Rivista Anarchica Online
Va bene l'etica, però...
di Luca D. (Milano)
Vorrei fare qualche considerazione sul problema della violenza, della lotta armata e altro,
partendo dall'articolo "Violentismo ed etica" di P.F. comparso sul numero 73 di "A".
1) Nell'articolo ci sono alcune affermazioni indubbiamente vere: vari settori del movimento (non
solo libertario) scontano in effetti un certo "complesso d'inferiorità" nei confronti delle
organizzazioni armate; la moda dell'attentato quotidiano tradisce un vuoto di intervento politico
"di massa" molto grave e preoccupante, proprio perché questo è il campo da privilegiare per i
rivoluzionari; il senso di gratificazione dato dalla distruzione di qualche simbolo del potere è fine a
se stesso se le azioni illegali sono rappresentative solo della volontà di qualche militante e non
sono legittimate da un forte movimento proletario di lotte, movimento che, ricordiamolo, va
costruito con l'impegno quotidiano sul posto di lavoro e sul territorio: io non credo che nasca da
solo, né che sia impossibile una sua nascita o un suo sviluppo. Tuttavia il tono generale è piuttosto
di chiusura che di dialogo, quasi a ricercare una netta divisione (del tipo: noi di qua, voi di là) che
io ritengo solo controproducente, soprattutto in momenti, come questo, in cui il dibattito è ancora
ad un livello piuttosto basso e non molti possono fare professione di chiarezza assoluta in
proposito (tanto meno il sottoscritto). Forse il compagno P.F. è particolarmente adirato con i
compagni "pitrentottisti" - come li definisce - fatto sta che inveisce contro quelli con un furore
abbastanza sorprendente. Tale furore, io gradirei che venisse espresso anche e soprattutto nei
confronti di coloro che scambiano il movimento per un campo di battaglia dove far prevalere a
qualsiasi costo la propria tesi (mi riferisco ai fatti raccontati dai compagni fiorentini di "Per
l'azione diretta", se rispondono a verità: vedi U.N. n.11) e di coloro che di anarchismo parlano
nelle sedi "chiuse" all'esterno disprezzando i proletari perché ormai "irrimediabilmente votati alla
logica riformista" e in special modo gli operai che, quando lottano (vedi ospedalieri, lavoratori dei
trasporti, assistenti di volo), comunque rappresentano un esempio di "ben scarso valore, visto che
fra breve saranno nuovamente inglobati nella logica sindacal-partitica".
2) Ritengo abbastanza pericoloso per il movimento anarchico scrivere che alcuni (anche se non si
fanno nomi) sono "tra noi per sbaglio". Innanzitutto perché fa pensare ad un'ortodossia di cui
alcuni sarebbero tutori (e quanto danno porti una concezione simile, lo dimostrano i fatti spagnoli
riguardanti la CNT e la sua crisi) mentre altri, inevitabilmente, sarebbero "eretici" e indegni del
movimento. In secondo luogo perché costoro potrebbero benissimo capovolgere l'accusa
autoproclamandosi ortodossi e inaugurando una fase di vuoto, anche se aspro, dibattito sul nulla:
ovvero su chi è più anarchico. Lungi da me l'idea di sostenere che di etica non si debba parlare.
Che il problema dell'identità fini-mezzi sia risolto o, peggio, secondario e riguardante solo il
"cielo" della filosofia. Al contrario credo che questi (ma non solo questi) siano temi fondamentali,
ma credo anche che l'articolo di P.F. non sia così illuminante e così complessivo (sono certo che
lo pensa anche P.F.) da poter terminare con una condanna così dura e definitiva.
3) Nell'articolo si parla del "valore della vita umana" e se ne parla proprio a proposito delle azioni
delle Organizzazioni Comuniste Combattenti. Io non accetto questo modo di porre l'argomento e
sostengo che il "valore della vita umana" senza altre specificazioni sia un'astrazione,
un'insensatezza, in una società divisa in classi e che vada lasciata a chi parla di "difesa delle libertà
democratiche", di "salvaguardia dello stato di diritto", di "legittimità costituzionale", insomma a
quei sinceri democratici che sono ancor più sinceri controrivoluzionari (se è vero che la
democrazia è la forma più raffinata di dittatura del capitale). Voglio con questo sostenere che
allora bisogna compiere stragi di "innocenti" o di "colpevoli"? Che il sangue è mi inebria e
l'omicidio mi soddisfa? Assolutamente no! Voglio invece ricordare, e spero di non fare retorica,
che ogni giorno vengono uccisi 7 operai sul lavoro; che i poliziotti uccidono quasi
quotidianamente dal compagno al sottoproletario al bambino di due anni; che decine di migliaia di
proletari vivono dal primo all'ultimo giorno in case che è un'offesa chiamare con questo nome per
sovraffollamento e mancanza di igiene; che nelle carceri migliaia di uomini sono distrutti
fisicamente e psichicamente, e potrei continuare ma non voglio compiacermi dell'orrore della
violenza quotidiana dei padroni e dello stato. Di fronte a tutto ciò il problema del valore della vita
lo tiriamo fuori a proposito di Torregiani che per difendere i suoi sporchi soldi uccise un
proletario? Io non credo che sia corretto.
Mille e mille pagine di critiche a Prima Linea e ai Gatti Selvaggi perché tali azioni non si devono
ripetere più; perché mai dovrà capitare che anarchici commettano di questi errori (che non sono
solo "incidenti" tecnici): perché Roberto Crescenzio, Emanuele Iurilli e Graziella Fava non
devono essere seguiti da altre vittime incolpevoli; ma io non mi sento di parlare di un astratto
"valore della vita umana" in una società che ne è la costante negazione, dove anche gli aspetti più
folli e contraddittori (da quelli dei proletari che anch'essi uccidono per somme irrisorie di denaro
altri proletari, alle stesse spietate rivalità fra padroni e rappresentanti del potere) sono da imputare
a chi trae profitti e potere dal quotidiano "spettacolo" di sangue e violenza che ci circonda. Se
questa società è quella che è, lo si deve anche alle precise responsabilità di coloro che detengono
il potere politico ed economico. Il valore della loro vita è molto basso e gli anarchici hanno
sempre sostenuto (a parte la componente non-violenta) che per liberare la terra dalla violenza sarà
necessario farne uso.
4) Ai tempi del rapimento Moro, sulla scia dell'opportunismo demoproletario e lottacontinuista,
anche alcuni anarchici si accordarono sul sottoscrivere o gridare lo slogan "contro lo stato e
contro le BR". Ora, questa equidistanza io credo che non debba essere professata più, perché chi
ne trae vantaggio è in fin dei conti lo stato stesso, la cui violenza è messa sullo stesso piano di
quella, infinitamente inferiore, delle BR. "Ma le BR sono staliniste!" "Ma le BR sono il nuovo
stato in embrione, ancor più violento dello stato attuale!" diranno i compagni. D'accordo: ma su
un piatto di bilancia c'è ciò di cui ho parlato prima, sull'altro ci sono Moro, agenti di custodia noti
per la loro ferocia sanguinaria, ecc. e a me non sembra proprio che il peso di un piatto sia
equivalente a quello dell'altro piatto. E allora critica dura, distacco chiaro da una pratica e da una
logica che non tengono in alcun conto il movimento e il proletariato tutto, ma non mischiandosi
con chi, nel condannare le BR vuole condannare la legittimità proletaria nell'uso della violenza. In
conclusione io credo che sia più logico dire: "Contro lo stato, senza opportunismo, ma non con e
come le BR".
5) Il dibattito sulla violenza che si ripropone sulle pagine della stampa anarchica con una certa
frequenza sottrae spazio, o forse ancor prima capacità e volontà di pensiero (siamo anche noi
spettatori attratti dallo scontro-spettacolo?), al problema che io considero almeno altrettanto
importante, della possibilità di organizzare un forte movimento di opposizione caratterizzato dalla
presenza e dall'incidenza dei libertari. È fondamentale in questo momento di sbando del
riformismo (che pare voler ora giocare la carta clownesca dell'opposizione); di ripresa difficile e
lenta, ma inequivocabile, delle lotte; riuscire a elaborare un programma politico credibile per tutti i
proletari che subiscono il peso dell'oppressione capitalista e che non vogliono accettare l'attuale
stato di cose; sapere indicare forme di organizzazione stabili oltreché autogestite; stimolare lotte;
contribuire al coordinamento delle situazioni che si muovono; dare insomma un'immagine (e non
solo quella) di movimento vivo, che sa cosa sta facendo e dove vuole andare e che si muove con
risoluzione verso i propri obiettivi. Nell'ambito di questa ricerca teorico-pratica, che avviene nel
mentre si lotta e nel mentre ci si chiede come rafforzarsi, certamente occorre porsi il problema di
quella illegalità che nasce dalla lotta e non va esorcizzata, perché se sosteniamo che le leggi le
fanno i padroni per difendere i loro interessi, e per i proletari, per i rivoluzionari non
rappresentano nulla; perché se i padroni stessi infrangono le leggi a ogni piè sospinto; non ha
senso nel lottare porre i limiti dove lo stato ha posto i codici, bensì dove decide la volontà
proletaria che questi limiti vadano posti, e cioè in armonia con le necessità della lotta e con
l'identità dei mezzi con i fini.
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