Rivista Anarchica Online
La concorrenza ineguale
di R. Brosio
La colonizzazione della campagna da parte della città è al contempo causa ed effetto dei
più generali squilibri
sociali - Sottrazione della manodopera migliore, sottovalutazione dei prodotti, impiego extra-agricolo dei
risparmi
formati in agricoltura: i numerosi canali tramite cui il mondo agricolo viene subordinato alla logica di
"sviluppo"
della città - Attualità delle indicazioni contenute nel "Campi, fabbriche, officine" di
Kropotkin
Il progressivo dissesto ecologico (in senso lato) a cui l'espansione urbana
va sottoponendo il territorio rurale
ripropone in termini di drammatica attualità il problema del rapporto città-campagna. La
casistica del fenomeno
è nota essendo uno degli argomenti trattati, si può dire, quotidianamente dagli organi di
informazione, e non
richiede, in questa sede, ulteriori approfondimenti. Quello che, invece, ci preme notare è che
l'inquinamento
ambientale, fisico, chimico, estetico, delle zone agricole, non è che un effetto, se pur
macroscopicamente
importante, della condizione di sottomissione "coloniale" in cui la città tiene (e, in genere, ha
tenuto) la
campagna. Di ciò intendiamo qui parlare. Il rapporto di dominazione della città sulla
campagna ha assunto, nel tempo, varie forme, a seconda delle forme
assunte dai rapporti di produzione e dal potere politico. Attualmente nei paesi tardo-capitalisti come
l'Italia, dove
sopravvive ancora un'economia mercantile, tale dominio prende comunemente l'aspetto di un
diseguale rapporto
di scambio tra i prodotti della città e quelli della campagna, vale adire tra i beni e servizi
prodotti dai settori
secondario e terziario e i frutti dell'agricoltura. Da questo "scambio ineguale" deriva una diversa
capacità di
concorrenza reciproca tra città e campagna, per l'acquisizione e l'uso di quei fattori necessari ad
entrambe per le
proprie attività produttive: manodopera, capitali, terra. Più precisamente tale concorrenza
è nettamente squilibrata
a vantaggio della città, al punto che alla campagna e all'agricoltura viene lasciata solo quella dose
di fattori
produttivi rimasta inutilizzata dalla città, dall'industria e dai servizi. In altri termini la città
può attingere a terra,
manodopera e capitali, secondo le sue esigenze e secondo la sua logica di
sviluppo, mentre la campagna è
costretta, nei fatti, a subire tali esigenze e tale logica. L'affermazione apparirà
confermata, esaminando più da
vicino i meccanismi di questo squilibrio concorrenziale.
La concorrenza per la terra
Il suolo, nel nostro paese come in tutti quelli tardo-capitalistici, è in larghissima parte oggetto
di libera
compravendita. La scelta tra i possibili usi alternativi di esso, quindi, è lasciata al gioco del
mercato, cioè appunto
alla concorrenza mercantile tra città e campagna. Ora, tale concorrenza è per la
campagna palesemente
insostenibile. Una qualunque destinazione extra-agricola del suolo (casa d'abitazione, capannone
industriale,
distributore di benzina, eccetera) può "pagare" valori unitari dieci, cinquanta, cento e più
volte superiori a quelli
compatibili con un uso agricolo. Un metro quadrato di seminativo irriguo, ad esempio, viene attualmente
compravenduto ad un prezzo medio oscillante tra le tre e le quattrocento lire, contro le svariate, spesso
decine
di migliaia di lire che potrebbe spuntare in caso di destinazione edilizia o simile. Questa concorrenza
insostenibile
(se di concorrenza ancora si può parlare tra chi può pagare uno e chi può pagare
cento per lo stesso bene)
determina due principali effetti negativi sull'agricoltura. Il primo di essi è che la destinazione
agricola di un terreno
è condizionata non tanto dalla possibilità tecnica di esercitare su di esso questa o quella
coltivazione, quanto dal
fatto che possa esser utilizzato, o no, per le esigenze dello sviluppo urbano. All'agricoltura, dunque, non
vengono
lasciati i terreni più adatti, ma semplicemente quelli non adatti all'industria e ai servizi, buoni o
cattivi che siano
per le coltivazioni o l'allevamento. Il secondo tipo di danno apportato dalla concorrenza della
città è un incremento del valore dei fondi che non ha
rapporto con la produttività agricola degli stessi, incremento che limita fortemente la
ristrutturazione fondiaria
(ampliamento aziendale, eccetera) e funziona pertanto da ostacolo all'aumento della produttività
agricola stessa.
In altri termini, la semplice possibilità, anche non immediata, di futuri usi extra-agricoli (e quindi
di maggiori
prezzi) tende a far aumentare anche il valore "agricolo" attuale dei terreni, costringendo gli agricoltori
che
desiderano ingrandire la propria azienda a contenere gli ampliamenti e le ristrutturazioni, o rinunciarvi,
per
l'eccessivo costo di esse, non compensato da una adeguata produttività.
La concorrenza per la manodopera
La campagna è, notoriamente, il serbatoio di manodopera cui la città attinge secondo
le sue esigenze. Ad esempio,
il boom italiano degli anni '50 e '60 ha ridotto drasticamente la manodopera agricola,
trasferendola al settore
secondario (soprattutto) e terziario. Nell'ultimo ventennio, infatti, gli attivi in agricoltura, che erano il
42,2% degli
attivi totali all'epoca del censimento del 1951, si sono ridotti al 17,3% (censimento del 1971). Ora, la
riduzione
degli attivi in agricoltura, per quanto intensa, non è in sé un fenomeno negativo,
chè anzi essa è necessaria per
aumentare la produttività pro-capite del lavoro, cioè per ridurre l'incidenza
del fattore produttivo oggi più caro,
la manodopera. Se però dall'aspetto quantitativo passiamo a quello qualitativo, non è
difficile identificare i danni
che derivano all'agricoltura dalla concorrenza urbana nell'uso della manodopera. La riduzione di
manodopera
agricola avviene contemporaneamente per "espulsione" (per l'introduzione cioè di tecnologie che
rendono
conveniente la sostituzione del capitale al lavoro) e per "attrazione" (migliori condizioni monetarie e non
degli
impieghi extra-agricoli). Sinché il drenaggio di manodopera avviene in armonia con l'espulsione,
il settore agricolo
non subisce alcun danno da esso, anzi ne viene favorito, come s'è detto, lo sviluppo della
produttività del lavoro
umano. Quando viceversa la "attrazione" agisce in misura eccedente le possibilità di "espulsione",
l'equilibrio
dinamico dell'agricoltura ne viene danneggiato. Inoltre, in generale, essendo la città a determinare
la riduzione
degli attivi agricoli, essa esercita un effetto negativo sulla campagna anche per quella quota di
manodopera
"attratta" coperta dalla "espulsione". Infatti gli elementi che più sentono tale attrazione sono i
lavoratori più
dinamici e più giovani. Questo significa, semplificando, che l'agricoltura perde i "migliori", e si
impoverisce
qualitativamente in misura superiore alla diminuzione quantitativa.
La concorrenza per i capitali
Il mezzo più rilevante, oggi, con cui la città "drena" capitali dalla campagna,
è rappresentato certamente dalla
sottovalutazione dei prodotti agricoli rispetto a quelli industriali. Ciò è reso possibile dal
fatto che la città detiene
praticamente il monopolio della domanda dei prodotti agricoli (o ne è comunque l'acquirente
d'elezione) e gode
quindi di condizioni di netta prevalenza nella determinazione dei prezzi. In tal modo, spendendo
cioè
relativamente "poco" per il proprio mantenimento, può devolvere l'uso del capitale così
risparmiato alle attività
che la contraddistinguono, l'industria e i servizi. Un'altra forma di "drenaggio" capitalistico è
rappresentato dall'uso per impieghi extra-agricoli del risparmio
formato in agricoltura. La redditività del capitale impiegato per scopi rurali, infatti, è
nettamente inferiore a quella
ottenibile con altri investimenti: questo significa che gli agricoltori stessi sono spinti ad investire
perlomeno una
parte del proprio risparmio in azioni di società industriali, nell'edilizia, eccetera, invece che nel
proprio fondo.
La somma totale di questo "risparmio distratto" non ha certamente un gran peso sul complesso degli
investimenti
industriali e terziari, a causa della ridotta rilevanza economica del settore agricolo in confronto agli altri
settori.
Costituisce, comunque, un ulteriore esempio di quella sottrazione di strumenti produttivi che la
città opera ai
danni della campagna. Può sembrare in contrasto con tutto ciò, l'osservazione che ormai,
in tutti i paesi tardo-capitalisti, i capitali investiti nell'agricoltura provengono in larga misura dal
finanziamento pubblico, cioè dalla
"città" intesa in senso lato. In Italia, ad esempio, un terzo del credito agrario a breve termine, la
maggior parte di
quello a medio e quasi tutto quello a lungo termine, è dovuto all'intervento dello stato. Ma la
contraddizione è
solo apparente. Nella realtà, questo dimostra che la campagna "da sola" non è in grado
di approvvigionarsi dei
capitali che sono necessari, e deve dipendere per essi dall'"aiuto" proveniente dai settori urbani
dell'economia.
La città, d'altro canto, ha interesse a compensare parzialmente, con tale aiuto, gli effetti dello
scambio ineguale,
per evitare che la sottrazione di capitali all'agricoltura arrivi a bloccare patologicamente tale settore, e di
conseguenza ne rende impossibile lo sfruttamento. In ultima analisi, è sempre la città che
decide l'ammontare degli
investimenti agricoli, secondo i suoi ritmi e i suoi interessi. Con questa forzatamente breve disamina
dei meccanismi di dipendenza della campagna dalla città, non abbiamo
certo toccato tutti gli aspetti del problema. Altri ne esistono, che qui non è il caso di trattare per
i limiti di spazio
che ci sono imposti. Crediamo comunque che la dipendenza, definita "coloniale" in apertura,
dell'ambiente rurale
da quello urbano, sia stata sufficientemente messa a fuoco. A questo punto sorge spontanea una
domanda: come
è risolvibile il problema? Settant'anni fa, l'anarchico Pietro Kropotkin, esule in Gran Bretagna,
diede alle stampe
"Campi, fabbriche, officine", un libro che molti, all'epoca, giudicarono stravagante. In esso si sosteneva
che fosse
auspicabile e possibile l'integrazione economica e sociale di industria e agricoltura, di
città e campagna, attraverso
il decentramento, la "ruralizzazione" dell'industria. Tale decentramento sarebbe stato reso possibile dal
progressivo superamento delle principali condizioni che avevano reso economicamente conveniente
l'accentramento urbano industriale (vicinanza alle fonti di energia, problemi delle comunicazioni e dei
trasporti,
eccetera). Oggi le idee di Kropotkin appaiono assai meno stravaganti, non solo agli anarchici, che vi
scorgono la
geniale intuizione di chi aveva a cuore l'armonico sviluppo dei rapporti umani, ma a quanti siano
sufficientemente
lucidi da accorgersi dove ci ha condotto lo squilibrio economico e sociale esistente tra l'ambiente rurale
e quello
urbano. La città ha quasi completamente annullato i modelli culturali rustici e questo è
bene, perché essi, fatti
su misura di arcaiche strutture, poggiano sulla famiglia patriarcale autoritaria, sulla tradizione,
sull'immobilismo,
sulla chiusura e in definitiva sulla miseria. Ma i modelli culturali proposti dalla città sono
altrettanto discutibili,
perché fatti su misura di una società altrettanto ingiusta di quella contadina,
perché mitizzano un dinamismo fine
a se stesso, perché elevano le nevrosi a modelli di vita, perché uccidono la
solidarietà. L'industria ha bisogno
dell'agricoltura, e questa di quella. Che l'industria non possa esistere senza l'agricoltura è
un'evidenza banale, ma
anche l'agricoltura moderna, libera cioè dalla fatica bestiale e dalla bestiale dipendenza dalla
natura, è
inconcepibile senza l'industria della città perché ha bisogno di uscire dallo squallore della
cascina, dall'isolamento
culturale del paese, dalla miseria dei rari contatti umani, dal buio, dal fango, dalla nebbia. L'unica
soluzione
possibile sta dunque nel superamento globale della separazione città-campagna; cioè nel
superamento sia della
realtà urbana che di quella rurale, quali si sono storicamente configurate finora. Già oggi,
è in atto un processo
di parziale decentramento delle industrie, in quanto, superati certi limiti, la cogestione urbana offre loro
più
svantaggi che economie. Ma questo decentramento, caotico e violento, è ancora espressione del
prepotere
dell'industria sull'agricoltura, della città sulla cascina e sul paese. Non ha nulla a che vedere con
quella
"ruralizzazione", armoniosa ed intelligente, che può risolvere i problemi della campagna e
insieme della città e
non può avvenire senza una profonda rivoluzione dei rapporti sociali ed umani. Cioè
senza una rivoluzione
libertaria.
R. Brosio
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