Rivista Anarchica Online
Desiderio di schiavitù
di Jean-Jacques Lebel
Il mio contributo a questo colloquio sulla dissidenza e sul consenso sociale sarà limitato, e
altrettanto impreciso: non coltivo l'illusione che si possa ripensare in quattro e quattr'otto la teoria
marxiana, leninista e comunista-libertaria della lotta di classe, né le sue numerose e
contraddittorie applicazioni pratiche; tenterò semplicemente di mettere in luce tale teoria e tali
pratiche dal punto di vista e per mezzo di una messa in discussione radicale di alcuni clichés,
slogans, idee acquisite, formule vuote, pubblicità menzognere che all'interno del "discorso
rivoluzionario" passano spesso come analisi e filosofia della storia. Dai primi hegeliani fino ai
pretesi "autonomi desideranti", passando per gli innumerevoli conflitti che hanno visto
l'opposizione dei movimenti "anti-autoritari" dell'ultrasinistra con le varie organizzazioni
sindacali, di partito e governative, ed in generale con tutto ciò che agisce come forza
dell'ordine,
il rapporto padrone/schiavo è stato implicitamente considerato come costitutivo della società
salariale. Il famoso binomio padrone/schiavo, sfruttatore/sfruttato funge contemporaneamente da
caricatura, da specchio, da micro-metafora, e si riproduce all'infinito nel campo sociale. Per il
momento, poco importa se "il è lo schiavo dello schiavo" o se non lo è, o se, come scrisse
Baudelaire, la donna del proletario "è la schiava dello schiavo"; quel che conta è che tutti i
tentativi storici per trasformare o abolire questo rapporto-archetipo sono fino ad oggi sfociati nel
contrario di quanto previsto ed enunciato nei programmi. Mi limiterò a porre delle ipotesi di
lavoro, senza pretendere di raggiungere alcuna conclusione.
Il dominio e la schiavitù in quanto oggetti di desiderio (rimosso, censurato, negato, ma spesso
tradotto in pratica) sono costanti comuni a tutte le organizzazioni sociali succedutesi sin
dall'antichità: teocrazia, monarchia, feudalesimo, capitalismo privato o di Stato, società nucleare
iper-centralizzata, ecc..... Il rapporto padrone/schiavo è preesistente alla società salariale e quindi
al capitalismo moderno. Il rapporto corpo prostituito/corpo prosseneta, che risale agli albori
dell'antichità, è uno dei
modelli, quasi immutabile ed eterno, osservabili in pressoché tutte le società occidentali e
orientali. Utilizzo cui l'espressione "corpo prostituito" per sottolineare che nell'antichità, così
come oggi, le donne sono ben lontane dall'esser le sole a prostituirsi: anche molti uomini,
adolescenti e bambini ne fanno una professione. Ho quindi consacrato un lungo lavoro di ricerca
a questa forma arcaica ed al tempo stesso atemporale del rapporto padrone/schiavo: il rapporto
del corpo prostituito col corpo prosseneta. Contrariamente ai teorici marxisti, io lo considero
come l'archetipo immemorabile o comunque come uno dei principali prototipi della società
salariale così come la conosciamo oggi. Riparlerò di due avvenimenti relativamente recenti,
molto diversi tra loro e purtuttavia (anche se
indirettamente) legati ad un medesimo scricchiolare o ad un unico slittamento controllato della
macchina salariale: nel 1973 il lungo sciopero attivo con occupazione della Lip e nel 1975 lo
sciopero delle prostitute con occupazione delle chiese. Questi due importanti avvenimenti di cui
ho potuto osservare da vicino il funzionamento interno ed esterno, hanno scatenato in me una
sorta di crisi di rigetto di molti clichés, slogans e idee acquisite che, come la maggior parte di noi,
avevo assorbito fin dal tempo della guerra d'Algeria e dal Maggio 68 (che sono le due esperienze
politiche che più mi hanno segnato e traumatizzato). In un secondo tempo, il momento del rifiuto
ha ceduto il posto ad un lungo periodo di riflessione solitaria e di ricerche sfociate in un lavoro
incompiuto, pubblicato in parte sotto il titolo, imposto dall'editore, de "L'Amour et l'Argent"
("L'Amore e il Denaro"), mentre il mio titolo originale era Traversée de l'institution
prostitutionelle. Le settimane trascorse alla Maison de Verre di Palente, durante lo sciopero della Lip,
mi hanno
permesso di assistere, e qualche volta di partecipare attivamente, a decine di assemblee generali,
di sedute del Comitato d'Azione e di altre riunioni tra gli scioperanti ed individui esterni. Ho
registrato sedici ore di discussioni collettive o individuali con gli operai della Lip sia durante i
tempi morti che quelli vivi della lotta. Sono stato testimone diretto del processo di
decomposizione della corrente autogestionaria tra gli scioperanti. Tale corrente, se non nella
CFDT, era prevalente almeno nel Comitato d'Azione, dove si erano ritrovati molti dei non
organizzati o di quelli non appartenenti al sindacato. Il conflitto tra le varie componenti sindacali
o extra-sindacali di questa corrente autogestionaria, a priori molto contraddittoria, non ha
impedito che un gran numero di comunisti-libertari e di gauchistes si identificasse con essa,
probabilmente a causa dei discorsi utopici e del ricorso all'azione diretta ed illegale, e a causa
della paga "operaia" (cioè non gerarchizzata, non conforme a una delle norme fondamentali del
salariato). Il frantumarsi ed infine la scomparsa di questa corrente ha permesso che trionfassero
l'ideologia e l'ordine sindacale, battuto in breccia e vinto per più di tre mesi alla fine del '73,
quando il Comitato d'Azione era il più forte. Il seguito è noto: un padrone di sinistra manager del
PSU (Neuschwander) e poi, dopo il fallimento di questo tentativo neo-modernista, la tremenda
dichiarazione resa alla stampa dai dirigenti sindacali locali durante un'assemblea generale degli
scioperanti: "vogliamo un nuovo padrone". Fermiamoci su quest'ultima richiesta, fondamentale
in quanto costituisce l'intoppo, il punto
cieco, il nucleo, se non inanalizzabile ed incomprensibile, almeno fino ad ora non analizzato, di
questo lungo ed esemplare conflitto sociale. Non c'è nessun bisogno, spero, di ricominciare a
polemizzare e a commentare questo sciopero, la cui storia ed i cui particolari si possono supporre
noti a tutti coloro che o hanno militato con gli operai o hanno fatto una volta almeno nel 1974 il
viaggio sino a Besançon, oppure hanno anche solo letto e studiato i documenti originali e i
numerosi articoli, se non addirittura i libri prodotti dagli stessi operai o pubblicati dai diversi
testimoni ed osservatori. Che l'esperienza autogestionaria, o pretesa tale, non possa attualmente
riuscire, né di fatto realizzarsi in parte o pienamente date le costrizioni e le leggi dell'economia di
mercato, del rifornimento di materie prime e della distribuzione della merce (strettamente
controllata dallo Stato o dai trust), e dato anche il ruolo regolatore e disciplinario che gli apparati
sindacali e politici tengono a ricoprire, è un'evidenza lapalissiana di cui purtroppo molti
gauchistes si sono accontentati per spiegare o denigrare ciò che loro hanno chiamato la "sconfitta
della Lip". Per quanto mi concerne, c'è ben altro. Se uno dei movimenti di sciopero più
immaginativi, entusiasti, illegali, più potentemente emblematici della nostra epoca, che ha
suscitato un massiccio transfert d'affettività non solo in molti proletari francesi, ma anche in altri
paesi d'Europa e persino in Giappone, se un movimento di sciopero attivo che, secondo un
ministro, "ha tenuto l'intera Francia col fiato sospeso per dieci mesi" (a causa del potenziale
"d'alternative alla crisi della disoccupazione" e allo smantellamento di fabbriche) è potuto finire a
quella maniera, mi sembra inammissibile cavarsela con conclusioni di tipo economicistico. Il
caso Lip è stato sopravvalutato per la speranza ed i timori suscitati tra sostenitori ed avversari,
che parallelamente gli hanno attribuito il valore di test sociale. Questo formidabile movimento,
alla ricerca di un'altra logica salariale, o post-salariale, si è saldato almeno parzialmente con la
richiesta e la speranza di un nuovo padrone. Molti di noi che non erano né disincantati né
corazzati da anni di militanza ne sono stati profondamente scossi. Mai, neppure nel grande
sciopero per lo smantellamento della'ORTF del 1974, a cui ho partecipato attivamente, ho visto
all'opera con altrettanta chiarezza gli apparati sindacali nella loro funzione prossenetica. Né il
comitato di sciopero né le assemblee generali di scioperanti della'ORTF furono consultati sul
proseguimento o sulla fine dello sciopero (che durava da parecchi mesi e che aveva dato luogo
all'occupazione dell'ufficio del PDG e ad ogni tipo di azioni molto dure). La fine dello sciopero
fu decretata dagli apparati politici e sindacali ed annunciata dalla radiotelevisione da un bonzo
della CFDT. Gli scioperanti dell'ex ORTF appresero che la loro lotta era terminata ascoltando la
radio, senza che fosse stato chiesto il loro parere. Tale è stato il punto di partenza del mio lavoro
di ricerca sull'industria prostitutiva: il non-detto delle lotte sociali ed il consenso incarnato dalle
istituzioni intermedie (sindacali e/o prossenetiche). La stessa credenza nella natura inevitabile ed insostituibile
del padronato si ritrova in molti altri
scioperi recenti, ma aggravata da un amore-passione per l'istanza padronale in cui si ritrova lo
stesso desiderio evidente per la costrizione salariale, la disciplina padronale, organizzazione
razionale del lavoro, la sicurezza del posto di lavoro, e quella curiosa sorta di inassistenza sociale
permanente che è la regola d'oro della Mala. Nel mondo prostitutivo si ritrovano così moltiplicate
le suddivisioni in classi ed in strati sociali distinti che funzionano tutte secondo principi
permanenti, quale che sia il regime politico o la religione dominante. Ho basato il mio lavoro su
tre anni di discussioni con prostitute, protettori e tenutarie svoltesi in Francia, negli USA e
altrove, su numerosissimi documenti e narrazioni storiche studiati alla Biblioteca Nazionale e
altrove, e su testi o libri vecchi o recenti scritti da prostitute o tenutarie tra cui, La Partagés
(Ed.
de Minuit), La Punition (Ed. Bougrois), Le noir est une couleur di Griselidis Réal
(Ed. Balland)
e gli altri scritti di Griselidis apparsi nella rivista anarchicheggiante Marge (tra cui il suo
manifesto intitolato "Prostituirsi è un atto rivoluzionario") e in Liberation, La Derobade
(Ed.
Hachette), Les Mémories de Nell Kimball (Ed. J.C. Lattés) Le 122 (Ed.
O. Orban). Ho anche
prestato grande attenzione agli articoli pubblicati da donne prostitute americane che hanno creato
un'organizzazione ed un giornale intitolato Coyote, dando indicazioni molto più precise e meno
ipocrite sul loro mestiere e sul loro rapporto con il protettore di quanto non si possa leggere nella
stampa europea. In alcuni di questi testi l'amore della prostituta per il suo magnaccia (che non è
soltanto il suo padrone, ma spesso il suo carnefice e torturatore) è proclamato come una
professione alle norme della ragione ragionate e alla dichiarazione dei diritti dell'uomo e della
donna, ed a maggior ragione irriducibile ai discorsi femministi o gauchistes sulla "liberazione".
(...) A partire da tale lavoro io proporrò una messa in discussione, o se si preferisce una messa in
evidenza, di questo archetipo del sistema salariale costituito dalla istituzione prostitutiva, e dei
diversi tipi di pratiche commerciali ed industriali, sociali ed economiche, sessuali e religiose che
la prostituzione ha riprodotto da millenni a questa parte. La religiosità, anche se negata, vi gioca
un ruolo centrale. Come tutte le istituzioni sociali, la prostituzione fu fondata su un sistema di
credenza ora esplicita, ora implicita e rimossa, che la maggior parte dei comportamenti sociali,
economici, professionali, affettivi, sessuali ecc. riproduce ed applica scrupolosamente, anche nei
partiti, nei sindacati e nelle organizzazioni che si pretendono "rivoluzionarie". Già al tempo di
Solone, l'istituzione prostitutiva era il prototipo dell'Uno (famiglia, chiesa, partito, scuola,
fabbrica, ecc.), il prototipo dell'organizzazione sociale razionalizzata all'esterno, taylorizzata
secondo il principio del rendimento e della redditività. Il corpo prostituito (poco importa se
"maschio", "femmina" o "transessuale") è il robot ideale o, secondo l'espressione di Marx,
"l'eunuco industriale" più compiuto, più socialmente redditizio. Non bisogna confondere il corpo
prostituito o il corpo prosseneta con i loro miti e travestimenti. La massiccia mitizzazione della
prostituzione (nella grande stampa, nel cinema, a teatro, alla TV, nei romanzi, ecc.)mostra a che
punto l'immaginario ed il simbolico possano nascondere o cancellare il reale ed il sociale. Per il momento mi
limiterò ad esaminare la logica interna di questa istituzionalizzazione del
desiderio di schiavitù, di questa paura ed addirittura orrore della libertà, di cui l'industria
prostitutiva, fin da prima dell'avvento del monoteismo giudeo-cristiano, fin da prima
dell'avvento delle società capitalistiche private o di Stato, ha dimostrato la forza e la perennità.
Partendo dall'analisi e, speriamo, da una prima comprensione di questa logica sociale incosciente
che dà alla schiavitù salariata la sua "verità", si potranno eventualmente progettare strategie
diverse da quelle a cui la vecchia sinistra parlamentarista ed i burocrati leninisti "impegolati nel
puritanesimo e nel disconoscimento dei loro desideri bulimici di dominio" vogliono ridurre le
loro e le nostre esistenze. Perché il meccanismo salariale cessi di riprodursi automaticamente di
generazione in generazione attuando sotto la pressione dei conflitti sociali lo stretto necessario in
modernizzazione tecnologica perché si continui a credere al "progresso", bisognerà mostrarsi
capaci di smontarlo. Iniziamo osservando in concreto le sue modalità di funzionamento e
riconoscendo la finalità sociale del desiderio salariale.
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