Rivista Anarchica Online
Autogestione
a cura della Redazione
In preparazione del convegno internazionale sull'autogestione, che si terrà a Venezia dal 28 al 30
settembre (non a metà ottobre, come precedentemente comunicato), si è tenuto a Milano il 4
marzo scorso un seminario di studio preparatorio al convegno di Venezia.
Coerentemente con la struttura "aperta" prevista per il convegno - diviso in cinque sessioni
consecutive, ognuna centrata su un tema e strutturata come un seminario aperto - si è voluto
offrire, con questo seminario, uno spazio di discussione preliminare, con l'obiettivo di far
emergere le tematiche più "sentite" e di metterle bene a fuoco. I partecipanti (una cinquantina),
divisi in mattinata in quattro "commissioni" quindi nel pomeriggio riuniti in assemblea, hanno
discusso vivacemente e, quel che più conta, quasi tutti hanno preso la parola - almeno nelle
rispettive commissioni. Com'era prevedibile, non si è potuto che iniziare una prima
sistematizzazione della materia, tanto che ci si è riconvocati per un nuovo seminario di studio da
tenersi sempre a Milano in giugno.
In queste pagine pubblichiamo sintetici resoconti dei lavori delle quattro commissioni, nonché -
come contributo all'approfondimento delle esperienze storiche dell'autogestione - un saggio
della studiosa ungherese (residente in Francia) Suzanne Körösi sui consigli operai ungheresi del
1956.
Contro l'economia
Gli intervenuti si sono innanzitutto accordati su alcune premesse "metodologiche". Hanno cioè
convenuto che il "problema economia" in una società autogestita non deve essere visto come un
esame delle "leggi" che regolano la produzione, la distribuzione e i rapporti che si instaurano
fra i soggetti nel corso della produzione e della distribuzione. Anzi, negando una validità
immanente alle leggi stesse, hanno ritenuto che l'economia debba essere considerata come uno
degli strumenti per soddisfare i bisogni materiali dell'uomo. Si è riconosciuto comunque che dati
determinati presupposti i rapporti economici seguono una precisa dinamica, analizzata e
descritta dalle "leggi economiche".
Sulla base di queste considerazioni si devono esaminare i rapporti economici che si instaurano
in una società autogestita per non permettere il ritorno a uno sfruttamento di tipo capitalistico,
né tanto meno per contribuire alla formazione e al consolidamento di una nuova variante dello
sfruttamento tecnoburocratico.
Successivamente la commissione ha potuto solo impostare a grandissime linee la problematica
dei rapporti all'interno dell'unità produttiva e alla sua dimensione. Così come è stato solo posto
il problema dei rapporti tra unità produttive e tra queste e consumatori e cioè se questi rapporti
debbano venire regolati da decisioni stabilite da un "piano economico" oppure essere
determinati automaticamente dai meccanismi del mercato.
Quali pericoli sono insiti nell'uno e nell'altro sistema è stato oggetto di una breve disamina.
L'interrogativo resta aperto.
Aspetti pedagogici
Autogestire la propria cultura, il proprio rapporto politico, umano e conoscitivo con gli altri e
con la realtà, è fondamentale anche per approfondire la coscienza e la conoscenza di sé. E in un
discorso così complesso e articolato, non si poteva prescindere dalla scuola, come centro
principale dell'oppressione e del condizionamento culturale. La scuola è la fabbrica del
consenso, che impone un modello di comportamento sociale, e che ha una funzione educativa.
Considerando l'educazione come un mezzo strisciante e autoritario, ci si è chiesti se in un libero
rapporto sociale di scambio culturale potesse ancora esistere un processo educativo. Ma è
chiaro che una volta eliminato il ruolo gerarchico e autoritario dell'insegnante, il rapporto
culturale tra due persone avviene orizzontalmente, con un reciproco scambio e confronto da
entrambe le parti. La propria formazione avviene così tramite rapporti personali, non
istituzionalizzati, senza limiti di tempo né costrizioni, integrando e ampliando scambievolmente
le proprie conoscenze. Abbiamo anche pensato che attuare l'autogestione culturale in grandi
dimensioni, è impossibile: si creerebbe un rapporto di delega, e di potere; una nuova
scolarizzazione di massa.
I mezzi di lotta per recuperare una dimensione culturale libera e autogestita, sono molti:
dall'uso delle nuove tecnologie, alla comunicazione teatrale, dal cinema alla stampa,
l'agitazione e l'eversione nelle scuole, la creazione di archivi, di centri di studio a disposizione
dei compagni, ecc.. A questo punto gli aspetti innumerevoli del problema si sono ampliati come i
fili di una ragnatela proiettati all'infinito: l'autogestione della cultura implica anche la ricerca
di un nuovo tipo di linguaggio, svincolato dalla lingua ufficiale di stato utilizzabile per una
comunicazione "universale" (e qui un compagno esperantista ha portato la sua esperienza,
ponendo quesiti importanti) e d'altra parte il mantenimento dei dialetti, che costituiscono una
cultura insostituibile dei diversi gruppi etnici. Si è finiti con il parlare anche della propaganda
anarchica intesa come momento di comunicazione, sottolineando tra l'altro la necessità che si
sviluppino iniziative di carattere locale (regionale, ecc.) piuttosto che grandi iniziative nazionali
e/o internazionali.
Abbiamo notato un certo ritorno al misticismo, una fuga dovuta all'incapacità di una risposta
soggettiva e razionale e contemporaneamente l'adeguarsi della chiesa a questa realtà che
cambia. Con questo sistema, anche nelle scuole materne e elementari (che avviano il processo di
rimbambimento dell'individuo) c'è un tentativo riformista di adeguamento ai tempi. Se prima i
bambini imparavano a legnate, ora è in corso una sorta di "permissivismo qualunquista" che è
la seconda faccia della repressione. La famiglia ha invece indubbiamente perso parte del suo
carisma educativo/repressivo/moralistico che invece scuola e televisione hanno recuperato
abbondantemente.
Altro punto affrontato è la "famosa" integrazione fra lavoro manuale ed intellettuale. Il
problema fondamentale è non avere limiti alle proprie esperienze di lavoro, pur mantenendo per
scelta un campo specifico, e non smettere mai né di imparare, né di scambiare e dare agli altri
le proprie conoscenze, le proprie esperienze.
Come si comprende da questo breve e incasinato inizio di resoconto, la discussione ha toccato
mille argomenti, faticando a trovare a volte la necessaria organicità.
Il dato principale emerso, comunque, sono stati la vivace partecipazione di tutti/e gli intervenuti
ai "lavori" della commissione, nonché l'impegno a ritrovarsi anche prima del convegno di
Venezia per riprendere le fila del discorso e affrontarlo con maggiore approfondimento ed
organicità.
L'anarchia possibile
Il gruppo che ha affrontato il discorso degli aspetti psicologici della autogestione si è posto
inizialmente il problema della delega e della passività: perché molti di noi (in molte occasioni
tutti noi) non ci assumiamo in prima persona la responsabilità e l'impegno delle iniziative, delle
proposte, dell'andamento di una situazione?
È vero che su ciascuno di noi pesano i condizionamenti del presente e l'educazione ricevuta, ma
perché alcune persone, o tutti in alcuni momenti, riusciamo a vincere il peso dei
condizionamenti, mentre altre volte questo non accade? Che cosa ci deresponsabilizza?
Si sono fatte due ipotesi:
- manchiamo talvolta delle conoscenze necessarie per prendere decisioni responsabili;
- c'è in ciascuno di noi la tendenza alla quiete, al riposo, alla pace, che frena decisioni scomode,
di lotta.
Le ipotesi continuerebbero, ma forse non ci porterebbero ad una soluzione. Il gruppo allora ha
tentato un'altra strada. Si è posto la domanda: quali tentativi sono stati fatti in concreto per
superare la nostra tendenza a delegare, ad adagiarci, ad "imborghesirci"?
Un membro del gruppo vede come tentativo particolarmente valido la lotta allo "Stato
assistenziale". Trova negativo lottare per avere più servizi sociali, case ecc.: è un modo per
adeguarsi: sarebbe più opportuno chiedere soldi e farci i servizi da noi. A questa osservazione
altri compagni obiettano che forse è possibile un uso alternativo di quanto elargisce lo stato, ad
esempio del salario sociale elargito ai disoccupati in alcuni paesi. Tutti convengono comunque
che la lotta più significativa è quella che rompe l'abitudine a far risolvere dagli altri, ad
aspettarci dagli altri (comune, stato o padrone) una risposta ai nostri problemi.
Viene obiettato che in una situazione di oggettiva dipendenza (tu vivi in uno stato, in un comune,
lavori sotto un padrone) spesso sei costretto a trattare, non puoi risolvere da solo i tuoi
problemi. Si pone allora la domanda: se si creassero delle condizioni di libertà (vedi ad esempio
la Spagna rivoluzionaria) l'abitudine ad aspettare dall'alto le soluzioni sparirebbe? Molti di noi
fanno notare che non è il caso di farsi illusioni: anche in condizioni libertarie si è di fatto
sviluppato un conformismo negativo, passivo, acritico. La tensione collettiva può essere
liberatoria, ma anche portare il singolo a mascherare la sua oppositività al gruppo, se tale
gruppo si definisce libertario: ci sono membri dipendenti anche in condizione di libertà. Che
fare allora? È necessaria anche una tensione personale continua, scomoda, faticosa, un
continuo rinnovare se stessi. È forse una questione di personalità? Come si costruisce un
individuo libero, attivo, critico, anticonformista, costruttivo? Una delle condizioni individuate è
il possesso delle conoscenze necessarie alle decisioni che debbono essere prese. Un'altra è la
globalità secondo cui ciascuno dovrebbe riuscire ad affrontare ogni problema, uscendo dal suo
interesse settoriale, ma contemporaneamente nella coscienza che esisteranno sempre conflitti fra
interessi settoriali e che tali conflitti non debbono essere rimossi: debbono essere assunti dal
sistema. Una terza condizione è la necessità di raggiungere un adeguato equilibrio fra la
divisione dei compiti e la necessità che le decisioni siano prese il più possibile collettivamente:
si tocca così il problema del potere: una conoscenza, una competenza professionale, un bisogno
diversificato, un'informazione raggiunta prima degli altri non debbono diventare strumenti di
potere. Come impedirlo? Come impedire che le differenze fra uomini diventino gerarchia? Che
si trasformino in istituzioni? Che riducano la libertà individuale?
L'unica risposta che il gruppo riesce ad individuare in modo coerente è che solo la pratica della
libertà, a tutti i livelli, può garantire l'uso corretto della libertà: ciascuno, da subito, deve
autoeducarsi ad essere libero, perché non si diventa liberi solo sopprimendo i padroni, ma
anche liberandoci del rimosso che c'è in noi. In tal modo superare i conflitti su problemi
personali (ad esempio sessuali) in una pratica di libertà, cioè di uso cosciente della propria
individualità, è fondamentale come tentare di organizzarsi collettivamente per rifiutare le
istituzioni, per lavorare insieme al di là della cappa istituzionale.
La pratica della libertà
La discussione ha preso le mosse dal problema (solo apparentemente terminologico) di definire
l'autogestione da un punto di vista anarchico, stante l'attuale "polivalenza" e/o indeterminazione
delle accezioni in uso.
Più precisamente, la domanda posta in partenza è stata se l'autogestione vada considerata uno
strumento, un mezzo per la realizzazione dell'anarchia, oppure coincida con l'anarchia stessa e sia
quindi un fine da perseguire. In altre parole, si tratta di scegliere tra due diverse interpretazioni.
Da una parte, quella che vede nell'autogestione un semplice modello organizzativo, una "maniera
di fare le cose", dall'altra quella dell'autogestione intesa come un "valore" libertario in sé, in grado
di definire, in quanto tale, un vero e proprio modello di società e di rapporti umani.
A tale proposito, il dibattito ha posto in evidenza l'opportunità di distinguere tra anarchia
concepita come "utopia egualitaria" non raggiunta e non raggiungibile, e "anarchia possibile", cioè
approssimazione realizzabile, incompleta ma definibile concretamente, di società anarchica.
Per quanto concerne questo secondo aspetto, l'autogestione potrebbe essere considerata come
uno strumento per la realizzazione dell'anarchia possibile, forse lo strumento più perfezionato ed
efficiente, al punto da poter essere confuso con l'anarchia possibile stessa. Non un semplice
mezzo, quindi, e neppure un fine teorico e lontano: un mezzo/fine, cioè al contempo la migliore
approssimazione possibile di società legalitaria e libertaria ed il modello organizzativo più adatto
alla sua realizzazione.
Ciononostante, anche dopo questa precisazione, la scelta autogestionaria è risultata non
sufficiente, da sola, a definire compiutamente nei suoi aspetti pratici, tale "anarchia possibile",
risolvendo i numerosi problemi organizzativi connessi con la costruzione ed il mantenimento della
libertà e dell'uguaglianza: quale autogestione compatibile e necessarie ad una società non
autoritaria? Per rispondere a tale domanda, è apparsa evidente l'esigenza di ricorrere ad altri
concetti, ad altri "valori" anarchici (ad esempio, l'integrazione tra lavoro manuale ed intellettuale)
attraverso cui arricchire ed integrare la concezione autogestionaria, sì da ottenere un progetto
organizzativo sufficientemente articolato.
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