Rivista Anarchica Online
Realtà e prospettive dell'"autogestione di
Stato"
in Jugoslavia
di Albert Meister
Uno stimolante saggio del sociologo francese Albert Meister. Polivalenza del termine "autogestione"
- L'autogestione cooperativa, quella socialista in economia di mercato e
quelle inserita in un'economia socialista di mercato: i controversi rapporti tra decentramento decisionale
e
pianificazione - Gli "artigiani" dello sfruttamento moderno - Dalla socializzazione dei mezzi di
produzione alla
costruzione dell'autogestione - Validità di un progetto "utopistico"
Albert Meister, l'autore di questo articolo, è un ricercatore
di sociologia all'Istituto di Studi dei Movimenti
Sociali presso l'Ecole Pratique des Hautes Etudes a Parigi. È autore di numerosi
saggi, uno dei quali ("Ou
va l'autogestion juogoslave?") ha il medesimo argomento trattato nelle pagine che
seguono. Meister non è un anarchico. In molti punti le nostre opinioni
discordano da quelle dell'autore: la stessa
impostazione "ideologica" della sua analisi non può trovarci d'accordo, per la mancanza di una
netta
distinzione tra i fenomeni di autogestione all'interno della logica del sistema e quelli che invece si
pongono
in un'ottica rivoluzionaria. La logica riformista e quella rivoluzionaria, infatti, sono assolutamente
inconciliabili e la tematica autogestionaria non sfugge a questa realtà. Abbiamo
giudicato valida comunque, la pubblicazione di questo articolo per l'interesse e l'originalità
dell'analisi che vi viene condotta in relazione agli sviluppi passati e presenti dell'autogestione in
Jugoslavia.
Nel linguaggio attuale la parola autogestione ha una notevole importanza, ma questo non impedisce
affatto che
i significati che le vengono attribuiti siano estremamente diversi: per alcuni, preoccupati dalla ricerca di
nuovi miti
capaci di mobilitare le masse, autogestione significa né più né meno che la fine
dello sfruttamento dell'uomo
sull'uomo, l'abolizione del salario, l'avvento di una "reale democrazia"; per altri, meno idealisti e
più inclini a
realizzazioni immediate, essa significa una semplice partecipazione a certe decisioni; per altri ancora,
attenti al
modo in cui le decisioni sono prese, essa si riduce al processo democratico, alla maieutica del consenso;
nel caso
più estremo si parla di autogestione quando i partecipanti ad un seminario di relazioni umane
decidono essi stessi
ciò che faranno durante i giorni in cui fuggono dalle imposizioni e dall'ineguaglianza delle loro
condizioni di
lavoro abituali. Infine, il lirismo di alcuni porta a domandarsi se l'autogestione non debba essere
considerata come
la manifestazione latina e "cartesiana" del revival religioso che ha accompagnato il
passaggio dei paesi
anglosassoni alla società dei consumi... Per vedervi più chiaro è necessario
innanzitutto distinguere bene le strutture dell'autogestione dal suo
funzionamento, poiché si possono trovare delle strutture democratiche il cui funzionamento non
è per nulla tale
e viceversa. Inoltre, poiché dopotutto la parola autogestione è un termine improntato alla
realtà, è necessario
cercare di vedere cosa significa laddove viene utilizzata, cioè a partire dall'analisi delle esperienze
che si
richiamano all'autogestione, partire dalla realtà e non dalla speranza di quello che l'autogestione
potrebbe essere
un giorno.
Strutture d'autogestione
La realtà ci offre tre tipi di strutture d'autogestione: - l'autogestione
cooperativa, cioè quella che si trova nelle cooperative del mondo occidentale, essendo
queste
imprese delle unità di proprietà e di gestione collettiva dei mezzi di produzione (i
lavoratori sono i proprietari e
il potere è legato alla persona e non al numero di quote detenute). Possono entrare in questo
schema i Kibbutz
israeliani che si trovano in un'economia liberale e prendono le loro decisioni in funzione del mercato.
Questo
schema è tuttavia molto teorico e l'osservazione dimostra che di fatto le cooperative di ogni tipo
(agricolo, di
produzione industriale, di credito, ecc.), vedono diminuire progressivamente la loro autonomia di
gestione
particolarmente a causa del credito, che è loro concesso dagli organismi centrali i cui posti di
comando sono
occupati da funzionari pubblici. Come si vedrà a proposito dell'attuale autogestione jugoslava,
il dirigente di
banca interviene nella gestione e le decisioni importanti non sono più di competenza della
democrazia aziendale.
Parlando della Francia, non è esagerato dire che l'intervento dello stato nel settore cooperativo
è forse più marcato
che non in Jugoslavia. - L'autogestione socialista in economia pianificata, creata in
Jugoslavia all'inizio del decennio 1950, è in realtà
una combinazione tra strutture democratiche aziendali, molto vicine, malgrado la socializzazione della
proprietà,
a quelle dell'autogestione cooperativa e una pianificazione economica. Il piano nazionale è
decentrato a livello
delle Repubbliche e, più in basso, a quello dei comuni. Di dimensione ben maggiore dei nostri
comuni
occidentali, i comuni jugoslavi esercitano un'autorità di pianificazione sul loro territorio e una
tutela sulle imprese.
Quanto al legame tra la democrazia aziendale e questa autorità di pianificazione, esso era a
quell'epoca
caratterizzato dall'elezione dei direttori di impresa da parte di una commissione mista comprendente
contemporaneamente membri del consiglio operaio dell'impresa in questione e dei rappresentanti degli
organi del
comune. Di fatto, questa autogestione è in realtà una cogestione, in cui lo stato detta le
"regole del gioco" poiché
è lui che in definitiva fissa la scala di ripartizione dei profitti di fine anno (che gli operai sperano
sempre di
dividersi...) e dunque limita certi poteri della democrazia aziendale; lo stato è, allo stesso modo,
l'unico a decidere
sul prelievo fiscale, sul controllo dei prezzi e sul credito. La democrazia aziendale è dunque
seriamente limitata
malgrado, teoricamente, la elaborazione del piano e delle politiche economiche debba risultare dal gioco
delle
proposizioni e contro-proposizioni delle diverse istanze e livelli in questione. Infatti durante tutto il
decennio
1950 questo sistema condusse a privilegiare l'aumento degli investimenti e la limitazione dei consumi.
Benché
i sentimenti di fraternità e di eguaglianza del dopoguerra abbiano facilitato questa limitazione dei
consumi, è stato
a volte necessario concedere un po' di "argent de poche" (l'espressione è dello
stesso Tito) affinché gli operai
avessero qualche cosa da decidere nelle loro assemblee di fine anno. - L'autogestione
nell'economia socialista di mercato. Dall'inizio degli anni '60 e particolarmente dopo le riforme
del 1965, i controlli statali diminuiscono e l'attuazione del piano è affidata al sistema bancario.
Non stiamo qui
ad esaminare le cause di questa trasformazione, di cui le più importanti sono, secondo me, la
progressiva
integrazione della Jugoslavia nell'economia occidentale e l'indebolimento dell'influenza ideologica (la
fede,
poiché è di questo che si tratta, nella costruzione di una società socialista), e
dunque l'emergere di tendenze
centrifughe in rapporto al progetto di una società nuova da costruire. Le strutture di democrazia
aziendale
sembrano rafforzate poiché i direttori sono attualmente nominati dai soli consigli operai.
Benché i prezzi di circa
la metà dei prodotti (soprattutto alimentari) siano ancora fissati dallo stato, esiste tuttavia una
certa forma di
concorrenza tra le imprese; sebbene gli investimenti pubblici non siano cessati, il credito segue sempre
più una
logica bancaria e si sviluppa secondo caratteri di redditività; i comuni hanno sempre meno
ascendente sulla
pianificazione economica. Infatti, gli jugoslavi parlano sempre più sovente del loro piano come
di un piano "alla
francese" e noi sappiamo quanto un tale piano possa non esser costrittivo per le imprese... In
apparenza, la democrazia d'autogestione esce rafforzata dall'indebolimento della pianificazione. Ma
questo è
vero solo sul piano delle strutture; su quello del funzionamento, infatti, ci si accorge che, come ovunque,
il
dirigente di banca, come qualsiasi altro finanziatore (e in Jugoslavia può trattarsi del socio
straniero di una Joint-venture o anche di un risparmiatore privato di nazionalità
jugoslava), desidera limitare il rischio del suo
investimento controllando la sua utilizzazione e dunque intervenendo più o meno direttamente
nella scelta dei
dirigenti dell'impresa. Oggi si può cadere in errore per la rassomiglianza esistente fra questo
tipo di autogestione e l'autogestione
cooperativa in un paese come la Francia, e questo malgrado il fatto che la proprietà nel primo
caso sia nazionale
(1). Il rapporto alle economie occidentali, in cui i settori cooperativi sono molto deboli, l'economia
jugoslava di
mercato si distingue sempre per la dimensione del settore autogestito, malgrado un settore privato in
costante
aumento (2) e, soprattutto, malgrado sempre più sentite aspirazioni a consumi e realizzazioni
individuali. Queste tre distinte strutture di autogestione possono dunque essere ricondotte a due,
quella in economia
pianificata e quella in economia di mercato. È utile ancora dimostrare che la scelta dell'una o
dell'altra non è
libera. Se la creazione del primo tipo di autogestione aveva avuto come scopo di fare esplodere la
centralizzazione
e la burocratizzazione dell'apparato centrale di pianificazione, non era certo meno vero che lo stato
intendeva
restare il padrone dell'economia. Decentralizzato e concertato con le varie imprese, il piano si avvicinava
al
popolo, ma continuava ad essere considerato, come nella migliore tradizione sovietica, il simbolo del
ruolo
direttivo giocato dallo stato nell'economia. Questa opinione era istituzionale, un po' come nei nostri paesi
alcuni
considerano ancora le nazionalizzazioni come il segno tangibile di una avanzata verso il
socialismo. Al contrario, l'autogestione in economia di mercato non ha più un piano a cui
fare riferimento, bensì una
moltitudine di organismi di soci e di centri decisionali che orientano le sue decisioni a seconda di politiche
economiche più o meno chiaramente definite. E queste scelte vengono prese proprio nel
momento in cui il piano
appare come uno strumento troppo grossolano per dirigere la crescita di un'economia sempre più
complessa. È
dunque, in definitiva, il grado di sviluppo dell'economia che detta le scelte delle strutture autogestionarie.
Tale
osservazione è meno banale di quanto non appaia se si tiene conto della pluralità dei
centri decisionali in
un'economia moderna che travalica largamente le frontiere nazionali, in cui le vecchie distinzioni tra
l'economia,
il sociale, il politico, sono sempre meno nette e in cui i sistemi di interdipendenza tra i vari soggetti sono
tanto
complessi quanto fragili. Con l'eccezione di circostanze particolari (guerre, catastrofi) che
obbligherebbero tale
società a riesaminare le sue fondamenta, e al di fuori dell'ipotesi rivoluzionaria, i possibili
cambiamenti non
dovrebbero essere che degli assestamenti, delle riparazioni, delle correzioni di dettagli. La stessa visione
di
insieme non è più possibile e questo anche perché i piani nazionali, che
pretendono di coprire tutto il futuro
nazionale, restano senza effetto. Da ciò il ricorso a politiche parziali o settoriali più o
meno contraddittorie,
puramente pragmatiche, elaborate via via in risposta alle circostanze e che una tecnocrazia giovane e
ancora nella
sua fase di conquista degli apparati non ha la modestia di riconoscere che si tratta spesso di indecisioni,
esitazioni,
ecc. Se si tiene conto del contesto, e a scapito dell'entusiasmo e delle grosse ambizioni dei suoi
protagonisti, è
necessario riconoscere che la ricerca di strutture di autogestione è accodata al riformismo: si tratta
essenzialmente
di trovare dei mezzi per democratizzare l'elaborazione e il controllo delle politiche economiche e sociali
(a
condizione, però, che si siano localizzati e identificati - cosa che non è sempre facile -
i luoghi e gli organismi
responsabili) e rafforzare e sistemare le strutture di partecipazione nelle imprese. Resterà poi il
problema di far
vivere queste strutture, cosa che, nel lungo periodo, appare come il problema fondamentale.
Il funzionamento dell'autogestione
Se la struttura dell'autogestione gioca un ruolo determinante come cornice della democrazia
economica, essa non
è però una condizione sufficiente e l'osservazione ci mostra a volte imprese autogestite
che non sono altro che
imprese padronali travestite e interi settori di autogestione che non sono altro che organi di trasmissione
delle
decisioni del piano nazionale. È inoltre necessario distinguere i problemi a livello delle imprese
da quelli che
emergono dall'inclusione delle imprese in un sistema pianificato. A livello di impresa, le condizioni di
funzionamento della democrazia d'autogestione sono ben conosciute e si possono fare alcuni
riferimenti: - Qualunque sia il tipo di autogestione, i fondatori hanno sempre creduto che
l'eliminazione del conflitto di classe
grazie alla socializzazione dei mezzi di produzione sarebbe stata sufficiente a risanare, a trasformare i
rapporti
di lavoro. S'è però potuto constatare l'esistenza di altri conflitti sociali che,
precedentemente, tendevano ad essere
nascosti dal conflitto padrone-operai: una volta che l'uguaglianza formale è realizzata le
disuguaglianze naturali
appaiono più evidenti e sono proprio queste disuguaglianze che danno vita a nuove stratificazioni
sociali a volte
tanto odiose quanto quelle che si fondavano sul denaro. È allora il trionfo dei più
intelligenti che, al potere, sono
raramente i più umani; o il regno dei più conformisti riguardo alle ideologie ufficiali; o
quello dei compagni eletti
ai posti di responsabilità grazie alla loro popolarità nelle fabbriche; o quello dei
più intraprendenti, il cui spirito
di iniziativa sarà più utile all'aumento degli investimenti che non alle procedure
democratiche, o ancora il
miscuglio di questi quattro (o più) tipi di uomini - cosa che, agli occhi del democratico focoso,
come del filosofo
disilluso non è forse un miscuglio detonante ma almeno una garanzia contro l'arbitrio. -
qualunque sia questo dosaggio e la benevolenza del potere nell'impresa e il suo rispetto delle regole del
gioco
democratico, tutto ciò non impedisce, col passare del tempo, che esso si cristallizzi e, a volte a
sua stessa insaputa,
si opponga ai rinnovamenti, invocando le regole dell'efficienza come ostacoli alla rotazione e alla nomina
di
uomini nuovi nelle équipes direttive. È sempre impopolare denunciare
questa tendenza, tanto più che in tale
modo sembra di attaccare i protagonisti dell'autogestione che sono per la maggior parte del loro tempo
uomini
di apparato, minacciati costantemente dall'applicazione del principio della rotazione. Pure, se si desidera
parlare
seriamente del funzionamento dell'autogestione, sarà necessario un giorno osare disseppellire
questa irritante e
vecchia "ferrea legge dell'oligarchia" sostenuta dal sociologo Robert Michels, ed esaminare lucidamente
ciò che
essa significa. - Constatiamo anche che di fronte a questi capi più inclini a rientrare nei
ranghi, la base generalmente è molto
felice di "dare la sua fiducia, di lasciarsi guidare". La famiglia, la religione, la scuola, non servono forse
ad
abituare a "stare al proprio posto" e ad obbedire ai capi? Non è esagerato ammettere come
possibile l'ipotesi che
una parte delle difficoltà della democrazia d'autogestione (come d'altronde delle altre forme di
democrazia)
derivano dalle abitudini alla sottomissione inculcata da queste istituzioni. A livello di complessi di
aziende sorgono altri problemi di funzionamento: - nel caso di autogestione in economia pianificata,
molti compiti di collegamento e di coordinamento sono svolti
dalla amministrazione, e si sa quanto soffrano i Paesi socialisti dei loro burocrati. Per quanto riguarda
la
Jugoslavia, si è anche avanzata l'ipotesi che il ricorso al principio della concorrenza tra imprese
sia stato il solo
modo per liberarsi della tutela dell'amministrazione. - Se, al contrario, l'autogestione tocca
un'economia di mercato, la necessità di legami, di coordinazione tra le varie
imprese fa nascere degli intermediari di tutte le specie, agenti, consiglieri, rappresentanti, mediatori, ecc.
Questi
intermediari dispongono di un grande potere nelle imprese, anche se queste li considerano come semplici
parassiti,
voraci di onorari e di commissioni. E più l'economia è complessa, più questa
schiera di intermediari aumenta di
numero e di influenza. Tuttavia, poiché queste persone "non sfruttano" un personale numeroso
(tuttalpiù qualche
segretaria) e non dispongono di un grande capitale fisso (un telefono, un telex), essi sono considerati
come degli
artigiani (come nel caso iugoslavo) e non sono obbligati ad autogestire i loro uffici. Tuttavia se li
esaminiamo bene
essi sono forse "gli artigiani" dello sfruttamento moderno dell'uomo sull'uomo, quello che nasce dal
sapere, dal
possesso delle informazioni, delle conoscenze e della capacità di organizzare. Essi sono il
prodotto di
un'economia che si è cercata di rendere più dinamica; essi sono nello stesso tempo,
creatori e creature di questo
dinamismo. E tutta la storia recente dell'autogestione jugoslava e dei tentativi di riprendere in mano
l'economia
tendeva a dimostrare che se è possibile autogestire le fabbriche e le istituzioni, non si può
arrivare ad autogestire
la forza che né è animatrice, il dinamismo dello sviluppo. Le comunicazioni tra le
imprese e le istituzioni di piano, malgrado siano state frenate dall'amministrazione, non
hanno subito altre distorsioni se non di ordine burocratico. L'autogestione pianificata degli anni '50 era
concepita
come un mezzo per realizzare un progetto di società, l'ideologia cui si richiamava non era
contestata né lo era il
gruppo che ne era il portavoce. E noi abbiamo sufficienti testimonianze per dimostrare che quando una
nuova
direttiva di piano rischiava di essere mal accolta dalle direzioni o dai consigli operai di imprese, era
generalmente
sufficiente fare intervenire il segretario locale del partito per far accettare la direttiva proposta. In altri
termini,
l'unità che il piano conferiva all'economia era rafforzata da una unità ideologica, il cui
veicolo era un unico
apparato di mobilitazione. La nostra ricerca dovrebbe, credo, chiedersi se questa nuova regola delle tre
unità è
applicabile nelle società pluraliste. A questo proposito alcuni hanno sognato e parafrasato
Lenin dichiarando: autogestione+computer= socialismo.
Grazie ai terminali dei calcolatori elettronici e ai loro centri gli uomini potranno decidere sul campo le
differenti
politiche economiche che saranno loro sottoposte e di cui il computer mostrerà loro i costi e le
implicazioni. Così
sarebbero conciliati il pluralismo delle opinioni e delle tendenze politiche con una certa unità nelle
scelte
economiche. Ci si è dimenticati, però, di parlare del terzo elemento di unità che,
nella situazione precedente, era
il partito e che, attore invisibile di questo sogno riconciliatore, prepara i programmi e controlla quindi il
computer-idolo. Così come gli audiovisivi, in cui si era molto sperato, non sono serviti a nulla
in materia di educazione, così il fatto che la democrazia sia stata molto malmenata durante
quest'ultimo decennio non giustifica che si continui a riporre speranze in nuovi strumenti? Far funzionare
delle strutture
d'autogestione:
è così che ci si è sempre posti il problema. Molto più raramente si
è cercato di formare delle attitudini
autogestionarie e di vivere l'autogestione prima di costruirne le strutture. Questa strada sarebbe
possibile?
Gestione collettiva e autogestione
Nel corso degli anni '50 alcune imprese jugoslave ricorsero all'intervento di istituti occidentali
specializzati nella
formazione del personale e nello studio delle relazioni umane nell'impresa. Anche nelle strutture
democratiche
aziendali era necessario mettere dell'olio negli ingranaggi, formare i dirigenti, instaurare nuove relazioni
interpersonali tra i quadri, tra i dirigenti e gli esecutori, perché la trasformazione delle strutture,
l'abolizione della
proprietà individuale dei mezzi di produzione, non sembravano, e non sembrano ancora, aver
modificato le
attitudini dei capi, l'autoritarismo nelle relazioni di lavoro. A quell'epoca questo fatto era passato
inosservato e si può anche dire che, distolti dall'idea che fossero più
importanti le trasformazioni strutturali, gli osservatori non l'avevano del tutto notato. Si è divenuti
più attenti
successivamente ed è così che si è rilevata la persistenza di relazioni molto
autoritarie nelle famiglie, anche di
coloro che da molti anni sono inseriti nel processo decisionale dell'azienda e partecipano all'autogestione.
Inoltre,
malgrado le scuole siano autogestite, si è notato il tradizionalismo nei metodi di insegnamento
e la distanza tra
insegnanti ed allievi. Se la socializzazione dei mezzi di produzione può sempre essere considerata
come un
preambolo necessario per creare strutture d'autogestione, questi fatti indicano chiaramente che queste
trasformazioni "non cambiano il modo di vivere" quotidiano, non modificano la qualità dei
rapporti sociali. Certo,
i teorici hanno senza dubbio ragione quando dicono che le trasformazioni nelle infrastrutture
determinano dei
cambiamenti nel modo di essere, di sentire, di vivere insieme. Ma questo va bene per il lungo, troppo
lungo
termine, mentre sempre più, e soprattutto dopo il '68, si vuole mutare continuamente e
velocemente la qualità della vita. In opposizione all'autogestione strutturata sin qui esaminata,
parlerò ora di tentativi di gestione collettiva per indicare alla base queste ricerche, tanto numerose
quanto mal indirizzate,
per
cambiare la qualità dei rapporti quotidiani: comuni più o meno durature, incontri durante
le vacanze, gruppi di
quartiere e di consumo, raggruppamenti effimeri, collettivi di scioperi selvaggi, bande più o meno
delinquenti,
classi di insegnamento reciproco, celebrazioni religiose senza preti, famiglia aperte, ecc. In tutti questi
tentativi
il tratto comune è la volontà di sperimentare un tipo di vita diverso e, detta crudamente,
la motivazione è la
seguente: "non ci importa nulla dei grandi cambiamenti strutturali, poiché cinquant'anni di
socialismo non hanno
fondamentalmente cambiato nulla; non vogliamo più attendere per vivere in un modo diverso
anche se ci si dice
che le nostre micro-esperienze sono senza significato, marginali, e fanno il gioco della
reazione". Non si tratta qui di entrare nel merito del contenuto di queste esperienze, ma più
semplicemente di mostrare che
esse costituiscono un'altra via di approccio all'autogestione, che privilegia il processo di gestione collettiva
in
rapporto alle trasformazioni strutturali. E si può sperare o predire che le sue tendenze si
fonderanno e si
feconderanno reciprocamente. È da prevedere, al contrario, che le grandi organizzazioni che
hanno inserito
l'autogestione nel loro programma non si inaridiscano nei loro dibattiti sulle trasformazioni strutturali
preliminari
trascurando di orientare le riforme e le istituzioni che nascono sotto i nostri occhi e che, nell'ipotesi di
un
passaggio pacifico al socialismo, non saranno certo spazzati via in un sol colpo. Ad esempio, dove si sono
inserite
le preoccupazioni autogestionarie nell'elaborazione dei testi e, attualmente, nella pratica e nei contenuti
della
formazione permanente? Certo, l'esempio non sarà considerato da coloro che, ottenebrati
dall'ondata marxista
e dal suo privilegiare le trasformazioni strutturali, dimenticano sempre che è con gli uomini di
oggi, limitati, male
formati, ecc., che essi dovranno costruire il mondo di domani. È noto che esiste una sorta
di incapacità da parte di qualsiasi gruppo portatore di un progetto rivoluzionario, a
studiare una riforma del presente ed anche ad analizzare seriamente ciò che nella realtà
più si avvicina al modello
ideale; poiché la realtà non è altro che una brutta copia del modello e attaccarsi
ad essa intacca la purezza del
mito e rischia di indebolire la sua funzione di mobilitazione. Di fronte al massimalismo dei fautori
dell'autogestione che sistemano per bene tutto il mondo a tavolino ed
elevano il livello dei grandi dibattiti nazionali, di fronte a questi vi è il pragmatismo di coloro che
cercano di far
funzionare le loro strutture d'autogestione, di formare, di informare, di far partecipare, di adattare
ciò che viene
fatto altrove. Questo non ha niente di esaltante per l'intellettuale, anche se si tratta del problema
più importante
nel campo dell'autogestione. Un buon esempio di queste preoccupazioni ci fu dato nello scorso dicembre
al
colloquio tra i sociologi della autogestione tenutosi a Dubrovnik, in cui gli jugoslavi poterono finalmente
discutere
con i sociologi industriali americani, intervenuti molto numerosi, ricchi delle loro ricerche sul
funzionamento
delle organizzazioni. Dialoghi da riformisti, si dirà con disprezzo, poiché sembra
molto fine dimenticare che l'autogestione non è altro,
una volta svestita del suo alone teorico, che una riforma del sistema centralizzato sovietico: riforma
pragmatica
e, nel caso iugoslavo, giustificata dopo la rottura con questo modello, e ideale di ricambio dopo la perdita
di
qualsiasi speranza in questo stesso modello nel caso francese. Del resto, se si guarda sufficientemente
addietro,
trascurando la fase violenta del cambiamento che sola forse merita la qualifica di rivoluzionaria, i frutti
delle
grandi rivoluzioni non appaiono forse come pallide riforme in rapporto alle aspirazioni degli uomini che
le
produssero? È vero che, vista la rigidità di struttura e le pesantezze sociologiche di alcuni
paesi, la dinamica del
cambiamento comporta la possibilità di un cambiamento totale. Sebbene a differenza di altri
miti mobilizzatori e generosi il sogno del socialismo autogestionario non si riferisse
soltanto ad alcune "piccole riforme" o a delle semplici cogestioni, non sarebbe il caso di prestare
attenzione a
quella che ho chiamato gestione collettiva, di riflettere sul senso delle esperienze marginali di coloro che,
da oggi,
vogliono vivere diversamente e, nello stesso tempo, di penetrare nelle grandi imprese per analizzare
concretamente
il significato delle moderne tecniche di gestione (vedere ad esempio se la gestione partecipativa per
obiettivi può
essere applicata a livello di tutto il personale) (3) e i nuovi metodi di organizzazione del lavoro
(ricomposizione
dei compiti, personalizzazione degli orari, smantellamento della produzione a catena, ecc.), di suscitare
degli studi
empirici sulle autogestione esistenti, di incoraggiare tutte le autodifese e tutte le autogestioni spontanee,
di
riflettere su questi problemi per costruire una pratica autogestionaria nella e per la vita quotidiana? A
dispetto
del clamore esistente intorno ad essa, la rivendicazione autogestionaria appare ancora troppo fragile per
poterla
analizzare compiutamente. Ma i grandi movimenti dell'umanità non furono forse grandi proprio
a causa della loro
disconoscenza dei fatti e di un certo ordine del mondo che essi rifiutavano?
Albert Meister
(1) Le inchieste hanno d'altronde dimostrato che la natura della proprietà, collettiva o
individuale, non influenza
né la partecipazione né il clima di lavoro. Così, nelle cooperative operaie francesi,
il fatto che gli operai detengano
quote di proprietà (e spesso non sanno neppure in quale misura) sembra non incidere sulla
gestione e non
sopprime le difficoltà di funzionamento.
(2) Di questo costante aumento sono
un'esempio minore anche se più appariscente le pensioni per turisti, mentre
un ruolo ben più importante è giocato dagli intermediari, rappresentanti, mediatori
privati, avvocati, liberi
professionisti, tutte categorie queste la cui moltiplicazione è legata alla scomparsa delle funzioni
di
coordinamento prima esercitate dagli organismi di piano.
(3) È noto che in Jugoslavia
non si sono potuti ottenere validi progressi nel campo dell'autogestione per
l'arretratezza delle imprese in materia di tecniche di gestione (per questo una decentralizzazione delle
strutture
d'autogestione a livello di reparto non ha senso se l'apparato contabile non permette di fornire i dati per
ogni
singolo reparto).
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