Rivista Anarchica Online
Coscienza e TV color
di Eligio Bergia
Credo che per capire i motivi che hanno indotto la Fiat ai 61 licenziamenti, sia necessario partire
da una breve analisi della situazione che si è venuta a creare all'interno dei suoi stabilimenti. Essi,
pur essendo sempre un luogo di lavoro, e quindi di sfruttamento, di alienazione, di fatica, sono
molto mutati, da dieci anni a questa parte: non c'è più la feroce prepotenza dei capi, la disciplina
di ferro di vallettiniana memoria, la repressione quotidiana di tutto ciò che ha, anche
lontanamente, odore di sinistra. Ci sono invece pignole norme antinfortunistiche che hanno
sensibilmente ridotto gli incidenti, in tutte le officine, almeno fino ad un anno fa, i ritmi di
produzione erano non eccessivamente pesanti. Anzi, c'è la possibilità, più o meno
istituzionalizzata, di non lavorare per almeno un'ora durante il turno, con punte che arrivano, a
volte, anche a tre ore. Anche i capi si comportano in modo diverso: al posto dell'ingiuria e della
minaccia, hanno imparato ad essere, in apparenza, più tolleranti, più "democratici", pur
conservando il proprio ruolo di guardiani della produzione. È difficile dire quando tutto ciò sia
cominciato e a cosa sia dovuto. Sta di fatto comunque, che in conseguenza di questo clima, ogni
anno, per mancata produzione, assenteismo, sabotaggio cosciente e non, furti e, in generale, per il
totale disinteresse operaio verso le lavorazioni, la Fiat perde molti miliardi. La situazione non è
migliorata con le recenti grosse assunzioni, attraverso le quali sono stati immessi nei circoli
produttivi degli stabilimenti dell'area torinese migliaia di nuovi operai. Costoro sono perlopiù
giovani e scarsamente politicizzati, ma sono contraddistinti, in gran parte, da una disaffezione per
il lavoro ancora maggiore di quella delle vecchie maestranze. In definitiva, la fabbrica oggi è
molto diversa dal luogo di patimenti dell'iconografia operaista classica, ma anche molto lontana
dall'ideale dei padroni, in quanto una fabbrica così strutturata non rende quanto potenzialmente
potrebbe rendere. Per spiegare questa crisi di produttività, bisogna anche tener conto di fatti che non
dipendono dal
comportamento degli operai. Il più importante di questi è senz'altro la crisi del settore auto. Essa
è una realtà e, indipendentemente da ciò che viene detto e fatto dai dirigenti e dall'idea che
ne
possono avere i più, continua ad impedire i redditi elevati degli anni '60. A tale proposito si può
ricordare la pressione degli industriali giapponesi, volta ad ottenere l'autorizzazione di esportare
in Italia le automobili di loro costruzione, a prezzi ultracompetitivi, capaci di mettere in seria
difficoltà le vendite Fiat nel nostro paese. Oppure, si può ricordare che alcuni dei nuovi sistemi di
elaborazione messi a punto nei giganteschi stabilimenti di Mirafiori, si sono rivelati scarsamente
produttivi. In tale situazione, è evidente che, per la dirigenza tecnocratica della Fiat, il problema
di salvaguardare i propri guadagni e il proprio potere, è diventato di estrema importanza. Il
licenziamento dei 61 è stato il primo atto di questo tentativo di ripristinare ordine e produttività
nelle officine. Per mascherare le proprie intenzioni, la Fiat ha accusato i licenziati di essere
terroristi, in modo da impedire, con questa accusa di comodo, ogni forma di solidarietà nei loro
confronti. Per molti versi il giochetto è riuscito e ha messo in seria difficoltà il sindacato, che si
è
visto costretto a fare i salti mortali per difendere i 61 e contemporaneamente professarsi contro il
terrorismo. Infatti ogni discorso, ogni azione sindacale a favore dei licenziamenti ha sempre
come inizio una prefessione di fede nelle istituzioni democratiche e una presa di posizione contro
il terrorismo. Da queste difficoltà, in cui il sindacato si è trovato a dover operare, è
scaturita l'iniziativa
assurda, ridicola, demagogica, e insieme tragica, escogitata dalla triplice per dimostrare ai
padroni la propria fedeltà al sistema: quella di obbligare chi, dei 61, vuole la difesa degli avvocati
sindacali, a giurare di essere contrario non solo al terrorismo, ma anche a qualsiasi forma di
violenza. Con questo atto di fede verso il sistema il sindacato è riuscito a dividere i licenziati, di
fronte all'opinione pubblica e alla magistratura, in buoni, che possono anche rientrare in fabbrica,
e cattivi, filoterroristi, ai quali bisogna impedire ogni contatto con la classe operaia. Il terrorismo,
usato dalla Fiat per motivare i licenziamenti, non è però l'unica causa del disagio
sindacale. L'origine profonda, più generale, va ricercata nella politica sindacale perseguita dalla
sinistra e particolarmente dal PCI negli ultimi anni, soprattutto da quando il gran burocrate
Luciano Lama, fervente comunista, ha rilasciato (due anni or sono) l'ormai storica intervista a La
Repubblica. Da allora nelle fabbriche, l'azione sindacale si è conformata alle direttive di Lama,
che erano state impartite, però, sulla base di un'errata valutazione della realtà: il PCI, infatti, era
convinto (e credo che lo sia stato fino a poco tempo fa) di diventare a breve scadenza partito di
governo, e per tale motivo ha dato ordine ai propri quadri sindacali, tramite Lama, di evitare
attriti nelle fabbriche, impedendo in qualsiasi modo iniziative autonome da parte degli operai. Di
conseguenza, negli ultimi due anni, ogni trattativa a livello di azienda è diventata una sconfitta
per la classe operaia, il sindacato ha sempre indietreggiato dalle proprie posizioni, ha accettato
senza fiatare aumenti di produzione, ritocchi alla scala mobile, in poche parole ha rivenduto gli
operai pur di evitare che nelle fabbriche si instaurasse un clima di lotte dure. Con il sue enorme
potere burocratico è riuscito a fabbricare, se non il consenso intorno alle proprie azioni, per lo
meno il silenzio, reprimendo ogni dissenso operaio anche in occasione di svendite abbastanza
clamorose. La triplice ha così accontentato i padroni e il PCI, ricevendo in cambio il permesso di ficcare
il
naso nei problemi inerenti a investimenti e programmazione, ma all'interno delle fabbriche ha
decisamente perduto la fiducia degli operai. Così, quando è scoppiato il caso delle 61 lettere di
licenziamento, il sindacato si è trovato in una situazione non facile. In sostanza, il dilemma era o
accontentare gli operai o la dirigenza Fiat. Nel primo caso, opponendosi ai licenziamenti da
posizioni di lotta dura, aveva l'opportunità di recuperare una parte della fiducia operaia, col
risultato inevitabile, però, di perdere quella padronale, che gli avrebbe negato in buona parte
l'acquisito potere di decisione e di controllo. In altri termini, il padronato ha dimostrato più volte
di non voler trattare con un sindacato che si lascia condizionare dalla base. Ma anche nel caso
opposto, il risultato non sarebbe stato dissimile; mostrando eccessiva arrendevolezza di fronte ai
licenziamenti, la triplice avrebbe aumentato la propria perdita di credito presso gli operai, e cosa
serve, ai padroni, un sindacato che continua a perdere affiliati e credibilità? Non è da escludere
che un ragionamento del genere sia passato per la testa dei dirigenti Fiat, nel decidere i
licenziamenti. Non è da escludere cioè, che la Fiat fosse cosciente della difficoltà in cui
veniva a
mettere in sindacato e abbia deciso di licenziare anche per questo. Il sindacato, com'era logico, ha cercato di
salvare capre e cavoli. Da una parte ha fatto qualche
ora di sciopero, utilizzando per l'occasione i discorsi duri di qualche delegato incazzato, per
accontentare gli operai. Dall'altra, però, ha spedito il solito Lama al Palasport di Torino, perché
tranquillizzasse il padronato con il suo discorso sui capi (ormai diventato famosissimo) per dire,
in sostanza, che anche se si fanno scioperi e assemblee, il sindacato non intende abbandonare la
sua posizione a sostegno del sistema di sfruttamento, conquistata con anni di pompieraggio delle
lotte e consolidata con gli ultimi due anni di svendita. Comunque, anche se i licenziamenti hanno messo nei guai
il sindacato, il loro scopo principale
non era questo, ma piuttosto quello di portare un grosso attacco agli operai e alle loro piccole
libertà. Per la dirigenza Fiat, la posta in gioco è molto importante, nonostante venga mascherata
con la solita scusa del terrorismo: si tratta di riconquistare il terreno perduto negli ultimi dieci
anni, per ottenere una produttività più elevata, per avere la possibilità di spostare gli operai
dove
fa più comodo, per ridare potere alla gerarchia, per restaurare l'ordine e la disciplina, per
riprendere il potere di licenziare. In tutti i paesi del mondo i padroni licenziano ed assumono chi
gli pare, in relazione alle esigenze del mercato (si vedano, ad esempio, i casi della Leyland e
della Volkswagen). Non a caso, mentre ancora si parla dei 61 licenziamenti per "terrorismo", già
comincia a circolare
la voce che altri, e più cospicui, ne sono in arrivo (1.000, 2.000) con motivazioni di assenteismo
e scarsa produttività. Se così stanno le cose, è evidente che i 61 sono serviti solo da
"battistrada".
E non solo in Fiat: tutta la classe sfruttatrice italiana ha alzato la testa, ed ecco l'Olivetti chiedere
4.500 licenziamenti, ecco l'Alfa cominciare a licenziare per assenteismo, ecco altre ditte minori
accordarsi con richieste che certamente non sarebbero state proposte se non ci fosse stata la Fiat a
spianarle la strada. A questo punto, data la situazione, c'è qualcuno che afferma che stiamo tornando
ai famigerati
anni '50. Io non sono del tutto d'accordo. Negli anni '50 la Fiat reprimeva, licenziava i sovversivi
e chiunque si ribellasse alle disumane condizioni di lavoro, ma poteva far emigrare dal Sud una
gran massa di disoccupati, senza istruzione, senza un minimo di coscienza, senza altra scelta se
non quella tra miseria e industria del Nord, a volte perfino con il "mito" della Fiat: una
manodopera che per anni ha garantito grande produttività e silenzio. Le cose oggi sono ben
diverse, perché il Sud non è più un serbatoio di "carne da macello", disposta passivamente
a
subire lo sfruttamento. Come quella settentrionale, la manodopera che viene dal Sud è formata in
gran parte di diplomati frustrati che odiano la fabbrica, disaffezionati, propensi più
all'assenteismo che al sacrificio, certamente poco adatta a rimpiazzare gli eventuali licenziati per
scarsa produttività. Un'utilizzazione intelligente di questo tipo di maestranze comporterebbe una
profonda riorganizzazione del lavoro in fabbrica, con aumento dell'automazione, riduzione
sensibile della fatica individuale, sull'esempio dell'industria automobilistica americana o
giapponese. Ma per fare questo ci vogliono capitali e tempo, e la Fiat non è preparata per una
ristrutturazione di tale tipo a breve scadenza. Quindi, per ora, l'unica via per sostenere la
concorrenza internazionale è quella della repressione e della disciplina, per far "filare dritta" una
manodopera scompaginata e scarsamente efficiente. Al limite, le teste più "calde" potranno essere
sostituite con lavoratori turchi, iugoslavi o greci
che, a quanto pare, hanno ancora le caratteristiche di docilità e voglia di lavorare dell'emigrato
meridionale di vent'anni fa, e possono, inoltre, essere anche ricattati, se cercano di far valere i
propri diritti, poiché non hanno la cittadinanza italiana. Alcune migliaia di essi già lavorano in
Lombardia, in aziende di medie dimensioni, con piena soddisfazione dei loro padroni. A dimostrare che, nei 61
licenziamenti, il terrorismo è solo una scusa, c'è anche la totale
disomogeneità dei licenziati, dal punto di vista politico: è vero, infatti, che sono stati licenziati
esponenti del nuovo dissenso operaio e degli autonomi (ad esempio alcuni compagni del
Collettivo Operaio, unico gruppo alla sinistra del PCI nello stabilimento di Rivalta), ma anche
vecchi quadri operai di Lotta Continua, inattivi da anni, e altri che amoreggiavano chiaramente
col PCI e il sindacato, nonché membri di quasi tutte le formazioni politiche dell'estrema sinistra
presenti in fabbrica. Di questi, solo i compagni del Collettivo avevano "fatto qualcosa", nel senso
che erano stati visti con simpatia da molti e, con la loro attività, avevano contribuito a diminuire
la disciplina e i ritmi di lavoro; curavano anche un "Bollettino Interno dell'Officine Presse", che
era abbastanza diffuso e abbastanza letto. La totale mancanza di affinità tra i licenziati ha, nella pratica,
impedito prese di posizione
unitarie e ha reso difficile l'opera di controinformazione all'interno e all'esterno della fabbrica.
Così, la risposta ai licenziamenti è stata assai poco incisiva: nessuna iniziativa autonoma è
riuscita a prendere piede. Tanto per fare un esempio, uno sciopero autonomo alla lastroferratura
di Rivalta ha visto la partecipazione di 11 (undici) compagni! Troppo pochi gli elementi
politicizzati non intruppati dal sindacato, troppo pedanti con i loro discorsi esasperatamente
operaisti che non interessano più nessuno, se non in maniera superficiale: i rari esempi di
combattività, come il Collettivo di cui prima parlavo, sono usciti stroncati dai licenziamenti.
D'altronde, anche il sindacato non è in grado di fare molto di più: lo sciopero "ufficiale" di due
ore, come è noto, è praticamente fallito. Il fatto è che gli operai sono stufi del sindacato,
sono
stufi di perdere soldi per scioperi inutili, stufi di lotte che per anni sono servite ad ottenere
soltanto il solito piatto di lenticchie. Così, anche quando le motivazioni hanno una certa validità,
come per scioperi contro i licenziamenti, le adesioni sono scarse e senza entusiasmo. In tale
situazione di rassegnazione e disinteresse, ben pochi sono quelli che hanno capito veramente
cosa c'è dietro l'intera faccenda, cioè le ragioni profonde che stanno alla base della manovra
Fiat. È successo così che molti dei licenziati hanno firmato il documento di condanna della
violenza,
accettando la difesa degli avvocati del sindacato. Questo ha voluto dire la rinuncia alla propria
identità politica, consegnando nelle mani del sindacato la gestione di ogni iniziativa contro i
licenziamenti. Ha voluto dire, anche, avallare di fronte all'opinione pubblica la divisione dei
licenziati in buoni e cattivi, come il sindacato aveva cercato di ottenere fin dall'inizio, con tutti i
grossi pericoli di criminalizzazione che ciò comporta per i pochi non firmatari. Forse un giudice
democratico riuscirà a far rientrare in fabbrica qualcuno dei licenziati, ma non
sarà comunque un risultato di gran peso politico. Molto di più si sarebbe potuto ottenere,
gestendo la lotta, in tribunale e fuori, senza sindacato e anzi contro di esso, contro la sua politica
dei sacrifici e di collaborazione. Invece, delegando tutto alla triplice la si aiuta a recuperare
credibilità, mentre il più generoso tentativo di dar vita ad un collegio alternativo a quello
sindacale rischia di non avere prospettive: i compagni che vi partecipano sono già criminalizzati,
di fronte alla stampa e all'opinione pubblica, per non aver firmato la delega al sindacato. E anche
gli operai in fabbrica, purtroppo, fanno parte dell'opinione pubblica. Certo, solo aiutando gli operai a ritrovare
forme di lotta autonoma e autogestita, fuori dagli
schemi sindacali, si può pensare di battere la strategia repressiva della dirigenza Fiat. Ma dopo un
anno di esperienza di fabbrica, mi viene spontaneo domandarmi: dove dorme la loro coscienza,
nel TV color comperato con tanti sacrifici?
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