Rivista Anarchica Online
Bakunin è vivo e viene a ombre insieme a noi
Se i tempi difficili sono la caratteristica per la vita di città nondimeno lo sono in paesucoli, veri
e propri microcosmi nei quali si possono individuare tutte le caratteristiche che in altri contesti
farebbero notizia. Un esempio luminoso (si fa per dire) è costituito da questo normotipo di
paese, che, umile in tutti i suoi connotati di provincia e immodesto nella sua presunzione di
voler essere cittadina o comunque punto di riferimento, non offre alcuna possibilità di lavoro,
fatta eccezione per un'ospedale (centro di raccolta per raccomandati) e una manciata di uffici di
avvocati con la puzza al naso e di rapaci progettisti. La gente, gli autoctoni, divisi tra una D.C.
grassa e padronale e un P.C.I. ottuso e pronto al balzo, rincorrono o le feste dell'Unità o il
cinema a masticar caramelle in perenne erezione alla vista delle "Ragazze Pon Pon" e altri
similari films d'avanguardia.
È un povero paese stracolmo di squallidi bar che ingoiano sia il medico cagone sia l'operaio
affetto da raucedine di Marghera. La scuola, che altrove costituirebbe motivo di pericolo per
benpensanti, caramba e vergini di maria, qui altro non è che un allegro fluttuare di giovani in
jeans e ragazzine ricciute. Ma gli Anarchici, questi esseri cupi barbuti e asimmetrici, in quali
tuguri, in quali oscuri anfratti tramano le loro notti sanguinarie e sulfuree? Ahimè compagni,
gli anarchici erano, scusate la coniugazione, erano ripeto una forza a di poco notevolissima in
termini numerici, pensate all'incirca 50 persone, compresi ovviamente i vari cani-sciolti, i
frikkettoni e tutti coloro che bene o male si ritrovano nel Rosso-Nero. E adesso? Adesso la
cornucopia si è svuotata e in fondo ci rimane un po' d'odor di scorregge e niente di più.
Ma tentiamo una approssimazione di analisi, più seria e meno enfatica. Dolo, tale è il nome di
questo lazzaretto, è un paesucolo come tanti altri, che stranamente riuscì a partorire un certo
nugolo di compagni, forse a causa degli echi di un '68 qui giunto in ritardo, o forse per gli
scompigli di Marghera e Padova, ma non credo interessino molto i perché, ma i come e i cosa.
Allora questa congerie di persone, solita nel ritrovarsi al bar e ai giardini, dove tutte le sere
d'estate ci si incontrava a parlar di tutto e a strimpellare chitarre alla luna, su quella piazzetta
piena di scritte, di manifesti, di murales, di gente che andava e veniva, su tutto questo,
l'ectoplasma di Mikail vegliava bonario e sornione. Adesso la piazzetta che chiamammo Sacco e
Vanzetti è vuota, restano solo gli anacoreti del buco e dello spinello (e sono sempre in di più),
solo quelli si attardano a ragionare sulla qualità dei prodotti, e dei loro strani business quasi
fossero a Wall Street. E sì che di cose ne erano state fatte, non voglio tediarvi con il racconto
dei chilometri di manifesti o di quintali di volantini, neanche della vendita militante alle scuole,
dei murales fatti di notte con la pila, degli enormi striscioni appesi al pennone della bandiera,
delle interminabili assemblee, degli scazzi, delle diverse prese di posizione, delle baruffe su tutto
e tutti e quanta gente veniva, rimaneva un po' e poi se ne andava via.
Siamo stati gli specialisti della saltuarietà, delle cose eclatanti, delle catene alle porte della
chiesa e del municipio, della manifestazione strabiliante "per un paese così piccolo" con 250
persone che riempivano le strade e testimoniavano solo la loro disperazione, guardati dai
balconi dalla gente impaurita, felici di strafare, donchisciotteschi nel lanciarsi in 20 contro i
10.000 del P.C.I. ma anche questo era bello. Diventano belli anche i ricordi di naja quando si è
vecchi. E la festa dei tre giorni di "libertà e autogestione", quell'estremo sacrificio all'altare
dell'autoghettizzazione dove finalmente si sarebbe espressa la massima partecipazione, e invece
fu la folle corsa al palco a sbatacchiare tumbe o i panini, come si va al bar, si fa l'ordinazione
poi si paga, per non dire della scarsa partecipazione ai momenti culturali, che infastidivano
notevolmente la banda degli estatici business-men. La popolazione quella volta per fortuna
rispose in modo positivo e vi cito un esempio: ero fuori del campo sportivo (lì si teneva la festa),
e assonnato e carico d'anni e di capelli pensavo ai cazzi miei: passa un vecchio in bicicletta "oh
immagine oleografica di vecchio compagno picciiotto" e quello mi guarda e grida stravolto
"onto, sporco singano, ndè casa ndè lavorare etc.", in quel momento capii che le nostre
tematiche erano riuscite ad insinuarsi nella mente degli sfruttati della zona, e io estasiato e
scontroso ne raccoglievo le messi.
Adesso il panorama è cambiato, le A sbiadiscono sui muri, la banca, la nostra vecchia bacheca
è pulita come non mai e certo ci sarà chi si domanda: ma questi Anarchici sono dunque morti?
O sono confluiti armi e bombolette nel P.S.I. (leggi Proudhon); no compagni, la fiaccola brilla
ancora, forse un po' nascosta nel forno di una pizzeria, magari ci cuociono le pizze, o nascosta
dietro il bancone di un bar o di tante altre botteghe, perché i compagni hanno finalmente
trovato la risposta alla loro intima istanza libertaria e l'hanno convogliata tutta e nell'affettare
mortadelle, chi a far 4 stagioni e chi come il sottoscritto, che inebetito dagli avvenimenti e da
una natura matrigna, si atteggia a pseudo-studioso (la qualità dello scritto vi confermerà come
tale atteggiamento sia privo di giustificazione), e a coscienza delle botteghe altrui.
Adesso cosa aspettiamo? Forse che passi la banda del Matese sperando abbiano fame e sete e
soldi per pagare. La colpa a chi addurla? Ma, forse ai... G.A.F.!
Un triste saluto anarchico,
Urso
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