Rivista Anarchica Online
Da Antigone a Nico
di Cristina Valenti
L'esperienza del Cada Die Teatro a Cagliari, nel segno della tensione civile e politica
Il Cada Die Teatro è nato a Cagliari nel 1982. I suoi spettacoli hanno
trattato, fin dai primi anni, temi di
impegno civile e politico: la guerra civile spagnola, il carcere, il terrorismo, la droga. Dal 1988 l'attenzione del
gruppo si è applicata principalmente al lavoro sul testo, sia attraverso adattamenti (in particolare da
Pinter),
sia con la produzione di lavori originali. Del 1990 è lo spettacolo Senzaterra, che
denunciava le conseguenze
distruttive della speculazione immobiliare in Sardegna. L'anno seguente il Cada Die intraprendeva un progetto
biennale dedicato a Dostoevskij. La prima tappa, La notte dei ricordi, era uno spettacolo quasi
privato, che gli
attori portavano nelle case dove venivano invitati, davanti a un pubblico-ospite organizzato per l'occasione. La
seconda tappa era uno spettacolo vero e proprio, L'omicidio Satov, basato sul romanzo I
Demoni. (Si veda, al
proposito, I'intervista a Giancarlo Biffi in "A" 199). I personaggi di Dostoevskij vi erano còlti nelle
caratteristiche estreme ed irriducibili delle loro individualità: uomini che non si adeguavano alla
dimensione
utilitaristica del vivere e rifiutavano totalmente la logica del potere. Nella "follia" di questi personaggi gli attori
del Cada Die affermavano di avere ritrovato i propri "Demoni" personali: le visioni capaci di accendere e
bruciare esistenze vissute al di fuori di solchi già tracciati. Una scelta di parallelismo che il gruppo ha
continuato
a riflettere nei lavori successivi: Il più bello dei mari (1994), spettacolo dedicato al dramma
del popolo curdo,
raccontava la vicenda umana e politica del poeta Nazim Hikmet; Diserzione (1995) denunciava la
tragedia di
un mondo che ha bisogno di eroi da immolare nelle guerre; Antigone (1996) costruiva la figura di
un'eroina
guerrigliera (interpretata da Alessandro Lay) per parlare di una storia che si ripete immutabile dai tempi di
Sofocle fino ai nostri giorni, quando "le ragioni di stato continuano ad essere superiori ad ogni ragione morale,
etica, religiosa o sociale dell'individuo", e Antigone - scrive Giancarlo Biffi - può ancora indicare la strada
per
farsi "antagonisti della barbarie". Proprio a partire dalla rilettura contemporanea di Antigone, il Cada Die ha
organizzato di recente a Cagliari un incontro dal titolo Quando il tempo viene a noi. Erano presenti,
oltre a chi
scrive, il regista Thierry Salmon, l'attrice Ermanna Montanari, la studiosa di teatro e drammaturga Alessandra
Ghiglione. Quello che segue è il documento con cui Giancarlo Biffi ha introdotto l'incotro. La
Lettera a Nico si
riferisce invece al più recente spettacolo del Cada Die, scritto e interpretato da Alessandro Lay per la regia
di
Giancarlo Biffi. Alessandro Lay ha pregato alcuni spettatori di Nico di scrivere una lettera per una
sorta di
rassegna stampa "alternativa" in forma epistolare. La mia lettera nasce dallo spettacolo ma anche dalle belle
giornate cagliaritane nel loro insieme, fatte di spettacoli, incontri, e anche momenti conviviali, dove si continuava
a parlare, a raccontare, ad ascoltare storie di teatro e non solo, e dove gli interlocutori erano, oltre alle persone
appena nominate, anche Pippo Delbono e Pepe Robledo (che cito nella lettera e di cui mi riprometto di scrivere
su questa rivista, per parlare del loro ultimo spettacolo, Barboni).
Cristina Valenti
La danza intorno al capro è anche la danza dei
capri Appunti per un discorso sulla tragedia
Faccio teatro per necessità. Non perché penso che il teatro sia necessario alle sorti
dell'umanità (o più in generale
agli altri). Quello di cui sono certo è che serve a me. Attraverso e con lui m'interrogo. Mi aiuta a vedere
chiaramente ciò che a volte solo percepisco (e non capisco). Più che fare, amo
praticare teatro. Nella parola
pratica riconosco in modo chiaro il mio agire (forse perché è un termine sinonimo
di esperienza, conoscenza,
tirocinio...). Praticare l'irrazionale è cosa bella. Le tre vie - Uccidere Farsi ammazzare
Vivere Pentesilea /Clitennestra Antigone Cassandra(Medea). Il desiderio tramite il teatro di esplorare
queste vie è fortissimo. La via della sopraffazione (modello fortemente
maschile). La via del martirio (ribellione individuale). La via dell'essere (anarchica-libertaria). Le tre vie o le tre
possibilità che l'individuo si trova davanti nel suo cammino, non sono esclusivamente scelte legate a
situazioni
di guerra, anche nei momenti di pace esse sono materia fondante dell'esistere. Non solo chi esercita violenza
è violento. Anche chi risponde ad un potere violento con i suoi stessi strumenti,
compie un atto violento. Esiste una violenza giusta? (...o buona?) Il rivoluzionario, il ribelle quale via percorre
delle tre. La rivoluzione non è un pranzo di gala, si diceva una volta. Ma non è che
utilizzando gli stessi mezzi di chi si
vuole combattere ci sia il rischio di divenire come lui? Purtroppo l'esperienza ci dice di sì. E' l'esercizio
del potere
che è da combattere. Ma come? Le mie parole vogliono astenersi da ogni giudizio morale. Non
voglio giudicare, mi è fin troppo facile schierarmi
con i compagni zapatisti considerando la loro lotta: buona, giusta e necessaria. Ma non degli altri sto parlando,
ma di me. Sono io che mi interrogo, è la violenza presente in me che vorrei sconfiggere. La mia natura
mi spinge
alla rivolta. Però è troppo facile. Rispondere colpo su colpo è facile. Che bella
un'Antigone-Sorella guerrigliera che trascina il popolo alla presa
del palazzo divenendo lei stessa regina. Ma?... Forse, questo film l'abbiamo già visto, poi nella puntata
seguente
servirebbe un nuovo eroe che detronizzi la regina Antigone divenuta nel frattempo, lei stessa, tiranna...
Vorrei un mondo che non ha bisogno di eroi. Allora forse è meglio quell'Antigone-Sorella
guerrigliera che nella
disubbidienza dà testimonianza del suo essere, non rinuncia alla battaglia, rinuncia agli strumenti classici
del
potere (forse contrappone una via femminile). La via della sopraffazione o della ribellione l'ho attraversata
più volte e non è detto che non la possa attraversare
di nuovo. (Siam pronti alla morte, l'Italia chiamò). E la via del martirio? Vi ricordate il film
Mission: il
conquistadores pentito e il prete - La ribellione violenta al potere, da una parte, e la necessità di essere
segno, di
dare testimonianza del proprio essere, dall'altra. L'avanzare con la croce fra le braccia, mentre i proiettili
crepitano da tutte le parti. Sono partito appunto dal segno, dalla testimonianza, dalla disubbidienza
individuale spinta al martirio per le
proprie ragioni. E ho visto Antigone venire a me. Anche questa via è da "combattente", un combattente
non
violento, che utilizza uno strumento "di non potere" qual è la disubbidienza. La rivolta individuale, non
compresa
dagli altri. Sola con le proprie ragioni: Antigone. La creazione di un contropotere. Altre leggi (o senza
leggi-athésmos). Antigone: le leggi degli dei contrapposte a quelle dello stato. Antigone, sorella
guerrigliera.
Creonte, padre nostro. Uccidere i padri o farsi ammazzare da loro? (Emone) Accettare le loro leggi? Antigone
è la plaza de majo delle madri coraggio argentine Antigone è la piazza Tienanmen Antigone
è la donna
birmana San su ki Antigone è la giovane che s'impicca ad un albero in un bosco di Tuzla, all'arrivo dei
soldati
serbi Antigone è la ragazza che incontro ogni giorno nella strada. E Creonte? Creonte è il nostro
padre. Tra le due
vie, può essercene una terza? Il Cada Die ha provato con Diserzione ad interrogarsi
a proposito di questo. Disertare. Non esserci, non farsi
trovare. Astenersi, essere in un altro luogo. Cosa vuol dire vivere? Non può essere semplicemente il
contrario di
morire. Ed ecco il grande interrogativo che mi pongo: cosa vuol dire vivere? Nella messa in scena della nostra
Antigone, ho curato esclusivamente il primo livello (non ho voluto sovraccaricarla di segni, d'interpretazioni, di
altre chiavi di lettura): è già fin troppo ricca e complessa nella sua semplicità.
Diserzione è molto prossimo a
sembrare un elogio della vigliaccheria. Antigone come Cassandra è una traditrice. Fa il gioco del
nemico, genera il dubbio, il timore nel suo stesso
popolo. E' lei la nemica, è lei che diffonde un pensiero che deve essere sconfitto. Bella è l'idea
che si possa
vivere, senza per forza vincere. Fare a meno del bisogno di vittoria, del bisogno di supremazia. Ma cosa c'entra
vivere con vincere? Al potere serve avere un nemico, si regge sulla contrapposizione, serve alla politica
interna dello stato, per poter
spingere il controllo dell'individuo allo stadio massimo. (Taci che il nemico ti ascolta! ) Occorre limitare le
libertà
individuali. Sono loro i veri nemici: i criminali, i banditi, i disfattisti... Non le truppe armate che assediano la
città.
No, quelli sono specularmente uguali a loro. I linguaggi, i comportamenti, gli strumenti usati sono gli stessi. I
nemici sono coloro che si appellano all'umano, i refrattari che spingono al rifiuto totale. I nemici sono proprio
loro, coloro che non credono che il potere, la vittoria, la cresta alzata dell'uomo/gallo siano valori. Rifiutare
la distruzione, lavorare per altri valori. Magari, far sì che primeggino (una volta tanto) i valori femminili,
rispetto a quelli maschili. Appunto dopo gli uomini di Diserzione, ho avuto bisogno delle donne
di Tebe. A
quando le genti di Troia? "Le storie non sono mai solitarie, sono rami di una famiglia che occorre risalire
all'indietro e in avanti".
Giancarlo Biffi
Lettera a Nico
Caro Nico, forse lo sai che uno come te non lo si ascolta volentieri. Tu hai aperto gli occhi, ancora
bambino, hai guardato la
vita e ti sei fatto male. Poi, del male, hai continuato a fartene da grande, e a farne agli altri. Non vorremmo essere
stati al posto di Ada, né del piccolo a cui non sai neppure dare un nome. Lo chiami Fortunello, con
l'intenzione
di un'ironia cinica, o senz'alcuna intenzione, come è proprio di chi sembra mettersi di lato, a guardare la
tragedia
della normalità che scorre davanti ai suoi occhi, come se non lo riguardasse. E invece lo riguarda,
perché chi si
chiama fuori traccia un solco pesante nei suoi tempi, e la nostra generazione ha visto questo solco farsi baratro,
attrarre ed inghiottire le menti migliori, prima, quelle più sensibili e ribelli, poi semplicemente alcune vite.
Perché delle menti abbiamo smesso di sapere. Né, d'altro canto, vorremmo sapere. Non ci
fermeremmo certo a
parlarti per strada, Nico. E quando ti abbiamo incontrato, in farmacia o in stazione, o in piazza Verdi, o in qualche
centro di recupero, siamo rimasti sconcertati da quale vuoto spalancasse l'esasperazione delle tue parole, che
balbettano arrochite e incalzanti, e sembrano tenere il posto del pensiero. Tu, come molti simili a te, sei una
presenza tanto ingombrante quanto invisibile, tanto rumorosa quanto inascoltata. Allora, ti piazzi lì
davanti a noi,
su un palco pressoché spoglio, e le cose che hai da dire le urli, le spari a raffica e le indossi come
un'armatura,
o uno scudo: ci sono queste parole fra te e noi, che impediscono che ti si prenda, che ti vietano alla nostra
conversazione, che ci attaccano e ti rimbalzano di nuovo addosso fasciandoti come una corazza. Non sappiamo
cosa c'è dietro quella corazza di parole, né vogliamo saperlo. Hai parole parole, e gesti; e neppure
le cose che
tocchi sembrano farsi simbolo di niente, rinunciando allo statuto teatrale per eccellenza. Ma quando la tua vita
ce la sciorini davanti, inchiodandoci alla nostra responsabilità di spettatori, quell'onda di parole avanza,
ribolle,
si curva su se stessa e si rigonfia, per esplodere come una bomba sul ciglio che ci divide e spruzzarci, e poi
bagnarci fradici da capo a piedi. Non possiamo non ascoltarti più, allora. Ti ascoltiamo e ci bagnamo.
Apriamo
gli occhi su di te e ci facciamo male. E il dolore che sentiamo è quello della nostra generazione.
Dopo lo spettacolo, a tavola con Pepe parliamo dell'Argentina e delle ferite che la dittatura militare ha
lasciato
nel suo e in altri paesi dell'America Latina. Racconto di Olga, che ha partecipato alla lotta contro la dittatura in
Uruguay, e poiché era compromessa con il movimento di opposizione, un giorno fu portata in questura
e
interrogata. Sua nonna andò a chiedere di lei e rimase lì, ad aspettare che la rilasciassero. Sua
nonna è Luce
Fabbri, un'anarchica ora quasi novantenne che è arrivata in Uruguay nel 1929, seguendo la famiglia nella
fuga
e quindi nell'esilio dall'ltalia fascista. Dopo parecchie ore, vedendola ancora lì immobile ad aspettare, un
poliziotto le chiese: "Comincia ad essere preoccupata, vero, signora?". "Sì, rispose lei, perché
è ormai ora di cena".
E Olga mi ha raccontato di quando è venuta in Italia, ed è stata a Bologna, la città dove
nonna Luce si era laureata
in lettere classiche, ed è andata in via Zamboni e in piazza Verdi ed è rimasta sconcertata alla
vista di tutti quei
giovani sbattuti per terra, abbrutiti dall'alcool e dalla droga. Il suo giudizio è stato assai severo: come
è possibile
buttarsi via così, buttar via le proprie energie e la propria gioventù e ogni possibilità di
lottare? Per un attimo, non
ho saputo come interpretare le sue parole. Da noi, a dirsi disturbati da viste come questa sono i cosiddetti "ben
pensanti": a noi sembra "politically correct" dichiararci comunque dalla parte della marginalità,
comprendere le
ragioni di chi rifiuta di farsi integrare. Ma il pensiero di Olga non era certo "di destra" e perciò ha prodotto
in me
un ribaltamento di prospettiva. Ricordo gli anni della "controinformazione", quando si diceva che "di destra"
erano le droghe pesanti, quelle che, non a caso, avevano annientato le Black Panthers in America. Poi, negli anni,
i nostri amici son diventati sempre più disincantati, anche nei confronti della controinformazione, e li
abbiamo
visti sorridere ad ogni affermazione troppo certa, o che suonasse lievemente ideologica, finché l'deologia
è
diventata un vero e proprio tabù. "Attenzione, che uccisa l'ideologia rimane il mercato", ha detto una volta
Leo. In un regime neoliberista - è il caso di aggiungere oggi. E anche il mercato della droga è
stato alimentato da chi
aveva ucciso l'ideologia e da chi ne era stato ucciso. Tutti insieme a celebrare la fine di piombo degli anni in cui
le utopie avevano infiammato l'aria. Così, parlando dell'Argentina, abbiamo finito per parlare di te, Nico,
per
tornare senza dircelo allo spettacolo che avevamo visto da poco. Droga, marchette, il gironzolare laido fra i cessi
pubblici, le fedi sfilate furtivamente dalle dita, i rapporti consumati e dimenticati, forse mai voluti, come quello
da cui è nato Fortunello... poi il rapporto vero, l'incontro con Doriano, e il lungo addio adagiato nella sua
bocca
ormai gelida. Allora tutto diventa vero. E dal paesaggio indifferenziato della mitologia metropolitana si staccano
figure in carne e ossa. Sono vere le analisi del sangue, ed è vera questa vita bislacca che può far
a meno
dell'amore perché ne ha sperimentato l'impossibilità più del più avvertito
intelletto: lo statuto di impossibilità
di cui parla Lacan, che definisce l'innamoramento come la condizione di chi vuole dare qualcosa che non possiede
a qualcuno che non desidera riceverla. Questa la tua condizione, Nico, ad ogni livello. Ed ora sei lì, su
quel
palcoscenico, a scimmiottare balbettando la stessa impossibilità nel rapporto teatrale, e urli, ripeti, ritorni
su
sillabe e parole fino a stordirci, imbambolarci e renderti così accettabile. Accettiamo la tua presenza
perché non l'avvertiamo più. Il tuo eccesso ti conferma fra gli invisibili, fra le frange
sfilacciate di una società che nasconde il disagio e la malattia, a volte segregandoli, altre volte, più
raffinatamente,
esasperandone la visibilità e rendendola perciò insostenibile. Ma qui, a teatro, accettiamo che ci
sia qualcuno che
pretende di darci qualcosa che noi non vogliamo ricevere. Lo accettiamo. Non è questo l'orrore
più grande? Non siamo anche noi nel baratro dell'orrore? Quello stesso scavato da chi si è
messo fuori, abbandonando
compagne e compagni, non riconoscendo figli e responsabilità e prospettive. Quando lo spettacolo finisce,
l'orrore
lo abbiamo attraversato, ma non il tuo, il nostro. Quello di tempi in cui il disincanto è diventato
imperativo, ed
è servito per irridere gli altri imperativi, quelli dell'impegno personale e collettivo, della
solidarietà e della presa
in carico. Poi è servito a sopportare le nuove colate di piombo, non più delle armi, ma della droga,
della malattia,
dell'indifferenza, della rincorsa al successo. In Sud America ho ritrovato il peso del pensiero e della parola, dicevo
a Pepe. Là, le persone uscite dalla dittatura sanno che pensare una cosa o l'altra non è indifferente.
Che dire una
cosa o l'altra non è lo stesso, ha conseguenze concrete. Là, questa sensazione di inutilità
e indiffferenza che
avvertiamo nelle sorti e nelle scelte personali sembra non riguardare in alcun modo la vita del pensiero e
l'universo delle parole. Le tue parole, Nico, rotolate su loro stesse fino a soffocare la fonte del pensiero, sono
l'estremo portato degli anni del disincanto. Solo che a quel disincanto sei tu ad offrire, dal palco, uno specchio
inclinato, e noi ne proviamo orrore, ma solo per un attimo. In fondo, non è successo niente. Erano
parole.
Cristina Valenti
Di eroina, diAIDS, di ragazzi che si
vendono "Quando ero piccolo aprii gli occhi e guardai la vita... faceva male".
Nell'inverno del 1994 scrissi queste parole per iniziare un racconto. Lo terminai alla fine dell'estate. Non so
quando ho iniziato a pensare al teatro, forse subito, forse poi - so che una sera mi sono chiuso nell'andito di casa
mia e ho iniziato a parlare da solo, usando quelle parole. Ricordo che sin da bambino vedevo il mondo come un
enorme maiale sempre pronto a trangugiare tutto: le donne, gli uomini, le cose. E quel mondo dovevo vomitarlo,
in un modo o nell'altro. Nico è una storia che parla di eroina, di AIDS, di ragazzi che si vendono in
piazza... cose che fanno parte del mio
mondo, in qualche maniera ne hanno sempre fatto parte, ma non mi hanno mai "attraversato" in prma persona -
mi ruotano attorno come le zanzare affamate d'estate: mordono, pungono, fanno male e lasciano dei segni, ma
non uccidono. Parla di un figlio che chissà di che colore ha gli occhi. Parla di come sia facile
innamorarsi del ragazzo dagli occhi che sanno di grano... Non sono arrivato a Nico per
poter parlare di AIDS, droga e marchette, è esattamente il contrario: ho usato le cose che "sono" in questo
mondo
per poter partorire Nico, un essere nuovo. Giancarlo ha accetato di essermi compagno in questo viaggio e di
guidare il mio delirio fino al teatro. Adesso Nico c'è, ha una sua propria vita e il mio compito è
finito: devo solo
prestargli il mio corpo quando gli serve.
Alessandro Lay
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