Rivista Anarchica Online
Nonviolenza perché
di Antonio Lombardo
La proposta di discussione che pubblichiamo in queste pagine è stata redatta dal
compagno
Antonio Lombardo in vista del convegno su "Anarchia e nonviolenza" di cui da tempo si è fatto
promotore. Gli interventi per il convegno vengono periodicamente pubblicati sul bollettino
Nonviolenz'A che può essere richiesto ad Antonio Lombardo, via Piacenza 66, 15100
Alessandria. La nostra posizione sulla controversa questione della violenza è nota. Se in
tempi recenti, in
ferma polemica con i fautori del lottaarmatismo e del colpire nel mucchio, abbiamo sottolineato
la necessità di rifiutare qualsiasi mitizzazione della violenza, ciò non significa - come ha
strumentalmente sostenuto qualche nostro critico - che noi si debba inevitabilmente cadere
nell'estremo opposto, quello della nonviolenza. È anzi proprio chi considera la violenza, in
positivo o in negativo, la discriminante fondamentale sulla base della quale aggregarsi e al
contempo distinguersi dagli altri, a cadere nel medesimo errore di schematizzazione manichea.
Ciò accomuna, pur nel contrasto delle posizioni, lottarmatisti e nonviolenti: entrambi, infatti,
non comprendono che la violenza - per gli anarchici - non è e non può essere che un
mezzo da
usarsi quando ritenuto necessario, sempre con la massima attenzione per le sue conseguenze
spesso difficilmente controllabili, affinché non si ritorca contro di noi e contro l'efficacia della
nostra lotta. La violenza, in ogni caso, non è né il toccasana della causa rivoluzionaria né
il
demonio di fronte al quale fuggire sempre e comunque.
Sono d'accordo con Alfredo Bonanno quando dice che un Convegno come quello sui "nuovi
padroni" può servire solo se rende più chiaro, agli sfruttati, chi veramente siano questi padroni:
"Che cosa può interessare loro dei padroni vecchi e nuovi se non un contributo che li possa
aiutare a meglio individuarli? e, una volta individuati, a meglio colpirli? Quale senso ha una
analisi se non serve ad una azione? Definire una classe, chiamata, tecnoburocrazia, non significa
ancora dire chi sono questi signori, dove stanno e quali responsabilità hanno: significa solo dire
che il potere sta cambiando forma e non può più permettersi una contrapposizione netta come
quella tra borghesia e proletariato. Una cosa importante in quest'opera di ristrutturazione è la
creazione del consenso. Essa è fondamentale per la propria stabilità, per la sicurezza di
emarginare i ribelli; è fondamentale per creare collaborazioni inaspettate ai tempi della
maggioranza silenziosa: Sindacato e antiterrorismo, partiti "operai" e polizia, e magistratura.
Come dimostrano nei rapporti sul "terrorismo" che la federazione romana del PCI ha dato alla
magistratura; come dimostrano le testimonianze offerte dal PCI di Padova al giudice Calogero;
come dimostrano i questionari sul terrorismo diffusi a Torino dai consigli di quartiere ed anche la
morbidezza e la mancanza di scontro sindacale sui licenziamenti politici alla FIAT (1). La
maggioranza non deve essere più silenziosa, ora deve parlare, informare dei "movimenti sospetti"
nel condominio, nel quartiere, nei posti di lavoro. Se la proposta della CGIL di Milano di fare
squadre di vigilantes in fabbrica è stata respinta, lo si deve piuttosto a contraddizioni interne ai
burocrati sindacali, che alla lotta dei lavoratori direttamente interessati. Questa situazione, mentre da una parte
tende a creare maggiore credibilità dallo stato, dall'altra
allontana sempre più una interpretazione del potere come di un vertice formato da industriali
(figura col cilindro), papa (figura con la mitra) e ministri (figura con giacca, cravatta e cartella
sottobraccio). Le stesse Multinazionali trovano troppo stretto l'ambito nazionale per il proprio
mercato e per lo sfruttamento a basso costo delle braccia. Funzione dello stato resta quella di
garantire, nel territorio di mercato di propria competenza, quella stabilità necessaria per far
ottenere prestiti ai propri governi (Germania, Fondo Monetario Internazionale) e per
l'insediamento delle Multinazionali stesse (se non basta l'esempio FIAT che fa costruire
automobili in Paesi dove lo sciopero è vietato - Brasile, Polonia, URSS, Argentina... - abbiamo in
ultimo quello della "truffa nucleare" dove l'Italia, appunto, è una delle tante piazze di mercato;
suo compito è solo quello di rendere sicura l'installazione). Il potere, quello più efficiente, quello
del "divide et impera", delega perciò le sue funzioni, fino a farle assumere dalle stesse
organizzazioni sociali e legali degli sfruttati: il Potere Latente. In questa situazione di "potere
latente" solo se il rivoluzionario agisce, prende responsabilità, egli
si rende conto di dove è il potere, di chi è il nemico e di come funzioni la... tecnoburocrazia, la
socialdemocrazia, la cristiana-democrazia, la polizia, la milizia di partito. Uno stato come il
nostro, forte di una collaborazione come ho descritto all'inizio, può tranquillamente dire che gli
oppositori politici sono dei criminali: "La repressione di stato non si scatena che per eliminare
certi eccessi, deviazioni, slittamenti di persone e gruppi che sfuggono al controllo sociale del
consenso" - ci ricordano i compagni di "A Ideia" di Lisbona. Io penso che Wilhelm Reich
rifarebbe volentieri, o almeno avrebbe buon materiale per rifarla, una nuova edizione aggiornata
e riveduta di "Psicologia di massa del fascismo" per spiegarci in termini moderni ed adeguati alla
nuova forma di potere, come è possibile che gli stessi termini, le stesse accuse usate dai nazisti e
dai fascisti contro i partigiani, di essere cioè "banditi", "delinquenti", "terroristi", cioè a livello di
delinquenza comune, vengono usati oggi dal "nuovo potere" contro gruppi ribelli, e vengono
creduti dalla gente. I compagni conoscono quel principio fisico che spiega: per spostare un peso bisogna usare
una
forza che più è maggiore e più sposta il peso. È un principio talmente palese, penso,
che tutti si è
d'accordo, sia nonviolenti, sia non-nonviolenti; l'interpretazione di tale concetto è ancora libera e
nessuno può dire che la propria è l'unica, valida, giusta per tutti. I compagni che ritengono giusto
l'uso della violenza da parte degli sfruttati (2) io penso che interpretino quel concetto in questi
termini: alla violenza del potere è necessario rispondere con la violenza proletaria altrettanto pari
e forte sia per difendere gli spazi politici conquistati, sia per conquistarne di nuovi, visto che il
potere non regala nulla se non ha in cambio un maggiore rafforzamento della sua credibilità. Il
superamento di quel concetto di potere, inteso come vertice di papa, ministri, industriali,
aggiunto a questo concetto, ha portato, secondo me, i compagni ad affrontare il potere
territorialmente, creando dove era possibile gruppi, nuclei, collettivi, ronde che colpissero
localmente i centri latenti del potere: sezioni di partiti di governo, commissariati di PS e CC,
centri di schedatura e di controllo mascherati da centri antidroga istituzionali, spacciatori di
eroina cioè informatori fissi e legalizzati di polizia, grossi uffici di speculazione. Era il cosiddetto
"contropotere proletario"; la forma, una forma, con cui gli sfruttati, gli emarginati che
prendevano una qualche coscienza politica, rispondevano in qualche modo allo sfruttamento e
alla autorità che per prima si trovavano ad affrontare. I limiti di questa forma di lotta sono evidentemente
il vivere alla giornata, il rispondere di volta
in volta alle violenze del potere, il non crearsi un programma di maggiore respiro, il fermarsi alla
semplice difesa, molte volte senza coordinamento tra gruppo e gruppo, ma una semplice vita da
fungo, oggi presente qui, domani presente là (1). La forma di lotta che, iniziando da queste
azioni, risale fino a programmarsi una strategia politica di lunga durata, fino a progettare una
nuova forma di potere alternativo a quello borghese, è quella della lotta armata. La guerriglia
urbana ha comunque le sue regole di clandestinità che devono per forza essere rispettate se si
vuole colpire efficacemente l'obiettivo e la persona fisica: i compagni devono conoscersi al di
fuori del proprio nucleo di intervento, ogni nucleo deve obbedire ad un programma più vasto la
cui determinazione è delegata ad una forma di dirigenza, ogni errore commesso o tradimento
(seppure non voluto) può costare la vita; l'uso delle mani diventa discriminante ideologica
fondamentale sia nella lotta che nel programma politico. Da questa logica autoritaria, logica e
coerente per formazioni che si richiamano al marxismo-leninismo, purtroppo non può discostarsi
io credo anche l'unica organizzazione anarchica che ha scelto la lotta armata, ponendosi
oggettivamente in funzione di avanguardia armata di un movimento, come quello anarchico, che
trova difficoltà già soltanto per difendere un singolo militante colpito dal terrorismo di stato: non
ultimo esempio, Roberto Cornacchia di Biella, condannato solo grazie ad un infame montatura.
Parlo di "Azione Rivoluzionaria" (4) e ripenso al principio che gli Anarchici hanno sempre
difeso, dall'Internazionale in poi: "L'emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori
stessi"... o non sarà! Io penso che bisogna smitizzarla! Molte volte nelle marce antimilitariste, nel parlare
coi
nonviolenti per definizione, si sentono ripetere frasi come: "La nonviolenza dice...", "questo non
è secondo lo spirito della nonviolenza...", "la nonviolenza non può praticare questo...". Ora io
penso che la Nonviolenza non è un essere divino o materiale che parla e agisce e sentenzia, ma è
una proposta pratica e ideale che ogni compagno può fare propria, come l'Anarchia. L'unico
essere vivente che parla, agisce e sentenzia è il compagno stesso: la Nonviolenza, come
l'Anarchia sono strumenti di vita, di lotta per fare ciò che si vuole fare, o altrimenti diventano un
altro dio a cui dobbiamo attenerci, magari controvoglia. Partiamo da un fatto palese: anarchia non significa
affatto caos e disordine. Chi conosce
l'anarchia e il movimento anarchico, gli anarchici, sa che hanno una disciplina interiore, un
proprio ordine morale, che permette loro di non vivere alla giornata. Chiamatelo senso di
responsabilità, visto che il desiderio di libertà, la maggiore libertà individuale (e
perciò
collettiva) possibile si accompagna sempre ad una maggiore responsabilizzazione. Quando non è
possibile delegare ad altri le proprie responsabilità, oggettivamente si è obbligati ad assumersele.
Questo per dire quanto sia importante la coscienza individuale nella qualità della lotta in senso
anarchico; e quanto sia vero che man mano che si prende coscienza anarchica, si cambia la
qualità e la forma della lotta e del comportamento... o non c'è anarchia! Oggi "qualità
della lotta", per la maggior parte del movimento anarchico, significa usare la
violenza e la nonviolenza egualmente, convinti del loro semplice uso strumentale. Un
cambiamento della "qualità della lotta" per il movimento anarchico, significa saper distinguere
tra persona fisica e istituzione. Lo so! Lo so! Noi conosciamo la Nonviolenza per tutto
quell'insieme di movimenti religiosi, sociali e di partito che ce la rendono o un innocuo
misticismo o una strategia di riforma costituzionale o una strategia di partito. Quando i
nonviolenti per definizione capiranno che il rispetto per la persona umana, la nonmenzogna,
l'amore non significa affatto rispetto per le istituzioni, speranza in leggi migliori,
democratizzazione dello stato? Quando capiranno che la rivoluzione libertaria cozza contro l'idea
stessa di stato, di autorità? Essi hanno ancora troppo rispetto per gli organi statali e per la
costituzione per poterli prendere come esempio. Tocca agli anarchici (e chi altro?) ricordare
ancora una volta che il Potere, qualunque esso sia, è Violenza. Come ricordare che il mezzo
migliore, la strategia più efficace è quella coerente con il fine. Un frutto lo si considera dal seme
e dal modo di coltivarlo. Non illudiamoci che usare oggi la
nonviolenza e domani la violenza rivoluzionaria porti allo stesso risultato. Non illudiamoci infine
che ritenere valida la violenza rivoluzionaria significhi servirsene come strumento, esserne
superiore e liberi di lasciarla quando ci pare. Essa è come il potere: puoi essere uno stinco di
santo o semplicemente in buona fede, ma la sua logica ti prende come la fame. Possibile che tutto
il discorso che il Living Theatre sta portando in giro, lo si possa ridurre ad una semplice frase:
"Bravi compagni quelli lì, eh!"? L'aggressività non bisogna confonderla con la violenza.
L'aggressività è connaturata, è necessaria
all'uomo per il bisogno di sopravvivenza, per esprimere la propria personalità e per ribadire con
fermezza i propri concetti, le proprie proposte. Quando un compagno sente rabbia per una
ingiustizia, quando si scalda per ribadire proposte che altrimenti nessuno ascolta, quando alza la
testa e non obbedisce ad un comando; si sente quell'aggressività naturale, quel giusto senso della
propria personalità e della solidarietà che sono caratteristiche importanti, basilari per ogni animo
forte. E ricordiamo che la Nonviolenza è l'arma dei forti (5). L'aggressività diventa violenza
quando questo senso della propria personalità diventa un attacco fisico, ma anche un attacco alla
psiche, di un altro a cui si riconosce una personalità, sia pure esso un avversario politico. Poiché
non sto solo parlando in termini morali, ma tengo presente la secolare lotta tra libertà e autorità,
preciso questi punti o almeno ci provo (sono ancora al livello di ricerca): dico violenza quando,
confondendo il potere con una persona fisica, la si colpisce o si tenta di colpirla, volutamente, nel
fisico fino ad ucciderla o per procurargli menomazioni psichiche. È evidente, secondo me, che
questa definizione supera il livello di aggressività (sforzo naturale di sottolineare l'eguaglianza, il
rispetto e la sensibilità che vi devono essere nei rapporti umani e in quelli politici), per arrivare
ad un senso, prima ancora che all'atto fisico, concreto, di sopraffazione, di superiorità di forza, di
piacere nel vincere che sono presenti psicologicamente nello scontro violento. Quando un compagno esalta una
azione armata "Ci voleva proprio", ed esulta alla notizia di
un'azione violenta, provoca interiormente, a sé e a chi lo ascolta, un meccanismo di
compiacimento per la eliminazione fisica dell'avversario. Compiacimento che, secondo me, non
ha molto a che fare con la Rivoluzione Sociale, di struttura, ma ancor più di comportamento che
l'anarchismo propugna e l'anarchia tende a dimostrare reale. La violenza è presente nei rapporti sociali,
come in quelli individuali, teniamolo presente!
Teniamo presente che è proprio compito dell'anarchismo tentare il ribaltamento di questi
rapporti. Ricordiamo la figura di Anarchik che appoggiando una leva su un perno tenta di
ribaltare la piramide sociale in cui sono rappresentati tutti, dall'ubriaco emarginato seduto per
terra, all'operaio, al bracciante curvo sulle cui schiene poggiano i piedi coloro che si arrampicano
fino al vertice. Il ribaltamento di questa scena è la rivoluzione sociale, non di classe.
Azione diretta nonviolenta
Il movimento anarchico non è nonviolento, ma un insieme di apporti, idee, iniziative, esperimenti
e realizzazioni tese a fare sempre di meno del potere e della coercizione. Il movimento anarchico
dunque composto di tutte le più varie componenti non appartiene ad alcuna di esse: non
appartiene alla parte anarchica-comunista, né alla anarchica-sindacalista, né alla individualista e
nonviolenta. Tocca ai compagni scegliere la strategia che ritengono migliore ed attuarla il meglio
possibile. Ora, secondo me, sostanzialmente ci sono due strategie di fondo: una che si prefigge
il
confronto-scontro costante con il potere nel tentativo un giorno di arrivare al momento
rivoluzionario della ribellione di massa, che può essere anche armata; ed un'altra che invece
tende a lavorare su quella contraddizione che sostiene il potere da parte degli sfruttati, ed è il
consenso. Un'azione anarchica nonviolenta lavora proprio su questa realtà: il potere esiste perché
vi è consenso dei subordinati. Il lavoro, la lotta di lunga, lunghissima durata è dunque togliere
credibilità allo stato, rimuovere il senso di necessità dell'autorità, il bisogno di potere che
esiste
tra i lavoratori, gli emarginati, i subordinati tutti. Mentre un compagno che accetta la prima strategia si
troverà di fronte sempre un'autorità, uno
sbirro, un carceriere e la sua violenza troverà sempre mille giustificazioni nella violenza
maggiore dello stato; chi sceglie la seconda strategia avrà a che fare non con rappresentanti
dell'autorità, ma con emarginati, lavoratori che difendono l'idea di stato, che gli risponderanno
"Un capo ci vuole sempre!", oppure gli domanderanno "come si fa a vivere senza qualcuno che
comanda?". È chiaro allora che questo confronto non può, e sarebbe assurdo il contrario, essere
violento ma deve essere necessariamente e volontariamente pacifico, nonviolento, basato sulla
informazione, sulla discussione, l'esempio, la persuasione, la cultura, l'azione diretta nonviolenta. Azione
diretta nonviolenta perché è evidente che una coscienza anarchica non la si acquista a
tavolino, o nelle discussioni, seppure animate, dei bar o delle sedi, ma nell'esperienza, nel
mettere in pratica, nel provare, nel verificare, nel lottare e poi pensarci su. Nell'azione diretta
nonviolenta è fondamentale la preparazione individuale: ognuno deve sapere cosa sta facendo,
ognuno è ...nsabile. Sia nella ADN individuale o di gruppo è fondamentale l'informazione. La
gente, e soprattutto i diretti interessati (obiettori, autoriduttori, senza-casa, occupanti, disoccupati,
contadini coinvolti nella occupazione di terre da parte di militari o dell'ENEL...) devono sapere
cosa facciamo. Per dare più peso alla azione politica, noi stessi dobbiamo conoscere bene
l'avversario e la reale situazione delle cose lì dove operiamo, è importante diffondere le notizie in
modo che tutti sappiano cosa succede. Accanto a questa opera di informazione, è necessaria la
controinformazione, ossia la risposta alle menzogne o alle interpretazioni di parte che l'autorità
diffonde. L'essere informati ed essere puntuali nella diffusione della informazione serve a due cose
fondamentali: l'essere credibili e ottenere adesioni alla lotta. Diciamo subito che accettare
adesioni non significa arrivare a compromessi con altri non-anarchici in nome della fantomatica
"unità" significa solo che altri ritengono giusta la nostra lotta su quell'obiettivo e aderiscono
sostanzialmente, mantenendo ognuno il rispetto ideologico e per le forme diverse. La credibilità
si ottiene, secondo me, quando non si ha nulla da nascondere e possiamo dimostrare di essere
diversi dall'avversario che condanniamo. Perché possiamo dimostrare che la violenza è da una
parte sola, dal potere; di cui ne è la logica espressione.
Un esempio: la lotta per il disarmo
In questi anni, tanto per tenerci in mente una situazione che stiamo vivendo anche noi anarchici,
è in atto la campagna per il disarmo unilaterale dell'Italia. Si è aderito a questa Lega, proposta
dallo scrittore Carlo Cassola, quando si è chiarito che l'unica discriminante è l'antimilitarismo,
l'impegno per l'abolizione di qualunque esercito e lo smantellamento delle armi nucleari,
nient'altro. Una discriminante talmente aperta, forse generica, che ha trovato consenso anche tra
preti, iscritti a partiti, riformisti e legalitari, oltreché tra anarchici. Perché erano chiare due cose
egualmente importanti: la necessità vitale di salvaguardare la vita fisica della Terra e della intera
Umanità da un irreversibile rischio di esplosione nucleare e di guerra (l'ultima per tutti) e inoltre
il fatto che noi anarchici non dovevamo minimamente rinunciare alla nostra personalità, al nostro
modo di fare e non dovevamo fare nessun compromesso con le altre componenti della resistenza
antimilitarista. In questo caso l'azione anarchica è possibile, ed ha più peso. Oltre a questo ci
siamo accorti che chiedere al governo di non accettare i missili, non serve a nulla: in parlamento
esiste la maggioranza per accettarli e il governo li accetta. Dunque l'unica arma che ci resta è la
azione diretta. Impedire fisicamente la installazione dei missili Pershing e Cruise in questi tre
anni di lavori militari. Cosa significa? Significa moltiplicare l'informazione antimilitarista, propagandare a
più gente
possibile, privilegiando le popolazioni direttamente interessate (pugliesi, abruzzesi, veneti e
friulani), agire affinché la stessa gente direttamente interessata attui forme di lotta perché le terre
non siano espropriate e i lavori non siano iniziati. La non collaborazione collettiva, l'occupazione
dei terreni, il contatto coi lavoratori e coi salariati costretti ai lavori di installazione sono tutte
azioni di lotta che rientrano nella Nonviolenza e che finora il Movimento ha attuato quando si
trattava di fermare i lavori delle centrali nucleari.
La difesa popolare nonviolenta
Da parte degli stessi nonviolenti per definizione si è chiarito che non vuol dire "difesa civile della
patria". Il problema non si pone nei confronti di un'invasione, ma dell'azione politica che
dobbiamo condurre internamente al territorio nazionale contro il militarismo e contro la
repressione. Di fronte a questi nemici bisogna tendere alla mobilitazione dei diretti interessati.
Proprio ricordando come l'obiettivo sia tendere a togliere allo stato la sua forza cioè il consenso.
Quando ad un ordine si oppone una Disobbedienza collettiva, più larga possibile, allora la
cosiddetta "necessità della violenza" si riduce sempre di più. A questo dobbiamo tendere: ad una
noncollaborazione che non ha in sé solo il lato negativo, ma già in sé ha il lato positivo
dell'autogestione. Perché non indire sciopero alla rovescia, in cui gli interessati decidano quali
lavori sono necessari e altri no? Perché indire manifestazioni per chiedere allo stato? e non
invece una manifestazione in cui i diretti interessati realizzino quello che vogliono? Una
contraddizione presente anche nel movimento anarchico è criticare lo stato perché non-fa,
non-dà, non-soddisfa. A noi ci importa poco se l'autorità fa o non-fa il suo mestiere, quello che ci
preoccupa è che gli sfruttati non fanno, non si creano da soli ciò che vogliono. Durante il
Convegno sulla difesa popolare nonviolenta (Verona 13-14 ottobre 1979), indetto dai movimenti
nonviolenti, sono uscite alcune posizioni molto interessanti. Oltre a sottolineare che non è
possibile parlare di difesa popolare nonviolenta distinta dalle lotte sociali, tra gli intervenuti si è
in filtrata anche la critica al "potere", alla "istituzione" in sé, cioè non più critica alle
istituzioni e
allo stato quale è ora, ma al concetto stesso. Nei quaderni di Ontignano che riguardano il progetto di
società nonviolenta (6), tra i nemici della
nonviolenza è elencato, oltre logicamente "la violenza", anche "il potere". Una proposta
interessante è stata anche quella di creare e favorire oggi tutte quelle realtà extraistituzionali che
vivono senza lo stato, e che sono realmente di base: centri sociali, unità sanitarie locali tra medici
disoccupati, iniziare lavori prendendone iniziativa, consultori, mense, consigli di quartiere non
collegati alla amministrazione comunale e ai partiti... per la creazione reale di una società che
faccia sempre meno bisogno dello stato, e che per questo deve poter credere che l'autogestione è
possibile. Purtroppo queste voci non sono poi quelle ufficiali: il programma di difesa popolare nonviolenta
non si libera da termini quali "governo parallelo", "rappresentanti del popolo", "costituzione",
senza tenere in conto che nel territorio nazionale esistono popoli non-italiani con i quali queste
proposte vanno discusse e ai quali non si può dire per principio che essi hanno gli stessi interessi
del popolo italiano (parlo del popolo friulano, del popolo sardo, del popolo occitano, slavo,
albanese, greco, zingaro) perciò non è possibile parlare di autogestione quando poi si rilancia
l'idea di governo, si decide sulla testa dei popoli e si lotta per il rispetto o la conquista di leggi
"buone". In questa situazione penso che la proposta di difesa popolare nonviolenta così come
uscita fuori dal Convegno di Verona non sia accettabile fin quando non si chiarisce, da parte
nonviolenta, l'autogestione quale assenza dello stato, socialismo quale federazione libera dei
popoli, sia italiani che non-italiani, socialismo libertario quale iniziativa dal basso, realtà da
anteporre alle istituzioni sia dello stato invaso (l'Italia) sia dell'invasore, cioè chiaro e tondo senza
padroni. Da parte nonviolenta, ha purtroppo fatto chiarezza l'intervento di un militante del M.I.R.
(movimento religioso-nonviolento) di Padova, durante un dibattito alla casa dello studente su
"Anarchia e Nonviolenza" la sera del 12 novembre 1979: "Noi siamo contro il potere, ma solo
contro il potere violento".
Può esistere un potere nonviolento?
Per la risposta vedere in apertura l'analisi del "Potere Latente". La repressione ci pone di fronte a certe
situazioni di scontro talmente alte, frontali e sfacciate in
cui sembra che la scelta nonviolenta significhi rinuncia ad una reazione immediata. Situazione
latino-americana di cui però l'Americadel Sud non ha il monopolio. Situazioni che giustificano
l'uso di sabotaggio. Riuscire a dimostrare che anche in questi casi di "Alta tensione" noi
rivoluzionari non siamo bestie senz'anima, è possibile. Dobbiamo colpire le cose, gli strumenti,
le armi dell'avversario, i luoghi, se necessario distruggere i materiali che causano morte. Il
sabotaggio delle cose. Il compito della Rivoluzione Sociale non è, io penso, abolire le idee di potere e
di autorità (la
voglia di comandare si potrà mai abolire?) ma fare in modo che non trovino strumenti per
comandare e non trovino gente disposta ad obbedire. Basta per ora! Credo che la cosa migliore di una proposta
è far scaturire una discussione, far
parlare, far decidere. Pace e Anarchia.
1) Nell'intervista rilasciata da Giovanni Agnelli ad Eugenio Scalfari su "La Repubblica" del 20
ottobre 1979, pag. 3, il presidente della FIAT dice: "Sa perché, in Italia, le cose vanno male?
Perché il sindacato è disunito e perciò spesso debole". Poi, più in là,
aggiunge: "Il pericolo in
queste condizioni è quello dell'anarchia".
2) Per violenza intendo: insieme di strategia, mezzi, azioni, atti, volutamente, ad infliggere
menomazioni fisiche, fino alla morte, e/o menomazioni psichiche all'avversario.
3) "I comunisti non hanno da evocare la violenza né da esorcizzarla, hanno da indirizzarla a fini
rivoluzionari, da selezionare scientificamente le forme, privilegiandone le forme
dell'affermazione del potere operaio e proletario per la liberazione comunista" (da un volantone
"Potere Operaio Per Il Comunismo" dell'Autonomia Operaia di Milano - dicembre 1977). Questi
tentativi di organizzazione rimasero tali, poiché, in questa logica, l'unica struttura in grado di
organizzare i gruppi di Autonomia è il "Partito", per il quale la stessa sta lavorando.
"La verità più lampante è che non sono le azioni armate che disorganizzano il
movimento, che
anzi si rafforza con esse.... È semmai l'insufficiente organizzazione, la mancanza di impronta di
partito nelle azioni militari dei compagni, a mettere in seria difficoltà il Movimento" (da "Per Il
Potere Operaio" n. 2 dei Collettivi Politici del Veneto).
4) Da "A-Rivista Anarchica" marzo 1978, pag. 39: "La critica distruttiva, la critica delle armi, è
l'unica forma che può rendere credibile e attendibile qualsiasi progetto". Eppure il documento
di
Azione Rivoluzionaria, secondo me, era partito bene con la precedente frase condividibile: "La
presenza critica, costruttiva, utopistica è una condizione necessaria ma non sufficiente, una tale
presenza oggi non può diventare egemone se parallela ad essa non si sviluppa una presenza
critica, negativa, distruttiva nei processi in corso".
Da "Anarchismo" n.25 del 1979 pag. 11: "La crescita, diffusione, sviluppo di nuclei di
contropotere non può che essere promossa dall'organizzazione clandestina. In questa si saldano
teoricamente e praticamente i nuclei che vanno a svilupparsi in fabbrica e quelli attivi nel
territorio.... Se questa è parte fondamentale dell'organizzazione clandestina, solo a questa
possono riferirsi compiti altrettanto importanti".
5) Gandhi "Antiche come le montagne" ed. Comunità: "Non posso predicare la
nonviolenza ad
un vile, più di quanto non possa indurre un cieco a godere di scene salutari. La nonviolenza è il
culmine del coraggio. Uno che alberga violenza ed odio nel suo cuore e ucciderebbe il nemico se
potesse farlo senza nuocere a se stesso è estraneo alla nonviolenza. La nonviolenza va
annunciata a coloro che sanno morire, non a coloro che temono la morte. Chi non ha superato
ogni paura, non può praticare la nonviolenza alla perfezione".
6) Questi quaderni prendono nome da una frazione agricola vicino a Fiesole, dove due vecchi
contadini sopravvivono a più di 100 che ci stavano prima. Sono un invito ad abbandonare i
grandi numeri della società artificiale e a costruire un villaggio, un invito a collegare alla
natura e alla terra la nostra autosufficienza economica e la nostra cultura. Interessante "Per
Una Società Nonviolenta": per informazioni: Giannozzo Pucci, via Paternò 2, 50015 Fiesole
(FI).
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