Rivista Anarchica Online
Dubito Ergo Sum
di Piero Flecchia
La dominazione si tramanda raccontandosi come ordine; introiettando nei dominati la
rappresentazione della fine della dominazione come mondo dove si autolibera la nuda violenza.
La lotta per la dominazione viene perennemente raccontata come lotta per l'ordine migliore: il
più umano e con i massimi contenuti di libertà in rapporto alla reale configurazione storica.
Questa è la storia che piace ai detentori del dominio, e che, nel suo bellissimo libro: "Storia
dell'intolleranza in Europa" (ed. Mondadori - collana "saggi" n.125 - pagg.535 lire 7.000: stiamo
dando tutti gli estremi bibliografici perché, come speriamo di far chiaro, è assolutamente un libro
da leggere, far leggere, e dibattere) Italo Mereu definisce: la retorica della dominazione. Per chi si
sottrae alla persuasione della retorica, o inavvertitamente viola l'ordine felice dei dominatori:
incorre nelle loro ire; oltre la retorica, strumento ultimo e decisivo, esplode la nuda violenza della
dominazione, che si distingue e si legittima come necessità di reprimere l'errore ma soprattutto
redimere l'errante; non punire: redimere come predica il codice, i regolamenti carcerari, e la
stessa carta costituzionale. Strategicamente decisiva, la distinzione tra l'errore e l'errante, presuppone uno spazio
di verità
garantite: sottratte al dubbio e al contingente, dove la società è certa dei valori e significati del
proprio agire; dove ciò che è bene e ciò che è male sono chiaramente individuati
ed enunciati.
Solo fatta vera questa premessa, una società potrà presumere di punire l'errore è redimere
l'errante, insegnandogli la giusta via. Eppure, alle origini della cultura occidentale dovrebbe
trovarsi il figlio della levatrice: quel Socrate che divenne celebre nell'antica Grecia per aver
affermato di sapere una sola cosa: "Io non so nulla di certo". Da questo atteggiamento consegue
che nessun uomo può giudicare circa le azioni di un altro uomo: giudicarle in assoluto e ritenere
di possedere la motivata sapienza che fa di lui a un tempo il giudice e il maestro: presunzione
sulla quale si fonda tutta la legislazione; che si autopresuppone legislazione che condanna l'errore
e rieduca l'errante. Cosciente di questa verità fondata sul dubbio, tutta la legislazione greco-romana
procede dalla
convinzione amara che ogni azione intentata da un uomo contro un altro uomo, o da una
comunità, procede da quella che i nostri ipocriti legislatori definiscono la barbara legge del
taglione: la vendetta. Ogni azione giuridica, per il diritto romano è una forma di vendetta che la
comunità, o il singolo individuo, o gruppi di individui, promuovono contro altra persona o
persone dalla quale ritengono di essere stati offesi. A impedire una sorta di sorda guerra civile, la
società stabilisce una procedura: concede a chi si presuppone offeso degli strumenti di rivalsa
sociale, attraverso l'istituzione di tribunali. La vendetta diventa un istituto della società, che però,
non per questo acquista i segni di rispettabilità e onorabilità, perché c'è sempre nella
vendetta una
tendenza ad eccedere, a rispondere al colpo con maggiore violenza. C'è poi anche la tendenza
delle singole persone a fantasticare il nemico; di qui il costante invito della tradizione giuridica
romana a diffidare della voce pubblica, a investigare attentamente, a introdurre un giudice
rigorosamente neutrale e al di sopra delle parti. La società greco-romana praticò la violenza non
meno della nostra, ma nella coscienza che si praticava la violenza: si veda in Sallustio il
resoconto dell'assemblea senatoria che decise la morte dei catilinari. Tutti i padri coscritti, a
differenza del Pertini in Puglia, sono perfettamente coscienti che si tratta di vendetta pubblica,
che il sentimento della giustizia è quantomeno remoto, per non dire assente, perché giustizia
presuppone clemenza, presuppone bontà, presuppone comprensione del punto di vista
dell'antagonista, la cui figura non deve mai assumere i tratti stravolti del nemico da abbattere;
tanto più che in ogni uomo c'è il segno inconfondibile della comune umanità: per essere tutti
mossi, nel bene, dagli stessi impulsi e traguardi. Da questa radicata convinzione la presenza dei
tribunali appare all'uomo greco e romano il segno del fallimento, o quanto meno della minaccia
di fallimento del progetto comunitario, la spia della sua imperfezione. Con il messaggio evangelico entra in
campo una visione completamente nuova e diversa
dell'uomo, che ha il suo centro nella dottrina del peccato originale: l'uomo ha intenzionalmente
scelto il male. L'uomo abbandonato, a se stesso, cade nell'errore. Contro il male che lo travaglia,
Dio si è degnato di rivelare all'uomo la strada della verità: prima con l'azione dei profeti, e poi
mandando in terra il suo stesso figlio a farsi crocefiggere: affinché fosse evidente l'empietà delle
istituzioni puramente umane: incapaci di riconoscere la verità! Con il cristianesimo una dottrina
di redenzione, che si presuppone più alta, e inarrivabile senza grazia, entra nel mondo classico.
Ora il mondo classico ha una macchina che fabbrica la verità. In questo preambolo abbiamo
sinteticamente cercato di rendere la irriducibile opposizione che il
Mereu individua tra cultura classica e cristiana. La società classica ha il suo centro nell'individuo,
la società cristiana nella rivelazione: che procede dall'alto nella società attraverso l'azione delle
istituzioni. E l'istituzione che determina e domina, e decide il destino di tutte le altre istituzioni
non può essere che la chiesa: depositaria sola e unica dell'autentico messaggio divino: della legge
giusta e santa. La chiesa sa che l'uomo da solo sceglie il male o, quanto meno, è debole davanti al
male. Nella coscienza di questa realtà, deve necessariamente trovarsi, nella azione della chiesa il
sospetto: la chiesa è una istituzione fondata sul sospetto. Solo compreso questo punto: questo
atteggiamento-stato d'animo, non campato sul vuoto, ma fondato sui sacri testi dei padri, è
possibile comprendere tutta la successiva evoluzione giuridico-istituzionale del sistema
processuale che, attraverso oltre mille anni di ricerche e oscillazioni, trova alfine la sua soluzione
nel tribunale inquisitoriale, voluto da quell'Alessandro III: "guida morale della lega dei comuni
lombardi, che sconfiggerà Federico Barbarossa a Legnano (1176); creatore della formula
ideologica: - GIUSTIZIA E LIBERTÀ -, che userà come arma di propaganda contro tutti i suoi
avversari politici..." (Mereu, op. cit., pag. 126).
La libertà, da fatto intimamente legato alla coscienza individuale è ormai diventato uno spazio
interno alle leggi delle intuizioni, secondo la tragica freddura che circolava nel ventennio fascista
tra il popolo: "Tutto quello che non è esplicitamente permesso, si intende tacitamente vietato.".
Simmetricamente, la giustizia è tutta data e scritta dalla grande legge rivelata.
Il nostro mondo: il modo di rappresentare la realtà imposto dai detentori della vera unica giusta
santa immodificabile legge: legge alla quale va adattata la vita secondo gli schemi del letto di
Procuste, ha origini antiche, che non hanno smesso di agire e produrre nefandi effetti. Solo
comprendendo come la nostra rappresentazione della realtà è nata, e su quali presupposti si
fonda, è però possibile pensare di liberarsi definitivamente dalle strutture di un sistema che ha
accompagnato l'uomo occidentale dalla capanna di Betlemme in poi, come lucidamente insegna
nella poesia "Natale" Fernando Pessoa: Nasce un Dio. Altri muoiono. Non ci è giunta/né ci ha
lasciato la verità: muta l'Errore./Abbiamo ora un'altra Eternità,/e ciò che è passato
in fondo era
migliore/(in F. Pessoa, Una moltitudine, ed. Adelphi, vol. I, pag.179).
Con l'istituzione dell'inquisizione, l'evangelico grano di senape è diventato la grande pianta che
copre tutto l'universo del vivere umano: riassorbe la realtà quotidiana di ogni essere inglobato,
volente o nolente, nel sistema: si mangerà cristianamente, si fotterà cristianamente, si parlerà
cristianamente, si dormirà cristianamente: l'universo del fare come quello del parlare è ora diviso
in una parte onesta lecita e continuamente propagandata, e in una parte oscura empia, da
reprimere, estirpare. La repressione è affidata al sistema giudiziario, che non cessa mai di crescere e di
proliferare, ma
ovunque, nello spazio e nel tempo, coerente e fedele, ci insegna il Mereu, alla forma archetipa
del tribunale inquisitoriale: che stabilisce, una volta per tutte, la procedura processuale moderna
con le varie maschere giudicanti, chiamate al gioco delle parti: tutte conniventi e complici del
sistema della dominazione, sulla pelle dei dominati: ivi compreso l'avvocato difensore.
L'inquisizione, a chi ne studia gli atti processuali, e traccia la storia delle complesse vicende,
scrive il Mereu, appare come una struttura estremamente semplice, razionale, ed efficace in
rapporto agli obiettivi che si propone. Essa elabora un proprio linguaggio, ricco di eufemismi, per
cui la tortura diventa la "rigorosa disamina": per chi non è addentro un interrogatorio
inquisitoriale appare in sé umano: i giudici sono sempre solleciti ed affettuosi; il personale
inquisitoriale è tutto sottoposto a un duro e severo tirocinio intellettuale. Ogni inquisitore è la
prefigurazione, già fatta vera in rapporto al messaggio cristiano, dell'intellettuale organico; e
l'intellettuale organico è nient'altro che la continuazione, nella rivelazione marxista,
dell'inquisitore. Con i suoi archivi, le sue procedure rigorosamente codificate, la confessione che
non deve mai essere estorta, ma libera e spontanea (24 ore dopo la confessione ottenuta sotto
tortura, e considerata in sé inefficace, gli inquisitori tornavano a interrogare il prigioniero, e gli
chiedevano di confermare la precedente confessione. Se il prigioniero ritrattava, ovviamente la
tortura riprendeva, e così via, ma sempre facendo ben attenzione a non uccidere il malcapitato;
nel linguaggio inquisitoriale: "non recare danni al penitente"), la sua struttura piramidale
burocratica e rigorosamente verticistica, che culminava nel papa, l'inquisizione crea il modello
ideale al quale si rifaranno tutte le compagini degli stati nazionali. La visione inquisitoriale della
realtà si è fatta abito mentale di tutta la classe politica europea, come rivela una cinica battuta di
Palmiro Togliatti ministro di grazia e giustizia, a un allocco compagno comunista che chiedeva la
urgente abolizione del codice Rocco: "Ci servirà ottimamente quando avremo preso il potere". La
necessità permanente di inquisizioni è affermata da un pensatore la cui appartenenza al campo
liberale non è mai stata messa in dubbio come Benedetto Croce: "Conseguenza dello stabilito
principio (il principio della doverosità della repressione violenta dell'errore) è la giustificazione
di misure pratiche che indicano coloro che erano teoricamente a correggersi, castigandoli,
quando questo giovi ad ammonizione ed esempio. Mezzi d'altri tempi (si dice); ora siamo in
tempi di libertà e non è lecito adoperarli... ma coloro che così dicono non hanno occhi per
guardare intorno a sé. La santa inquisizione è veramente santa, e vive perciò nella sua eterna
idea: quella che è morta era nient'altro che una sua contingente incarnazione storica. E anche
questa incarnazione contingente dovette essere, per un certo tempo, giustificata e benefica, se
popoli interi la invocarono e difesero (1), se uomini di altissimo animo la fondarono e
severamente e imparzialmente la ressero, e gli stessi avversari la applicarono per loro uso, onde
Roma cristiana perseguitò gli eretici, così come Roma pagana aveva perseguitato i cristiani (2), e
i protestanti bruciarono i cattolici, così come i cattolici bruciarono i protestanti.... Di questa
disciplina nessuna società può fare a meno..." (B. Croce, Filosofia della pratica, Bari
1945, V
ed., riportato a pag. 478 del libro di Mereu). C'è dunque una profonda coerenza logica nel sistema della
dominazione occidentale: che ha
antiche radici, e ben salde: averle messe a nudo è il grande merito di questo libro di Italo Mereu;
che ha il raro pregio di una scrittura semplice, tutta evidenza e fatti, come un romanzo d'azione:
chi scrive - pur nutrendo per il diritto lo stesso odio selvaggio di Vittorio Alfieri - ha
incominciato alle undici di una sera la lettura del testo e non lo ha più smesso fino all'ultima
nota: tutte preziosissime per approfondire l'argomento. Libro che riunisce molti percorsi e idee,
in conclusione vogliamo seguire, alla luce delle riflessioni e ricerche di Mereu, la storia
dell'istituzione più infame tra le tutte abiette istituzioni della nostra società: il
carcere. Recentemente, studiosi che vanno per la maggiore, quali il Foucault, tendono a imputare
l'istituzione carceraria agli stati assoluti, e poi alla democrazia borghese. Nulla di più falso. Il
carcere nasce come strumento integrativo, e conseguentemente necessario, nell'ambito
dell'universo inquisitoriale. Carcere esisteva già nella società greco-romana, ma come luogo di
transito, tra la condanna e l'esecuzione della pena: pene certo barbare, ma meno barbare, e nello
spirito e nell'esecuzione, delle nostre. E tale il carcere rimase fino a quando il sospetto non
divenne il modo di vivere i rapporti tra gli uomini nella società: fino a quando il controllo sulla
società non fu del tutto sottratto agli uomini e depositato nelle rivelazioni. Con l'inquisizione il
carcere diventa il luogo di isolamento: ora l'incriminato è sospettato di aver cospirato contro
l'ordine cosmico, di essere il portatore della peste morale, e quindi è giusto che sia isolato, già
prima della sentenza. Il carcere diventa uno degli arcani della dominazione: presenza che pesa
sulle coscienze di quanti stanno fuori: svolge quella funzione ammonitiva esaltata da Croce,
contemporaneamente alla funzione di lazzaretto delle anime. Chi cerca soluzioni più umane al nostro
mondo, troverà nel libro di Mereu, accanto a molte
preziose indicazioni circa il modo di pensarci nella libertà, la prova provata della barbarie di tutti
i sistemi ideologici che vogliono guidarci nel "nuovo mondo": cristianesimo, marxismo,
liberalismo, che, dal remoto tempo di Innocenzo III propagandano la menzogna al grido di
giustizia e libertà. Forse in Italia bisogna risalire ai tempi dell'aureo libro del Beccaria per trovare
un saggio altrettanto importante. Ai libertari Italo Mereu ha dato uno strumento di lotta decisivo,
sappiano i libertari usarlo.
(1) Abbiamo qui il tipico esempio della sistematica sovrapposizione di dominatori a popolo:
dove i dominatori diventano per metafora il popolo. Marxisti e liberali, seguendo pedestremente
i cristiani continuano la bella tradizione. (2) Non ci furono mai persecuzioni. Le persecuzioni sono
una invenzione della propaganda
cristiana.
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