Rivista Anarchica Online
Crisi della militanza o militanza della crisi
di G. L. Pascarella
Crisi della militanza quante vittime furono immolate in tuo nome sull'altare della
rivoluzione bella e vendicatrice! Quanti leaders hai reso orfani della corte dei miracoli.
Almeno in numero pari ai cultori dello "svaccamento" che hai partorito!
Quante ottuse e fideistiche certezze hai cancellato, quante liturgiche assemblee di partitini
hai disperso al vento della fantasia. Strano davvero il tuo destino: irradiata dal più sfrenato
desiderio della felicità, della gioiosa scoperta della soggettività creativa, hai finito per
codificare nel tuo nome le angosce di una moltitudine di non garantiti in postpubertà e di
qualche canuto Gondrano attanagliato da chissà quali turbamenti.
Crisi della militanza o militanza della crisi? Si è dovuti ricorrere ad una Ode per
aggiungere un quid alle celebrazioni della "crisi". Poche settimane orsono due case editrici
si sono contese senza lesinare colpi di pubblicazione di alcune centinaia di lettere ad un
giornale che edifica un muro del pianto quotidiano. Della povertà culturale del "compagno
sconvolto", del suo linguaggio multisignificante quanto vacuo s'è dovuto stilare un
dizionario. Filmare impietosamente un gruppo di "militanti in crisi", spiarli nella patetica
routine sinistrese, ha coinciso con l'avvenimento cinematografico dell'anno. Dovendo
perciò rispondere alla legittima domanda sulla qualità e l'entità "della crisi fra compagni"
con una totale adesione al principio che vuole forma e contenuto in perfetta sintesi
dovremmo iniziare con cazzo compagni, cioè sto male, sento vibrazioni negative.... Ma
forse è opportuno transigere sulla coincidenza fra significato e significante e interrogarsi
sui connotati di questo stato d'animo.
Già perché di stato d'animo si deve parlare: almeno all'inizio del fenomeno, questa
conclamata crisi altro non ha significato che la fotografia del meravigliato sconcerto di una
generazione di adolescenti che nell'andare a scoprire e cambiare il mondo, come peraltro
compete al suo stadio evolutivo, ha percepito che i modi e le grammatiche tracciate da chi
li aveva preceduti erano avvizzite come le tette delle rivoluzioni disegnate in stile liberty
dalla iconografia socialista, rivoluzioni che apparivano sempre più mitiche.
E proprio per il suo connotato di contingenza (che gli deriva dall'essere un "sentimento")
ci sarebbe da chiedersi se la scoperta del personale e il rifiuto della organizzazione feticcio
abbiano veramente cambiato la soggettività dei singoli nel rapporto con il movimento,
abbiano ricucito la smagliatura fra le miserie della quotidianità e l'Utopia rivoluzionaria, o
se la crisi della militanza altro non sia se non l'ennesima manifestazione subculturale di chi
ha fatto della propria condizione precaria una mistica.
Fra tutte le sue controverse manifestazioni, alla "crisi" va riconosciuto il merito di avere
fatto piazza pulita della concezione afflittiva dell'intervento politico. Spronati
dall'imperativo categorico, dal richiamo messianico di "farsi il culo" migliaia di militanti
hanno vissuto ogni loro gesto con spirito autopunitivo. Turbati da reconditi sensi di colpa,
credendosi Cristi reincarnati e perciò sintesi di tutti i mali dell'umanità, segnarono ogni
loro aspirazione a centellinare autoflagellazioni fatte di levatacce mattutine per distribuire
volantini ad operai rintronati non solo dal sonno, condannandosi ad espiazioni nelle
sedi/santuari con iterative ed interminabili riunioni.
Ma che importanza aveva se la classe si mostrava impermeabile, se le riunioni si
trascinavano sempre più penosamente, di fronte alla malcelata gratificazione di una
masochistica vocazione al martirio che scandiva l'esistenza dell'agit-prop. Ma non si fa a
tempo a finire di considerare positivamente l'avvento della "crisi" che viene da chiedersi se
l'abbandono della militanza severa e totalizzante non abbia lasciato il posto ad una
mentalità comportamentale all'insegna "del menarsela". All'attestazione collettiva di fede
nell'organizzazione come "fuori di sé" si è sostituita, col sopravvento del personale sul
politico, la liturgia del piangersi addosso, dell'accettazione fatalistica delle proprie
contraddizioni che si confessano pubblicamente senza la più pallida tensione al cancellare
ma tuttalpiù ad alleviare le proprie sofferenze con gli artifizi dell'"arte di arrangiarsi".
Appare perciò lecito domandarsi quali modelli culturali abbiano preso il posto della
militanza da travet; fino a che punto la "crisi" abbia elaborato nuovi esperimenti
esistenziali e non si sia più semplicemente limitata a cambiare di/segno senza entrare nel
merito della sostanza dei dogmi, delle facilonerie, dei luoghi comuni così cari ad una certa
sinistra.
Prendiamo ad esempio la mentalità manichea della divisione fra buoni e cattivi, fra
borghesi panciuti e operai emaciati, cavallo di battaglia della subcultura di sinistra. Chiaro
che oggi la dedizione assoluta al mito della subordinazione alla classe operaia per molti è
venuto a cadere, ma si va sempre più affermando la contrapposizione di simboli vacui e
indefinibili come lo stato satanico e l'individuo "spappolato". Accostiamoci al problema
dell'emarginazione e della sua riproduzione meccanica all'interno dei microcosmi
rivoluzionari. Quanti fiumi di inchiostro si sono versati per gridare omosessualità liberate
dall'astio e dal disprezzo "degli stessi compagni". Forse troppi, visto che oggi
paradossalmente si rischia l'abiura se non si proclama una pubblica professione di
omosessualità più o meno latente. Lo stesso dicasi per i ruoli fra i sessi: si pensi a processi
revanscisti messi in atto da gruppi di femministe nei confronti di compagni "sciovinisti", rei
di non adeguarsi ai codici di comportamento ratificati dalla visione femminile del mondo.
Si pensi all'isolamento cui è condannato chi non si fuma lo spinello, fino a qualche mese
prima deprecato perché motivo deviante dall'impegno militante.
Non è con le comode schematizzazioni che nascondono le proprie miserie, con i semplici
ribaltamenti delle concezioni e delle pratiche che si producono gesti rivoluzionari. Tutto
questo non è saccente moralismo. L'ideologizzazione del vittimismo, il crogiolarsi nello
smarrimento, la filiazione ad un "movimento" dai contorni mal designati, ma comunque
dispensatore di ricompense, non possono che portare alla creazione se non di leaders
conclamati (dopo la crisi della militanza non più à la page) senz'altro a sudditanze
collettive e a psicologie gregarie. Pontificare la crisi significa creare i presupposti per la
codificazione di condizioni di subalternità e di emarginazione.
Ci sono prove a conferma del fatto che la gente tende a reagire positivamente ai modelli
di leadership autoritaria quando è emozionalmente insicura, o si trova in una situazione
sociale ambigua e critica. Si ricorderà che una delle funzioni del leader è di sollevare
l'individuo dalla responsabilità di prendere decisioni: queste asettiche riflessioni di un
gruppo di psicologi americani sui meccanismi di leadership non si possono relegare nei
laboratori dell'università di psicologia. Sono un pesante monito che grava sulle teste degli
strateghi della disgregazione del personale, dei sacerdoti delle liturgie
dell'autocommiserazione, dei cantori della vanità di ogni pulsione rivoluzionaria.
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