Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 5 nr. 41
estate 1975


Rivista Anarchica Online

Realtà e prospettive dell'"autogestione di Stato" in Jugoslavia
di Albert Meister

Uno stimolante saggio del sociologo francese Albert Meister.
Polivalenza del termine "autogestione" - L'autogestione cooperativa, quella socialista in economia di mercato e quelle inserita in un'economia socialista di mercato: i controversi rapporti tra decentramento decisionale e pianificazione - Gli "artigiani" dello sfruttamento moderno - Dalla socializzazione dei mezzi di produzione alla costruzione dell'autogestione - Validità di un progetto "utopistico"

Albert Meister, l'autore di questo articolo, è un ricercatore di sociologia all'Istituto di Studi dei Movimenti Sociali presso l'Ecole Pratique des Hautes Etudes a Parigi. È autore di numerosi saggi, uno dei quali ("Ou va l'autogestion juogoslave?") ha il medesimo argomento trattato nelle pagine che seguono.
Meister non è un anarchico. In molti punti le nostre opinioni discordano da quelle dell'autore: la stessa impostazione "ideologica" della sua analisi non può trovarci d'accordo, per la mancanza di una netta distinzione tra i fenomeni di autogestione all'interno della logica del sistema e quelli che invece si pongono in un'ottica rivoluzionaria. La logica riformista e quella rivoluzionaria, infatti, sono assolutamente inconciliabili e la tematica autogestionaria non sfugge a questa realtà.
Abbiamo giudicato valida comunque, la pubblicazione di questo articolo per l'interesse e l'originalità dell'analisi che vi viene condotta in relazione agli sviluppi passati e presenti dell'autogestione in Jugoslavia.

Nel linguaggio attuale la parola autogestione ha una notevole importanza, ma questo non impedisce affatto che i significati che le vengono attribuiti siano estremamente diversi: per alcuni, preoccupati dalla ricerca di nuovi miti capaci di mobilitare le masse, autogestione significa né più né meno che la fine dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, l'abolizione del salario, l'avvento di una "reale democrazia"; per altri, meno idealisti e più inclini a realizzazioni immediate, essa significa una semplice partecipazione a certe decisioni; per altri ancora, attenti al modo in cui le decisioni sono prese, essa si riduce al processo democratico, alla maieutica del consenso; nel caso più estremo si parla di autogestione quando i partecipanti ad un seminario di relazioni umane decidono essi stessi ciò che faranno durante i giorni in cui fuggono dalle imposizioni e dall'ineguaglianza delle loro condizioni di lavoro abituali. Infine, il lirismo di alcuni porta a domandarsi se l'autogestione non debba essere considerata come la manifestazione latina e "cartesiana" del revival religioso che ha accompagnato il passaggio dei paesi anglosassoni alla società dei consumi...
Per vedervi più chiaro è necessario innanzitutto distinguere bene le strutture dell'autogestione dal suo funzionamento, poiché si possono trovare delle strutture democratiche il cui funzionamento non è per nulla tale e viceversa. Inoltre, poiché dopotutto la parola autogestione è un termine improntato alla realtà, è necessario cercare di vedere cosa significa laddove viene utilizzata, cioè a partire dall'analisi delle esperienze che si richiamano all'autogestione, partire dalla realtà e non dalla speranza di quello che l'autogestione potrebbe essere un giorno.

Strutture d'autogestione

La realtà ci offre tre tipi di strutture d'autogestione:
- l'autogestione cooperativa, cioè quella che si trova nelle cooperative del mondo occidentale, essendo queste imprese delle unità di proprietà e di gestione collettiva dei mezzi di produzione (i lavoratori sono i proprietari e il potere è legato alla persona e non al numero di quote detenute). Possono entrare in questo schema i Kibbutz israeliani che si trovano in un'economia liberale e prendono le loro decisioni in funzione del mercato. Questo schema è tuttavia molto teorico e l'osservazione dimostra che di fatto le cooperative di ogni tipo (agricolo, di produzione industriale, di credito, ecc.), vedono diminuire progressivamente la loro autonomia di gestione particolarmente a causa del credito, che è loro concesso dagli organismi centrali i cui posti di comando sono occupati da funzionari pubblici. Come si vedrà a proposito dell'attuale autogestione jugoslava, il dirigente di banca interviene nella gestione e le decisioni importanti non sono più di competenza della democrazia aziendale. Parlando della Francia, non è esagerato dire che l'intervento dello stato nel settore cooperativo è forse più marcato che non in Jugoslavia.
- L'autogestione socialista in economia pianificata, creata in Jugoslavia all'inizio del decennio 1950, è in realtà una combinazione tra strutture democratiche aziendali, molto vicine, malgrado la socializzazione della proprietà, a quelle dell'autogestione cooperativa e una pianificazione economica. Il piano nazionale è decentrato a livello delle Repubbliche e, più in basso, a quello dei comuni. Di dimensione ben maggiore dei nostri comuni occidentali, i comuni jugoslavi esercitano un'autorità di pianificazione sul loro territorio e una tutela sulle imprese. Quanto al legame tra la democrazia aziendale e questa autorità di pianificazione, esso era a quell'epoca caratterizzato dall'elezione dei direttori di impresa da parte di una commissione mista comprendente contemporaneamente membri del consiglio operaio dell'impresa in questione e dei rappresentanti degli organi del comune. Di fatto, questa autogestione è in realtà una cogestione, in cui lo stato detta le "regole del gioco" poiché è lui che in definitiva fissa la scala di ripartizione dei profitti di fine anno (che gli operai sperano sempre di dividersi...) e dunque limita certi poteri della democrazia aziendale; lo stato è, allo stesso modo, l'unico a decidere sul prelievo fiscale, sul controllo dei prezzi e sul credito. La democrazia aziendale è dunque seriamente limitata malgrado, teoricamente, la elaborazione del piano e delle politiche economiche debba risultare dal gioco delle proposizioni e contro-proposizioni delle diverse istanze e livelli in questione. Infatti durante tutto il decennio 1950 questo sistema condusse a privilegiare l'aumento degli investimenti e la limitazione dei consumi. Benché i sentimenti di fraternità e di eguaglianza del dopoguerra abbiano facilitato questa limitazione dei consumi, è stato a volte necessario concedere un po' di "argent de poche" (l'espressione è dello stesso Tito) affinché gli operai avessero qualche cosa da decidere nelle loro assemblee di fine anno.
- L'autogestione nell'economia socialista di mercato. Dall'inizio degli anni '60 e particolarmente dopo le riforme del 1965, i controlli statali diminuiscono e l'attuazione del piano è affidata al sistema bancario. Non stiamo qui ad esaminare le cause di questa trasformazione, di cui le più importanti sono, secondo me, la progressiva integrazione della Jugoslavia nell'economia occidentale e l'indebolimento dell'influenza ideologica (la fede, poiché è di questo che si tratta, nella costruzione di una società socialista), e dunque l'emergere di tendenze centrifughe in rapporto al progetto di una società nuova da costruire. Le strutture di democrazia aziendale sembrano rafforzate poiché i direttori sono attualmente nominati dai soli consigli operai. Benché i prezzi di circa la metà dei prodotti (soprattutto alimentari) siano ancora fissati dallo stato, esiste tuttavia una certa forma di concorrenza tra le imprese; sebbene gli investimenti pubblici non siano cessati, il credito segue sempre più una logica bancaria e si sviluppa secondo caratteri di redditività; i comuni hanno sempre meno ascendente sulla pianificazione economica. Infatti, gli jugoslavi parlano sempre più sovente del loro piano come di un piano "alla francese" e noi sappiamo quanto un tale piano possa non esser costrittivo per le imprese...
In apparenza, la democrazia d'autogestione esce rafforzata dall'indebolimento della pianificazione. Ma questo è vero solo sul piano delle strutture; su quello del funzionamento, infatti, ci si accorge che, come ovunque, il dirigente di banca, come qualsiasi altro finanziatore (e in Jugoslavia può trattarsi del socio straniero di una Joint-venture o anche di un risparmiatore privato di nazionalità jugoslava), desidera limitare il rischio del suo investimento controllando la sua utilizzazione e dunque intervenendo più o meno direttamente nella scelta dei dirigenti dell'impresa.
Oggi si può cadere in errore per la rassomiglianza esistente fra questo tipo di autogestione e l'autogestione cooperativa in un paese come la Francia, e questo malgrado il fatto che la proprietà nel primo caso sia nazionale (1). Il rapporto alle economie occidentali, in cui i settori cooperativi sono molto deboli, l'economia jugoslava di mercato si distingue sempre per la dimensione del settore autogestito, malgrado un settore privato in costante aumento (2) e, soprattutto, malgrado sempre più sentite aspirazioni a consumi e realizzazioni individuali.
Queste tre distinte strutture di autogestione possono dunque essere ricondotte a due, quella in economia pianificata e quella in economia di mercato. È utile ancora dimostrare che la scelta dell'una o dell'altra non è libera. Se la creazione del primo tipo di autogestione aveva avuto come scopo di fare esplodere la centralizzazione e la burocratizzazione dell'apparato centrale di pianificazione, non era certo meno vero che lo stato intendeva restare il padrone dell'economia. Decentralizzato e concertato con le varie imprese, il piano si avvicinava al popolo, ma continuava ad essere considerato, come nella migliore tradizione sovietica, il simbolo del ruolo direttivo giocato dallo stato nell'economia. Questa opinione era istituzionale, un po' come nei nostri paesi alcuni considerano ancora le nazionalizzazioni come il segno tangibile di una avanzata verso il socialismo.
Al contrario, l'autogestione in economia di mercato non ha più un piano a cui fare riferimento, bensì una moltitudine di organismi di soci e di centri decisionali che orientano le sue decisioni a seconda di politiche economiche più o meno chiaramente definite. E queste scelte vengono prese proprio nel momento in cui il piano appare come uno strumento troppo grossolano per dirigere la crescita di un'economia sempre più complessa. È dunque, in definitiva, il grado di sviluppo dell'economia che detta le scelte delle strutture autogestionarie. Tale osservazione è meno banale di quanto non appaia se si tiene conto della pluralità dei centri decisionali in un'economia moderna che travalica largamente le frontiere nazionali, in cui le vecchie distinzioni tra l'economia, il sociale, il politico, sono sempre meno nette e in cui i sistemi di interdipendenza tra i vari soggetti sono tanto complessi quanto fragili. Con l'eccezione di circostanze particolari (guerre, catastrofi) che obbligherebbero tale società a riesaminare le sue fondamenta, e al di fuori dell'ipotesi rivoluzionaria, i possibili cambiamenti non dovrebbero essere che degli assestamenti, delle riparazioni, delle correzioni di dettagli. La stessa visione di insieme non è più possibile e questo anche perché i piani nazionali, che pretendono di coprire tutto il futuro nazionale, restano senza effetto. Da ciò il ricorso a politiche parziali o settoriali più o meno contraddittorie, puramente pragmatiche, elaborate via via in risposta alle circostanze e che una tecnocrazia giovane e ancora nella sua fase di conquista degli apparati non ha la modestia di riconoscere che si tratta spesso di indecisioni, esitazioni, ecc.
Se si tiene conto del contesto, e a scapito dell'entusiasmo e delle grosse ambizioni dei suoi protagonisti, è necessario riconoscere che la ricerca di strutture di autogestione è accodata al riformismo: si tratta essenzialmente di trovare dei mezzi per democratizzare l'elaborazione e il controllo delle politiche economiche e sociali (a condizione, però, che si siano localizzati e identificati - cosa che non è sempre facile - i luoghi e gli organismi responsabili) e rafforzare e sistemare le strutture di partecipazione nelle imprese. Resterà poi il problema di far vivere queste strutture, cosa che, nel lungo periodo, appare come il problema fondamentale.

Il funzionamento dell'autogestione

Se la struttura dell'autogestione gioca un ruolo determinante come cornice della democrazia economica, essa non è però una condizione sufficiente e l'osservazione ci mostra a volte imprese autogestite che non sono altro che imprese padronali travestite e interi settori di autogestione che non sono altro che organi di trasmissione delle decisioni del piano nazionale. È inoltre necessario distinguere i problemi a livello delle imprese da quelli che emergono dall'inclusione delle imprese in un sistema pianificato. A livello di impresa, le condizioni di funzionamento della democrazia d'autogestione sono ben conosciute e si possono fare alcuni riferimenti:
- Qualunque sia il tipo di autogestione, i fondatori hanno sempre creduto che l'eliminazione del conflitto di classe grazie alla socializzazione dei mezzi di produzione sarebbe stata sufficiente a risanare, a trasformare i rapporti di lavoro. S'è però potuto constatare l'esistenza di altri conflitti sociali che, precedentemente, tendevano ad essere nascosti dal conflitto padrone-operai: una volta che l'uguaglianza formale è realizzata le disuguaglianze naturali appaiono più evidenti e sono proprio queste disuguaglianze che danno vita a nuove stratificazioni sociali a volte tanto odiose quanto quelle che si fondavano sul denaro. È allora il trionfo dei più intelligenti che, al potere, sono raramente i più umani; o il regno dei più conformisti riguardo alle ideologie ufficiali; o quello dei compagni eletti ai posti di responsabilità grazie alla loro popolarità nelle fabbriche; o quello dei più intraprendenti, il cui spirito di iniziativa sarà più utile all'aumento degli investimenti che non alle procedure democratiche, o ancora il miscuglio di questi quattro (o più) tipi di uomini - cosa che, agli occhi del democratico focoso, come del filosofo disilluso non è forse un miscuglio detonante ma almeno una garanzia contro l'arbitrio.
- qualunque sia questo dosaggio e la benevolenza del potere nell'impresa e il suo rispetto delle regole del gioco democratico, tutto ciò non impedisce, col passare del tempo, che esso si cristallizzi e, a volte a sua stessa insaputa, si opponga ai rinnovamenti, invocando le regole dell'efficienza come ostacoli alla rotazione e alla nomina di uomini nuovi nelle équipes direttive. È sempre impopolare denunciare questa tendenza, tanto più che in tale modo sembra di attaccare i protagonisti dell'autogestione che sono per la maggior parte del loro tempo uomini di apparato, minacciati costantemente dall'applicazione del principio della rotazione. Pure, se si desidera parlare seriamente del funzionamento dell'autogestione, sarà necessario un giorno osare disseppellire questa irritante e vecchia "ferrea legge dell'oligarchia" sostenuta dal sociologo Robert Michels, ed esaminare lucidamente ciò che essa significa.
- Constatiamo anche che di fronte a questi capi più inclini a rientrare nei ranghi, la base generalmente è molto felice di "dare la sua fiducia, di lasciarsi guidare". La famiglia, la religione, la scuola, non servono forse ad abituare a "stare al proprio posto" e ad obbedire ai capi? Non è esagerato ammettere come possibile l'ipotesi che una parte delle difficoltà della democrazia d'autogestione (come d'altronde delle altre forme di democrazia) derivano dalle abitudini alla sottomissione inculcata da queste istituzioni.
A livello di complessi di aziende sorgono altri problemi di funzionamento:
- nel caso di autogestione in economia pianificata, molti compiti di collegamento e di coordinamento sono svolti dalla amministrazione, e si sa quanto soffrano i Paesi socialisti dei loro burocrati. Per quanto riguarda la Jugoslavia, si è anche avanzata l'ipotesi che il ricorso al principio della concorrenza tra imprese sia stato il solo modo per liberarsi della tutela dell'amministrazione.
- Se, al contrario, l'autogestione tocca un'economia di mercato, la necessità di legami, di coordinazione tra le varie imprese fa nascere degli intermediari di tutte le specie, agenti, consiglieri, rappresentanti, mediatori, ecc. Questi intermediari dispongono di un grande potere nelle imprese, anche se queste li considerano come semplici parassiti, voraci di onorari e di commissioni. E più l'economia è complessa, più questa schiera di intermediari aumenta di numero e di influenza. Tuttavia, poiché queste persone "non sfruttano" un personale numeroso (tuttalpiù qualche segretaria) e non dispongono di un grande capitale fisso (un telefono, un telex), essi sono considerati come degli artigiani (come nel caso iugoslavo) e non sono obbligati ad autogestire i loro uffici. Tuttavia se li esaminiamo bene essi sono forse "gli artigiani" dello sfruttamento moderno dell'uomo sull'uomo, quello che nasce dal sapere, dal possesso delle informazioni, delle conoscenze e della capacità di organizzare. Essi sono il prodotto di un'economia che si è cercata di rendere più dinamica; essi sono nello stesso tempo, creatori e creature di questo dinamismo. E tutta la storia recente dell'autogestione jugoslava e dei tentativi di riprendere in mano l'economia tendeva a dimostrare che se è possibile autogestire le fabbriche e le istituzioni, non si può arrivare ad autogestire la forza che né è animatrice, il dinamismo dello sviluppo.
Le comunicazioni tra le imprese e le istituzioni di piano, malgrado siano state frenate dall'amministrazione, non hanno subito altre distorsioni se non di ordine burocratico. L'autogestione pianificata degli anni '50 era concepita come un mezzo per realizzare un progetto di società, l'ideologia cui si richiamava non era contestata né lo era il gruppo che ne era il portavoce. E noi abbiamo sufficienti testimonianze per dimostrare che quando una nuova direttiva di piano rischiava di essere mal accolta dalle direzioni o dai consigli operai di imprese, era generalmente sufficiente fare intervenire il segretario locale del partito per far accettare la direttiva proposta. In altri termini, l'unità che il piano conferiva all'economia era rafforzata da una unità ideologica, il cui veicolo era un unico apparato di mobilitazione. La nostra ricerca dovrebbe, credo, chiedersi se questa nuova regola delle tre unità è applicabile nelle società pluraliste.
A questo proposito alcuni hanno sognato e parafrasato Lenin dichiarando: autogestione+computer= socialismo. Grazie ai terminali dei calcolatori elettronici e ai loro centri gli uomini potranno decidere sul campo le differenti politiche economiche che saranno loro sottoposte e di cui il computer mostrerà loro i costi e le implicazioni. Così sarebbero conciliati il pluralismo delle opinioni e delle tendenze politiche con una certa unità nelle scelte economiche. Ci si è dimenticati, però, di parlare del terzo elemento di unità che, nella situazione precedente, era il partito e che, attore invisibile di questo sogno riconciliatore, prepara i programmi e controlla quindi il computer-idolo. Così come gli audiovisivi, in cui si era molto sperato, non sono serviti a nulla in materia di educazione, così il fatto che la democrazia sia stata molto malmenata durante quest'ultimo decennio non giustifica che si continui a riporre speranze in nuovi strumenti? Far funzionare delle strutture d'autogestione: è così che ci si è sempre posti il problema. Molto più raramente si è cercato di formare delle attitudini autogestionarie e di vivere l'autogestione prima di costruirne le strutture. Questa strada sarebbe possibile?

Gestione collettiva e autogestione

Nel corso degli anni '50 alcune imprese jugoslave ricorsero all'intervento di istituti occidentali specializzati nella formazione del personale e nello studio delle relazioni umane nell'impresa. Anche nelle strutture democratiche aziendali era necessario mettere dell'olio negli ingranaggi, formare i dirigenti, instaurare nuove relazioni interpersonali tra i quadri, tra i dirigenti e gli esecutori, perché la trasformazione delle strutture, l'abolizione della proprietà individuale dei mezzi di produzione, non sembravano, e non sembrano ancora, aver modificato le attitudini dei capi, l'autoritarismo nelle relazioni di lavoro.
A quell'epoca questo fatto era passato inosservato e si può anche dire che, distolti dall'idea che fossero più importanti le trasformazioni strutturali, gli osservatori non l'avevano del tutto notato. Si è divenuti più attenti successivamente ed è così che si è rilevata la persistenza di relazioni molto autoritarie nelle famiglie, anche di coloro che da molti anni sono inseriti nel processo decisionale dell'azienda e partecipano all'autogestione. Inoltre, malgrado le scuole siano autogestite, si è notato il tradizionalismo nei metodi di insegnamento e la distanza tra insegnanti ed allievi. Se la socializzazione dei mezzi di produzione può sempre essere considerata come un preambolo necessario per creare strutture d'autogestione, questi fatti indicano chiaramente che queste trasformazioni "non cambiano il modo di vivere" quotidiano, non modificano la qualità dei rapporti sociali. Certo, i teorici hanno senza dubbio ragione quando dicono che le trasformazioni nelle infrastrutture determinano dei cambiamenti nel modo di essere, di sentire, di vivere insieme. Ma questo va bene per il lungo, troppo lungo termine, mentre sempre più, e soprattutto dopo il '68, si vuole mutare continuamente e velocemente la qualità della vita. In opposizione all'autogestione strutturata sin qui esaminata, parlerò ora di tentativi di gestione collettiva per indicare alla base queste ricerche, tanto numerose quanto mal indirizzate, per cambiare la qualità dei rapporti quotidiani: comuni più o meno durature, incontri durante le vacanze, gruppi di quartiere e di consumo, raggruppamenti effimeri, collettivi di scioperi selvaggi, bande più o meno delinquenti, classi di insegnamento reciproco, celebrazioni religiose senza preti, famiglia aperte, ecc. In tutti questi tentativi il tratto comune è la volontà di sperimentare un tipo di vita diverso e, detta crudamente, la motivazione è la seguente: "non ci importa nulla dei grandi cambiamenti strutturali, poiché cinquant'anni di socialismo non hanno fondamentalmente cambiato nulla; non vogliamo più attendere per vivere in un modo diverso anche se ci si dice che le nostre micro-esperienze sono senza significato, marginali, e fanno il gioco della reazione".
Non si tratta qui di entrare nel merito del contenuto di queste esperienze, ma più semplicemente di mostrare che esse costituiscono un'altra via di approccio all'autogestione, che privilegia il processo di gestione collettiva in rapporto alle trasformazioni strutturali. E si può sperare o predire che le sue tendenze si fonderanno e si feconderanno reciprocamente. È da prevedere, al contrario, che le grandi organizzazioni che hanno inserito l'autogestione nel loro programma non si inaridiscano nei loro dibattiti sulle trasformazioni strutturali preliminari trascurando di orientare le riforme e le istituzioni che nascono sotto i nostri occhi e che, nell'ipotesi di un passaggio pacifico al socialismo, non saranno certo spazzati via in un sol colpo. Ad esempio, dove si sono inserite le preoccupazioni autogestionarie nell'elaborazione dei testi e, attualmente, nella pratica e nei contenuti della formazione permanente? Certo, l'esempio non sarà considerato da coloro che, ottenebrati dall'ondata marxista e dal suo privilegiare le trasformazioni strutturali, dimenticano sempre che è con gli uomini di oggi, limitati, male formati, ecc., che essi dovranno costruire il mondo di domani.
È noto che esiste una sorta di incapacità da parte di qualsiasi gruppo portatore di un progetto rivoluzionario, a studiare una riforma del presente ed anche ad analizzare seriamente ciò che nella realtà più si avvicina al modello ideale; poiché la realtà non è altro che una brutta copia del modello e attaccarsi ad essa intacca la purezza del mito e rischia di indebolire la sua funzione di mobilitazione.
Di fronte al massimalismo dei fautori dell'autogestione che sistemano per bene tutto il mondo a tavolino ed elevano il livello dei grandi dibattiti nazionali, di fronte a questi vi è il pragmatismo di coloro che cercano di far funzionare le loro strutture d'autogestione, di formare, di informare, di far partecipare, di adattare ciò che viene fatto altrove. Questo non ha niente di esaltante per l'intellettuale, anche se si tratta del problema più importante nel campo dell'autogestione. Un buon esempio di queste preoccupazioni ci fu dato nello scorso dicembre al colloquio tra i sociologi della autogestione tenutosi a Dubrovnik, in cui gli jugoslavi poterono finalmente discutere con i sociologi industriali americani, intervenuti molto numerosi, ricchi delle loro ricerche sul funzionamento delle organizzazioni.
Dialoghi da riformisti, si dirà con disprezzo, poiché sembra molto fine dimenticare che l'autogestione non è altro, una volta svestita del suo alone teorico, che una riforma del sistema centralizzato sovietico: riforma pragmatica e, nel caso iugoslavo, giustificata dopo la rottura con questo modello, e ideale di ricambio dopo la perdita di qualsiasi speranza in questo stesso modello nel caso francese. Del resto, se si guarda sufficientemente addietro, trascurando la fase violenta del cambiamento che sola forse merita la qualifica di rivoluzionaria, i frutti delle grandi rivoluzioni non appaiono forse come pallide riforme in rapporto alle aspirazioni degli uomini che le produssero? È vero che, vista la rigidità di struttura e le pesantezze sociologiche di alcuni paesi, la dinamica del cambiamento comporta la possibilità di un cambiamento totale.
Sebbene a differenza di altri miti mobilizzatori e generosi il sogno del socialismo autogestionario non si riferisse soltanto ad alcune "piccole riforme" o a delle semplici cogestioni, non sarebbe il caso di prestare attenzione a quella che ho chiamato gestione collettiva, di riflettere sul senso delle esperienze marginali di coloro che, da oggi, vogliono vivere diversamente e, nello stesso tempo, di penetrare nelle grandi imprese per analizzare concretamente il significato delle moderne tecniche di gestione (vedere ad esempio se la gestione partecipativa per obiettivi può essere applicata a livello di tutto il personale) (3) e i nuovi metodi di organizzazione del lavoro (ricomposizione dei compiti, personalizzazione degli orari, smantellamento della produzione a catena, ecc.), di suscitare degli studi empirici sulle autogestione esistenti, di incoraggiare tutte le autodifese e tutte le autogestioni spontanee, di riflettere su questi problemi per costruire una pratica autogestionaria nella e per la vita quotidiana? A dispetto del clamore esistente intorno ad essa, la rivendicazione autogestionaria appare ancora troppo fragile per poterla analizzare compiutamente. Ma i grandi movimenti dell'umanità non furono forse grandi proprio a causa della loro disconoscenza dei fatti e di un certo ordine del mondo che essi rifiutavano?

Albert Meister

(1) Le inchieste hanno d'altronde dimostrato che la natura della proprietà, collettiva o individuale, non influenza né la partecipazione né il clima di lavoro. Così, nelle cooperative operaie francesi, il fatto che gli operai detengano quote di proprietà (e spesso non sanno neppure in quale misura) sembra non incidere sulla gestione e non sopprime le difficoltà di funzionamento.

(2) Di questo costante aumento sono un'esempio minore anche se più appariscente le pensioni per turisti, mentre un ruolo ben più importante è giocato dagli intermediari, rappresentanti, mediatori privati, avvocati, liberi professionisti, tutte categorie queste la cui moltiplicazione è legata alla scomparsa delle funzioni di coordinamento prima esercitate dagli organismi di piano.

(3) È noto che in Jugoslavia non si sono potuti ottenere validi progressi nel campo dell'autogestione per l'arretratezza delle imprese in materia di tecniche di gestione (per questo una decentralizzazione delle strutture d'autogestione a livello di reparto non ha senso se l'apparato contabile non permette di fornire i dati per ogni singolo reparto).