scandalo, relativamente al caso di Joseph O'Dell, detenuto da diversi anni nel braccio della morte e
giustiziato il 23 luglio scorso. O'Dell è stato simbolo adottato in Italia da Amnesty International per
attirare
l'attenzione sulle contraddizioni di quella che viene considerata una delle madri fondatrici della democrazia nel
mondo, nonché il paese con una tradizione repubblicana antica, anteriore persino alla celebre
dichiarazione dei
diritti del cittadino del 1793, in piena rivoluzione francese. Eppure, nonostante la carta costituzionale del 1777,
gli Stati Uniti hanno effettuato più di 3mila condanne a morte (dati cumulati sino al 1996). Certo, nulla
al
confronto con i 4367 cinesi legalmente assassinati nel solo 1996, ma i 6 giustiziati al mese (in media sempre nel
'96) nel solo Texas sono tanti se rapportati ai dati di paesi cui gli Usa impartiscono lezioni di democrazia un passo
sì e uno no: Iran 110, Ucraina 140, Turkmenistan 123, Arabia Saudita 49, Russia 140, tanto per citarne
alcuni.
Dei 50 stati federati, solo 13 resistono a non adottare la pena di morte (Alaska, Hawaii, District of Columbia,
cioè
la capitale Washington, North Dakota, Minnesota, Iowa, Wisconsin, Michigan, West Virginia, Maine, Vermont,
Massachussets, Rhode Island), quasi tutti concentrati in quel New England dei Founders Fathers che dal Regno
Unito arrivarono affinando le tradizioni di rispetto dei diritti del cittadino. Ad essi si aggiungono altri tre stati che,
pur prevedendo nel proprio ordinamento penale la pena di morte, non hanno detenuti in attesa nei bracci ad essi
risevati: Wyoming, Kansas e New York. Ammnesty International, che ha compiuto le stime per il 1996, ha
tristemente totalizzato 5139 esecuzioni e 7107
nuove condanne. Negli Usa ci sono più di tremila persone che bivaccano per anni nei bracci della morte
in attesa
di una esecuzione, con effetti devastanti sulla psiche loro e dei familiari in angosciosa speranza. Il ritardo
è già
un supplemento di pena, perché è in balia degli umori del Governatore di Stato i cui criteri di
giudizio e le cui
decisioni sono dovute in ragione di calcoli elettorali intorno ad aspettative supposte pubbliche (i maledetti
sondaggi tra la gente) da cui far dipendere una eventuale rielezione alla carica. Ciò perché il diritto
si arresta sino
alla condanna, mentre l'esecuzione è prettamente demandata alla sensibilità tutta politica, quindi
aleatoria e
opportunista (nel senso scientifico del termine in uso presso gli studiosi di dottrine politiche). La Giunta di
Palermo ha adottato Joseph O' Dell come proprio cittadino onorario, e ne ha accolto le mortali
spoglie lo scorso 31 luglio. Ora riposa in pace in una città a lui sconosciuta, ma che ha saputo considerarlo
con
umana dignità rispetto alla patria di appartenenza, al di là del crimine di cui era imputato e per
il quale si
protestava innocente. Come per il caso di Sacco e Vanzetti, probabilmente tra cinquant'anni, mutato il vento della
politica, anche gli Usa lo celebreranno come martire incolpevole di una ragione umana tradita dal mito
paralizzante e paranoico della sicurezza dei Wasp (White Anglo-Saxon Protestants, ossia bianchi, biondi e di fede
protestante) dall'"incubo" di una società multirazziale, multietnica, multiculturale. Infatti, pur senza
una pianificazione accurata, non sarà solo un caso se la maggior parte dei detenuti in attesa di
morte siano cittadini di colore (afroamericani, portoricani, ecc.). Va detto come la situazione carceraria, e quindi
la repressione penale come forma di controllo sociale, abbia oggi sostituito gli strumenti tipici del razzismo
violento (linciaggio, espulsione violenta), per confinarlo entro una strategia segregazionista che è
altamente
discriminante perché usa pesi e misure diverse nella valutazione dei reati e, soprattutto, della
pericolosità sociale.
Il carcere e la pena di morte, in ultima analisi, più che essere strumento di dissuasione (ammesso che
abbia mai
funzionato esattamente in tal senso), oggi rappresentano una modalità di governo pubblico, funzionale
anche
all'abbassamento dei livelli di disoccupazione: le statistiche Usa, infatti, quando segnalano il recente "successo"
delle politiche di governo nel ridimensionamento della disoccupazione, vantando meriti e modelli da esportare
anche all'estero, non prendono affatto in considerazione il numero dei detenuti - forza lavoro che semplicemente
scompare dal novero degli occupati e dei senza lavoro - e la cui riemersione porterebbe gli indici statunitensi
più
o meno in linea con quelli europei e dei paesi occidentali avanzati. E, equivoco dopo equivoco, la
maggioranza dei detenuti sono, come detto, doppiamente discriminati in quanto
neri, provenienti da segmenti sociali afflitti da deprivazioni strutturali in fatto di cultura, scolarità,
occupazione.
Chi nasce in questo cerchio infernale ha scarse possibilità di fuoriuscita, laddove ha alte
probabilità di entrare
nelle spirali della delinquenza sociale e, quindi, di finire prima o poi in uno dei bracci della morte di un qualunque
penitenziario.
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